sabato 27 agosto 2016

[TOLKIENIANA] Théoden, la forza e l’onore

theoden06

di Isacco Tacconi - Fonte: http://www.radiospada.org/

Dopo il nostro ultimo incontro con Dama Éowyn, riprendiamo il nostro percorso a ritroso lungo il cammino che ci riporta a Rohan, attraverso la valle ricoperta da un verdeggiante tappeto di praterie all’imbocco della quale appare, come sentinella di guardia, la solitaria altura di Edoras. Una piccola città fortezza di solido legno, giovane per i longevi elfi ma antica per le brevi età degli uomini, sulla cui vetta si innalza, alla maniera di “città posta sul monte”, lo splendente palazzo d’oro di Meduseld, dimora di Théoden figlio di Thengel, Re del Mark di Rohan.
La figura odierna è quella di un vecchio re, seduto, quasi sprofondato sul suo trono, privato del suo vigore, avviato verso la tomba prima del tempo a causa di quel sentimento di disperata inerzia che paralizza la volontà prosciugando alla radice ogni slancio d’ardore e di eroico sacrificio. Furono sufficienti pochi ma puntuali consigli, sinuosi come serpi che si annidano fra le pieghe delle vesti, per avvelenare la mente e il cuore di un re, un tempo saggio e valoroso combattente. Ma ahimè le cattive compagnie di cui molto spesso ci circondiamo sono la nostra rovina, e anziché ricercare il bene arduo, ci accontentiamo stoltamente del bene facile e futile, gettandoci nelle spire soffocanti della concupiscenza indomita. Quanti i “vermilinguo” che nel segreto, mentre il sonno della nostra coscienza assuefatta al male si fa più profondo, versano nelle nostre orecchie le gocce di un mortale veleno? Molti sono i nemici della nostra anima, a volte sono persino quelli della nostra stessa casa quando ci impediscono di innalzarci verso la carità nella fede, opponendo all’amore di Dio fino al disprezzo del mondo, l’amore del mondo fino a giungere, inevitabilmente, al disprezzo di Dio.
A volte è necessario che la Divina Provvidenza parli al nostro cuore nell’intimo dei pensieri, o nel segreto dei nostri sogni, talvolta invece essa manda delle persone amiche, “messi celesti” a destarci dall’ingannevole sonno del peccato. Talaltra, un dolore o un lutto può divenire un rimedio salutare per scuoterci dal sonno della sciagurata volontà di potenza che pretende innalzare l’uomo, gnosticamente, verso il Monte del Signore per impadronirsene. Per lo più ci sono nascosti gli strumenti con cui la Divina Sapienza si serve per rompere le catene della nostra schiavitù. Per quanto ne sappiamo persino uno spettro che appare verso la mezzanotte e poi, allo spuntar dell’alba, fugge insieme alla brezza mattutina del mare che spira pungente fra le mura del castello di Elsinore, anch’esso può tornare a dare gloria a Dio. Così il fantasma del padre di Amleto, avvelenato dall’amato fratello Claudio, che nel silenzio cupo della notte sussurra all’orecchio del figlio omonimo: «Ricordati di me». Un’anima in pena che geme dalla prigione di fuoco in cui si è risvegliata, suo malgrado, per non aver avuto il tempo di riscattare il male compiuto in vita, assassinata da colui che dallo stesso padre era stato generato. È questo un paradigma della condizione umana segnata dal delitto di Caino, una storia antica e nuova che ritorna aleggiante sopra le acque torbide del cuore dell’uomo ogni qualvolta, alla luce della verità, preferisce le fitte tenebre dell’errore. A noi la scelta, possiamo prediligere l’accomodante compagnia di un «vermilinguo» che coccola il nostro peccato, confortandoci nel male nell’attesa di gettarci ben presto nella fossa, o scegliere di scuoterci dal torpore del peccato per tornare a “respirare l’aria libera” ed ascoltare parole di speranza.
Orbene, incominciamo questo breve tratto di strada tenendoci ben saldi al bordone della fede, e quantunque la guardia del palazzo dovesse intimarci di lasciarla fuori, di metterla cioè da parte, noi ancor più fortemente la stringeremo per evitare gli ingannevoli bagliori di un’aula semioscura dove un re stanco e vegetante aspetta un risveglio di tuono che solo può romperne il mortifero sonno.
Ad imitazione della paterna esortazione di San Paolo, Tolkien invia Gandalf a Théoden per assolverne i vincoli, ricordandogli i suoi doveri i quali, alla luce della verità ora chiara, non appaiono più così opprimenti: «Nox praecéssit dies autem appropinquávit abiciámus ergo opera tenebrarum et induámur arma lucis, sicut in die honeste ambulémus» (Rom 13,12). “La notte è avanzata, bisogna destarsi dalle tenebre del sonno”, un richiamo che riecheggia tanto nelle aule intarsiate del re del Mark quanto nei cuori dei cattolici che si trovano, come noi oggi, ad affrontare tempi come quelli attuali. Tempi di oscurità e di dubbio, di fumo e polvere; tempi di attesa e di gemiti inesprimibili in cui gli ultimi superstiti fra gli uomini dell’Ovest devono radunarsi in un’unica falange, sotto il Vessillo della Croce, per resistere alle orde della Mordor infernale che si prepara a sferrare l’ultimo attacco prima della fine. A noi è toccato in sorte il fardello di conservare la fede contro ogni attentato alla verità, la speranza contro l’ombra spaventosa della disperazione, la carità contro il male soverchiante che tutto ingoia come l’insaziabile «leviatano», démone del mondo antico.
Sarà questo stesso il destino di re Théoden, resistere nei giorni dell’ira, bere la feccia fino in fondo senza la consolazione di tornare a vedere giorni felici per il suo casato. Egli dovrà però essere liberato, quasi “esorcizzato” dall’inedia per poter riprendere possesso di sé stesso e, quindi, del suo regno. Soltanto uscendo dalla menzogna di cui la sua dimora era satura, il vecchio re poteva ritrovare se stesso, giacché, come comprese per divina ispirazione il re pastore d’Israele che conquistò la Gerusalemme terrena al Re del Cielo: “in lúmine tuo vidébimus lúmen”. Allora soltanto il re di Rohan vedrà la realtà così com’è, e dopo lunga cecità potrà riconoscere rincuorato: “«Non è poi così buio qui». […] «No», disse Gandalf. «E gli anni non pesano sulle tue spalle come alcuni vorrebbero. Getta via il bastone!». Dalla mano del Re il nero bordone cadde rumorosamente sulle pietre. Egli si rizzò, pian piano, come un uomo rigido dal lungo curvarsi su qualche triste e duro lavoro. Infine si eresse alto e dritto, ed i suoi occhi blu guardarono il cielo che si apriva[1].
Si rinnova quella profezia che mai verrà meno secondo cui soltanto “la verità rende liberi”, restituendo forza e vigore al braccio rattrappito, ardore al cuore oppresso, scoprendo la brace mai estinta che sopita giaceva sotto la cenere del peccato. Scuotiti o re! E torna ad impugnare la lancia contro i tuoi nemici perché essi si sono moltiplicati! «È ormai tempo di svegliarvi dal sonno» dice l’Apostolo, e San Tommaso commentandone il significato, spiega che questo torpore “si intende del sonno della colpa, secondo quanto si dice in Ef 5,14: «Svegliati tu che dormi, sorgi dai morti…»; o anche della negligenza, secondo Pr 6,9: «Fino a quando pigro, te ne starai a dormire?». Dunque è tempo di sorgere dal sonno della colpa mediante la penitenza. Il Sal 126,2 dice: «Vi alzate dopo esservi messi a sedere…» dal vero sonno della negligenza, mediante la sollecitudine delle buone opere. Is 21,5: «Alzate o capi, prendete lo scudo». Sir 32,15: «L’ora di alzarti non ti rattristi»”[2].
Gandalf il Bianco, quasi come un profeta dell’Antico Israele, si presenta alla corte del re per ricondurlo all’osservanza della legge del Signore, esortandolo a combattere per difendere il gregge a lui affidato. Nel libro l’incontro tra Gandalf e Théoden è molto meno spettacolare di quanto non appaia nella versione cinematografica, infatti, nel capitolo intitolato “Il re del Palazzo d’Oro” che ha come sfondo la corte di Meduseld, ciò che viene narrato è un vero e proprio “invito alla conversione”. In questo senso il rapporto che corre tra Gandalf e Théoden, ma anche tra Gandalf e Denethor, non può non ricordare in maniera analogica le figure di Samuele e Saul, Nathan e Davide, Isaia ed Ezechia, Elia ed Acab, e così via. Lo stregone bianco cavalca verso Edoras per sostenere il canuto re con i consigli e con la spada, ma, soprattutto, con quel medesimo «fuoco segreto» che animò la vita interiore di John Ronald Reuel Tolkien: la fede. Essa è quella fiamma nascosta che appare rischiarando la Notte delle notti, durante la Vigilia Pasquale, in un crescendo melodioso che fa eco al canto degli angeli presso il sepolcro: «Lumen Christi!». E quando la luce che si sprigiona da quella fiamma divina si comincia a diffondere gradualmente nell’oscurità, gli occhi cominciano a distinguere i contorni delle cose che poco prima l’oscurità privava di consistenza, appiattendole nel suo vuoto nulla: è l’uguaglianza delle tenebre. Soltanto alla luce della verità si possono riconoscere, non solo le cose così come sono, ma persino penetrarne la sostanza per scorgerne la mano del Divino artefice che dal nulla le ha plasmate dando loro forma e consistenza, fatte come segno di una realtà più alta che trascende il loro semplice scopo immanente. Questo è il primo frutto della conversione di sire Théoden, la chiarezza della verità che lo restituisce a sé stesso e al suo popolo.
Ma la gioia per essere tornato alla libertà è breve, e il dolore presto o tardi viene a visitare coloro che gli sono soggetti per natura: una sentenza che non risparmia né i giusti né i malvagi. Ai piedi della tomba del proprio figlio, amato e perduto, strappato come giovane virgulto della casa di Eorl, il vecchio re Théoden piange lacerato dal dolore: «Ahimé questi giorni funesti spettano a me. I giovani periscono, e i vecchi resistono. Io dovrò vivere per vedere gli ultimi giorni della mia casata». Chi potrà ridire lo spasimo così profondo e incontenibile di un padre costretto a chiudere quegli occhi che egli stesso vide aprirsi al mondo quando uscirono dal grembo materno? «Un genitore non dovrebbe seppellire il proprio figlio», geme nel lancinante senso di giustizia il sovrano, ultimo della sua stirpe, che deve portare su di sé il fardello dell’onore dei suoi padri e l’afflizione dei suoi contemporanei. Una constatazione tanto dolorosa quanto indubitabile dell’oggettiva innaturalità del male e della morte, non può non toccare il cuore dell’uomo.
Ma ancor più degna di canzoni e di poemi è la forza con la quale quel dolore straziante e incomunicabile viene affrontato dal Re, che soffre e sopporta trascinando la propria croce fin quando la moira Atropo ne fisserà il termine.
La vita dell’uomo è segnata dalla sofferenza, dal suo nascere fino al suo termine, ed essa è la dimensione più concreta del suo esistere sulla terra, ovvero ciò che fa presente il mistero del peccato e il destino degli uomini votati alla morte. Invero, non c’è un’esperienza che faccia sentire così vivo l’uomo come la morte. Eppure, dinanzi alla sofferenza e alla morte ci sono solo due modi, in ultima istanza, di porsi: affrontarle con virile e cristiana rassegnazione, consci dell’ineluttabilità del destino di questo “corpo di morte” animato, tuttavia, dalla speranza nella vita eterna, oppure la cieca disperazione che può prendere la forma di un isterico rifiuto, o di un cinico “nulla” esistenziale.
Il sovrano dalla candida barba, signore dei cavalli, abbraccia la sua croce e avanza nel quotidiano combattimento per recarsi, armato e fiero, incontro al suo destino. Infatti le vicende legate al re del Mark di Rohan assumono via via l’aspetto di un’epopea cavalleresca, il cui primo capitolo presenta la seconda grande prova di Théoden, dopo la morte del figlio suo unigenito, ossia la battaglia al Fosso di Helm, dove si deciderà non solo il destino del regno di Rohan ma di tutta la Terra di Mezzo. Saranno infatti le lance dei suoi Rohirrim, che si getteranno intrepidi dal Trombatorrione sulle picche degli urukhai di Isengard travolgendoli, a decidere anche le sorti di Minas Tirith sui campi del Pelennor.
Così narra J.R.R. Tolkien l’epico finale della battaglia al Fosso di Helm e il trionfo di Théoden sulle armate di Saruman: “In mezzo al clamore apparve il re. Il suo cavallo era bianco come neve, d’oro era lo scudo e lunga la lancia. Alla sua destra cavalcava Aragorn, l’erede di Elendil, e dietro di lui i signori della Casa di Eorl il Giovane. La luce si diffuse nel cielo. La notte scomparve. «Avanti Eorlingas!». Con un urlo e un grande fragore partirono alla carica. Come un boato giù dai cancelli, come un uragano sul ponte, come vento fra l’erba travolsero nel loro galoppo le schiere di Isengard. […] Così Re Théoden uscì a cavallo dal Cancello di Helm e falciando ogni cosa avanti a sé giunse alla grande Diga. Ivi la compagnia s’arrestò. La luce intorno a loro si fece intesa. Raggi di sole avvamparono sui colli a oriente e scintillarono sulle loro lance”[3].
La liricità di queste descrizioni innalza l’immaginazione di chi legge in quella porzione di realtà così profonda e così sottile che chiamiamo «fantasia», ovvero la potenza immaginativa e rappresentativa dell’anima che fa presente a noi stessi in maniera indubitabile la nostra natura intimamente spirituale.
In questo senso il ruolo di Rohan è fortemente evocativo di tutti quei valori che la cavalleria cristiana ha incarnato nei secoli luminosi del Medioevo quali il coraggio, la fedeltà, l’onore, il sacrificio, il servizio, la forza, la devozione, la guerra santa e quel salutare spirito di crociata che segna tutta la vita cristiana dal sorgere del sole al suo tramonto, secondo le parole di Giobbe “militia est vita hominis super terram et sicut dies mercenarii dies eius” (Job 7,1). In tempi non sospetti questo cardine della fede cattolica era pacifico, e nemmeno era pensabile una vita cristiana senza quella disposizione al combattimento, maschia e virile, che ha sospinto tanto i martiri dei primi secoli quanto i missionari di ogni tempo a espandere il Regno visibile di Cristo, cioè la Chiesa, al semplice scopo di sottrarre terreno al dominio tenebroso di satana che, fino all’avvento del nostro Divin Redentore, si estendeva su tutta la terra.
«Dove sono cavallo e cavaliere? Dov’è il corno dal suono violento? Dove sono l’elmo e lo scudiere, e la fulgida capigliatura al vento? […] Son passati come pioggia sulla montagna, come raffiche di vento in campagna; I giorni scompaiono ad ovest, dietro i colli che un mare d’ombra bagna». Questo breve carme, di cui riporto soltanto alcuni versi, nella versione cinematografica delle “Due Torri” vien fatto sospirare, quasi come una preghiera, a Re Theoden, mentre nel libro è Aragorn che la canta a Legolas e Gimli spiegando loro: «Così parlava a Rohan tanto tempo addietro un poeta obliato che narrava quanto fosse alto e bello Eorl il Giovane, giunto galoppando dal Nord; ali aveva ai piedi il suo destriero, Felaròf, padre dei cavalli. Queste son parole che gli Uomini cantano ancora di sera»[4].
Théoden, come quasi tutti i personaggi tolkieniani, è una figura complessa, e quando utilizzo questo aggettivo mi riferisco sia alla sua psicologia interna che lo rende vero ed autentico, e per questo prossimo e familiare all’esperienza personale del lettore, sia alla sua altissima valenza simbolico-religiosa.
Questo vecchio re si trova a dover riscattare l’onore perduto negli anni in cui ha lasciato che il proprio regno cadesse in disgrazia, abbandonato nelle mani del suo consigliere Grima Vermilinguo. Costui, un tempo uomo di Rohan, rinnegò la propria anima vendendosi a Saruman, tradendo il suo re, la sua terra e il suo popolo. Subdolamente addormentato in uno stato di semi-possessione diabolica indotto dai velenosi consigli di Grima che, come abbiamo visto, furono la causa anche del malessere interiore di Dama Éowyn, Théoden deve attraversare un tempo di espiazione e di riscatto che si concluderà con la morte violenta sul campo di battaglia.
L’onta per la sua stoltezza nella vecchiaia è tale da essere insopportabile. Per riscattare il proprio onore e quello della propria casata, egli compie quasi un “voto” che ricorda quello che compì San Luigi IX Re di Francia, quando, essendo scampato ad una malattia, giurò d’intraprendere una nuova Crociata per riconquistare Gerusalemme. Sappiamo che nessuna delle due spedizioni intraprese dal santo Re di Francia ebbe successo. Addirittura nella seconda crociata praticamente non si diede battaglia, giacché, appena poco dopo lo sbarco, il suo esercito, ed egli stesso, fu colpito da un’epidemia di peste che ne determinò l’umiliante ritirata.
Ma quale somiglianza può esserci tra il figlio di Thengel e il figlio di Bianca di Castiglia? Entrambi moriranno in terra straniera, ambedue spireranno nel tentativo di liberare una città «santa», entrambi affrontano una battaglia di cui si dispera il successo consapevoli che vi troveranno la morte, ambedue con l’armatura indosso cadranno conservando il proprio onore. I due re, uno realmente esistito l’altro soltanto nell’immaginario cristiano di Tolkien, condividono la virtù della fortezza che gli fa sperare la ricompensa nel mondo che verrà.
La fine di Théoden, al pari di quella del “Rex Christianissimus”, appare ingloriosa e vana, non trafitto dalla lama dei nemici ma schiacciato dal proprio stesso cavallo. Nevecrino, il destriero del re, sarà la cagione della sua morte. Quasi a significare che la gloria del suo casato, il cavallo emblema e vanto di Rohan, diviene lo strumento mortale della sua condanna. Tuttavia esso è anche un segno di divina predilezione, la quale ha riservato al valoroso re una morte che è sottratta al gaudio dei suoi perversi avversari. Nessun nemico infatti potrà vantarsi di aver abbattuto il sovrano di Rohan, ma per un decreto del Cielo la morte lo prenderà con sé preservandolo dallo scempio dei suoi nemici. Similmente San Luigi, stroncato non dalle scimitarre degli infedeli maomettani ma dalla pietosa mano dell’angelo sterminatore, che con la falce della peste porrà fine alla sua luminosa esistenza.
Il corpo spezzato di sire Théoden, immagine dell’eucaristico pane, è offerto in sacrificio per i suoi che aveva tanto amato. Frantumanto dal suo stesso cavallo, come il chicco che morendo porta frutto, Théoden re si trova a restituire il debito della vita dopo aver combattuto valorosamente, riacquistando l’onore perduto. Rivolto al giovane Merry, cadutogli accanto dopo aver colpito il Servo dell’Oscuro signore, il re agonizzante sussurra: “«Addio Messere Holbytla!», disse. «Il mio corpo è a pezzi. Torno dai miei padri. Ma anche in loro compagnia non avrò da vergognarmi. Ho abbattuto il serpente nero. Un mattino spietato, un giorno felice, un tramonto dorato!»[5].
Come i grandi re e patriarchi dell’antico Israele, Théoden andò ad aggiungersi al suo popolo, per dimorare eternamente nella casa dei suoi padri. Così perirono il cavallo e il cavaliere, uniti in vita e in morte, per la gloria di Dio e la salvezza dei loro congiunti. Similmente Re Luigi IX “il Santo”, con “le braccia in croce e coricato sulla cenere, rese la sua anima a Dio nel 1270, nell’ora stessa nella quale Cristo morì sulla croce. La vigilia della sua morte ripeteva: «Andremo a Gerusalemme». Nella Gerusalemme celeste, conquistata dalla sue sofferenze in mezzo alle avversità, egli doveva regnare con il Re dei re[6].
Esempi di virtù eroica, i due sovrani rappresentano il modello del vero cristiano, combattente instancabile e umile servitore che nel pellegrinaggio armato della vita presente pone il suo cuore e la sua mente lassù, nelle sale splendenti della Gerusalemme celeste, mentre cavalca intrepido verso la morte. “Oh felice Alleluia, quello di lassù! Alleluia pronunciato in piena tranquillità, senza alcun avversario! Lassù non ci saranno nemici, non si temerà la perdita degli amici. Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente angustiata, lassù da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nel reale possesso; qui in via, lassù in patria. Cantiamolo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere il gaudio del riposo ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, poiché, al dire dell’Apostolo ci sono certuni che progrediscono in peggio. Se tu progredisci, cammini; ma devi progredire nel bene, nella retta fede, nella buona condotta. Canta e cammina! Non uscire di strada, non volgerti indietro, non fermarti! Rivolti al Signore”[7].
Sancte Lodovice, ora pro nobis.





[1] Il Signore degli Anelli, cit., p. 628.
[2] Expositio et Lectura super Epistolas Pauli Apostoli. Ad Romanos I, lect. 3, n. 1062.
[3] Il Signore degli Anelli, cit., pp. 657-658.
[4] Ibidem, 619.
[5] Il Signore degli Anelli, cit., p. 1012.
[6] 25 agosto. San Luigi Re e Confessore, in Messale Romano, D.G. Lefebvre o.s.b. (a cura di), Torino 1957, p. 1502.
[7] Dai «Discorsi» di sant`Agostino, vescovo, Disc. 256, 1. 2. 3; PL 38, 1191-1193.