lunedì 1 agosto 2016

Darwin sì, Darwin no, Darwin forse

Dopo i precedenti riproponiamo anche questo articolo-lettera, datata ma interessante, di M. Quagliati, uscito all’epoca su MMMGroup. Sebbene, in alcuni punti, le nostre opinioni divergano da quelle dell’autore, ci pare fornisca spunti utili. [RS]

di Mauro Quagliati - Fonte: http://www.radiospada.org/
 
Gentile dott. Telmo Pievani,
e per conoscenza ai membri competenti del Comitato Scientifico del Festival della Scienza,
la mia passione per le questioni evolutive e antropologiche mi ha portato ad assistere a un buon numero delle conferenze tenutesi durante le tre edizioni del Festival della Scienza, riguardanti il dibattito sull’evoluzione (il mio è un interesse da dilettante, essendo infatti un ingegnere ambientale). Ero presente anche all’ultima del 6 novembre 2005, al termine della quale avrei voluto porle una serie di domande che per complessità e lunghezza sarei stato impossibilitato a esporre in maniera corretta. Per cui ho preferito affidare a questo scritto alcuni dubbi che ho maturato in questi anni e cercare di formulare un pensiero più chiaro e ponderato possibile (temo troppo lungo, spero non tedioso).
Il primo problema è che non capisco il messaggio di totale chiusura del dibattito evoluzionista che emerge dalle tavole rotonde a fronte di proclami e titoli che invece accennano a “pluralità”, “dibattito”, “diversità”. Domenica scorsa avete  chiuso la conferenza dal titolo ” Darwin si, Darwin no, Darwin” forse” asserendo che:
  • l’evoluzione è un ormai un dato di fatto provato oltre ogni ragionevole dubbio e non più una teoria, per cui non vale nemmeno la pena discuterne”
Mi piacerebbe capire meglio, dato che le affermazioni apodittiche non mi piacciono (e non dovrebbero piacere a nessuno nella comunità scientifica), e soprattutto non mi piace la confusione strumentale che si fa tra i “dati di fatto” e la teoria esplicativa. Cerchiamo di dare il giusto senso alle parole. A me sembra che l’affermazione di cui sopra sia certamente condivisibile, intesa in questi termini:
  • “vi sono prove conclusive dimostranti che, da quando la vita è comparsa sulla Terra (2 o 3 miliardi di anni), vi sia stata una successione / trasformazione / evoluzione delle forme viventi, che si sono manifestate nelle successive epoche geologiche, secondo morfologie che presentano relazioni gerarchiche (Phylum, Classe, Specie) e una parentela con le forme viventi odierne”.
Spero che una formulazione del genere sia abbastanza sensata. Detto questo, la teoria dell’evoluzione darwiniana è una teoria sul meccanismo con cui funzionano le trasformazioni evolutive, ovvero sulle leggi che hanno determinato quelle forme biologiche. Secondo tale modello esistono due forze motrici dell’evoluzione:
–          la grande varietà dei caratteri prodotta dal rimescolamento sessuale (l’enunciato originale è oggi corretto dalla formulazione neo-darwiniana, che prevede l’intervento “creativo” della mutazione genetica);
–          l’intervento continuato e su tempi molto lunghi della selezione naturale, forza cieca e imparziale che opera per ottimizzare gli individui e le specie secondo severi criteri di utilità e vantaggio.
La domanda è la seguente. E’ possibile, nel mondo scientifico, contestare questo paradigma esplicativo vecchio di un secolo e mezzo, che pretende di spiegare tutte le manifestazioni naturali? Da quel che capisco uscendo dalle conferenze del Festival pare che non sia nemmeno legittimo. Il Comitato Scientifico non si è affatto occupato di confutare le obiezioni al darwinismo. Ad esempio il dibattito del 30 ottobre tra evoluzionismo e “progetto intelligente” si è risolto con un nulla di fatto, dato che, per ammissione dello stesso moderatore, non si sono trovati degli esponenti della teoria alternativa che venissero a sostenerla pubblicamente.
La teoria egemone prevede, in parole molto povere, che tutte le forme di vita sulla Terra si siano avvicendate grazie all’accumulo di una serie vantaggiosa di errori di copiatura del DNA (che costituisce l’unico e ultimo “progetto” costitutivo della vita). Se posso usare una metafora “edilizia”, l’idea che mi sono fatto della Teoria Sintetica neo-darwniana è più o meno la seguente:
  • “C’era una volta una campagna disabitata. Passarono i secoli e, ad un certo punto, ecco spuntare la prima casetta, piccola, bella e perfettamente funzionale. Non abbiamo notizie né dell’ingegnere che progettò l’edificio né dei geometri e operai che si occuparono della costruzione, sappiamo però che in poco tempo si forma un villaggio florido e in armonia con il paesaggio. Tra i vari abitanti delle case, occupati nelle diverse mansioni necessarie alla vita di tutti i giorni, vi è un gruppo di operai che ha il compito di capitale importanza di ricopiare il progetto della casa in modo che serva alle generazioni successive. Si badi bene questi addetti sono del tutto ignoranti di scienza delle costruzioni e di carpenteria, sono dei semplici amanuensi, che ripetono operazioni seriali con la massima cura, pena il crollo dell’edificio così ben progettato. Ed infatti sono molte le case che, a causa di errori di copiatura, vengono tirate su con una finestra su una parete portante, o con un pilastro in meno, e inevitabilmente crollano. Però dopo secoli e secoli di storia del villaggio, gruppi di case con piccole modifiche vantaggiose (cioè che per puro caso stavano in piedi) si sono conservate e, sommando modifica su modifica, arrivarono a realizzare il World Trade Center.”
Il racconto purtroppo evita accuratamente di parlare della costruzione degli edifici “intermedi” tra la casetta e il grattacielo, di cui si hanno scarsissime notizie. Può darsi che mi sbagli e che questa mia immagine fiabesca di una natura alquanto “stupida” e fortunata sia solo il risultato di un’istruzione liceale di basso livello tendente a banalizzare le scienze naturali e la biologia. Purtroppo la teoria darwiniana per le scuole medie e superiori (figuriamoci le elementari) è, nei fatti, una sorta di catechismo, la cui potenza esplicativa per degli studenti inermi, ha lo stesso valore di una favola. La reazione della comunità scientifica italiana alla mal posta iniziativa del Ministro dell’Istruzione è indizio di questo atteggiamento mentale. Sembra infatti che la mancata “somministrazione” del darwinismo prima dei 14 anni (come le vaccinazioni) possa procurare danni permanenti alla formazione scientifica delle giovani menti.
Tornando alla materia specifica, la Teoria Sintetica sosterrebbe che l’evoluzione è praticamente avvenuta in barba ai meccanismi protettivi e riparativi messe in atto dalla cellula contro le mutazioni genetiche. La mutazione è un fenomeno marginale ed indesiderato della biologia cellulare, eppure è il “motore” in base al quale vengono proposte alla natura le “varianti” dei progetti. Quei progetti si traducono in forme e lo studio delle forme del passato è materia della paleontologia. Riporto qui alcune opinioni di emeriti paleontologi, tra l’altro molto stimati nell’ambito del Festival della Scienza:
  • Finora la paleontologia non ha dato quasi nessun contributo alla teoria dell’evoluzione. (Niles Eldredge – 1980)
  • la paleontologia, ha messo in discussione con grande vigore la premessa darwiniana che sia possibile spiegare le trasformazioni principali della vita sommando, attraverso l’immensità del tempo geologico, i minuscoli cambiamenti successivi prodotti generazione dopo generazione dalla selezione naturale. (Stephen Jay Gould, “Critica al fondamentalismo darwiniano”).
Mi stupisce come da premesse così critiche dell’impianto darwinista sia scaturita una teoria mansueta come quella denominata degli “Equilibri Punteggiati” che continua comunque a professarsi darwiniana. Nel 2003 al Festival, sono intervenuti appunto gli esponenti del “pluralismo darwiniano”, il cui contributo innovativo alla teoria dell’evoluzione non sembra poi così rivoluzionario nelle conclusioni. Si parla di ramificazioni e di “successo adattativo”, viene data maggiore importanza alle mutazioni casuali e neutrali e si ristabilisce l’importanza fondamentale delle catastrofi e delle estinzioni di massa, constatando ciò che è noto da molto tempo, cioè che vi sono lunghi periodi di stabilità delle specie intervallati da accelerazioni nella differenziazione biologica. Se però il “motore” dell’evoluzione continua a rimanere la mutazione genetica (che si porta ancora dietro il “Dogma Centrale della Biologia”), accoppiata a una generica legge del “successo” (un po’ meno adattativo e un po’ più casuale), qui le cose anziché migliorare peggiorano. Se già prima avevamo una catena di eventi improbabili, ora si sosterrebbe che la maggior parte della variazione che Darwin pensava si producesse in “eoni” di tempo, si è svolta in molto meno tempo e più freneticamente.
Non sarebbe più onesto sostenere semplicemente che l’evoluzione non è darwiniana? Come ad esempio fa Antonio Lima-de-Faria, nel suo volume Evoluzione senza Selezione, pubblicato ormai 15 anni fa (ma in Italia solo nel 2003, proprio da una casa editrice genovese). Il titolo è appunto paradigmatico di uno scienziato che trova del tutto insufficienti i concetti di vantaggio adattativo e di competizione per la sopravvivenza, nello spiegare i fenomeni fondanti della biologia evoluzionista, ovvero la macro-evoluzione, la mutazioni delle forme, le transizioni tra le classi e i Phyla. Ecco il punto cruciale. Tutti i fenomeni che vengono presentati dalla letteratura ortodossa come “innumerevoli prove inoppugnabili” a sostegno dell’evoluzione in realtà sono fatti micro-evolutivi. In altre parole riguardano la variazione dei caratteri (fenotipi) di popolazioni all’interno della stessa specie. Come ad esempio il fenomeno della resistenza agli antibiotici sviluppata dai batteri patogeni durante una terapia. Non vi è alcuna mutazione nel ceppo dei batteri, semplicemente la pressione ambientale, esercitata dall’antibiotico, attiva nel microrganismo la capacità latente di sintetizzare un enzima protettivo. Quella proteina specifica c’è già, codificata nel genoma del battere, oppure dobbiamo credere che nel giro di poche generazioni viene codificata “da zero” un tipo totalmente nuovo di proteina?
L’applicazione della genetica di popolazione alla macro-evoluzione è un’estrapolazione non autorizzata, fino a prova contraria. E’ dimostrato scientificamente che l’esplosione della fauna cambriana fu un prodotto della mutazione e della selezione naturale? E’ stato mai costruito uno scenario credibile delle pressioni selettive che costrinsero un pesce audace sulla battigia della spiaggia per (chissà quante) generazioni fino a che gli spuntassero i primi abbozzi di arti locomotori? E le strade stupefacenti attraverso cui un roditore a-specializzato sviluppò gli arti anteriori in una foggia tale da trasformarsi in un’ala adatta al volo? Questo dovrebbe fare una teoria dell’evoluzione, raccontarci scenari plausibili di macro-evoluzione. Ora dato che nel caso esemplare del pipistrello (come in numerosi altri) sia i fossili ancestrali che il meccanismo mancano completamente, Lima-de-Faria nega decisamente che queste transizioni possano avvenire in termini neo- darwinisti, anzi nega proprio che una simile transizione sia mai avvenuta. Secondo lui FORMA e FUNZIONE nascono insieme. Quest’ipotesi, denominata Auto-evoluzione di forma e funzione, si basa sul postulato che non siano i geni a determinare le morfologie (in particolare le strutture tassonomiche superiori), ma che le forme siano il risultato della concatenazione ininterrotta delle leggi della fisica e della chimica, che sono state “colonizzate” solo posteriormente dai geni, introducendo nel sistema la memoria e l’informazione. Per sgombrare il campo da fraintendimenti creazionisti, stiamo parlando di un citogenetista accademico riconosciuto a livello internazionale di dichiarata impostazione materialista.
Sono queste, ad oggi, le poche cose serie da dire sul “dissenso” al darwiniano e non certo le beghe politiche provocate dalla ministra Moratti. Dissenso che in Italia annovera, pochissimi ma buoni rappresentati: Giuseppe Sermonti (genetista), Roberto Fondi (paleontologo dell’università di Siena), Giovanni Monastra (biologo, presidente dell’INRAN), Marcello Barbieri, e altri. Costoro contestano, non certo “l’Evoluzione” come fatto storico in sé (accusa insensata reiterata continuamente),  bensì la formulazione completamente meccanicista della teoria egemone, secondo la quale l’ordine emerge dal disordine, per cui l’organismo perfettamente funzionante e l’ecosistema con i suoi complessi equilibri sono il prodotto della competizione “libera e caotica” dei suoi costituenti (Caso e Necessità). Se i lavori di questa nicchia di ricercatori, sono ritenuti scientificamente irrilevanti dal Comitato Scientifico di cui sopra, non sarebbe comunque più formativo confutarli pubblicamente, anziché affermare semplicemente che non vale neanche la pena parlarne?
Sicuramente se ne è parlato a scopo diffamatorio, quando il dott. Pievani ha detto che le obiezioni del prof. Giuseppe Sermonti all’evoluzionismo sono – come quelle di Zichichi – “folcloristiche”. Ora mi consola parzialmente il suo tono bonario, conoscendo il disprezzo aperto con cui l’anziano professore viene trattato in altri ambienti (spesso politicizzati). Tuttavia un minimo di onestà intellettuale impone di distinguere decisamente due personaggi così diversi. Il modo “cialtrone” del prof. Zichichi di trattare la scienza è noto al grande pubblico, avendo costui ampia visibilità televisiva in qualità di esperto di qualsiasi argomento (oltretutto non se ne conoscono lavori degni di nota nemmeno nel campo della fisica) [nota di RS: qui ci permettiamo di dissentire. Zichichi, tra le altre cose, è stato Presidente della Società Europea di Fisica (1978-1980), Presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (1977-1982), Presidente del Comitato NATO per le Tecnologie di Disarmo, Rappresentante della CEE nel Comitato Scientifico del Centro Internazionale di Scienza e Tecnologia di Mosca, Presidente della World Federation of Scientists] . Al contrario Giuseppe Sermonti è un genetista di livello internazionale, misconosciuto in patria, che ha prodotto e tentato di divulgare (pur nell’ostracismo più totale) obiezioni alla teoria darwiniana pertinenti ai suoi studi e soprattutto argomentati in maniera scientifica, non certo confessionale. Tutt’altro da quello che il moderatore ha detto in Sala del Minor Consiglio domenica scorsa, riferendo che Sermonti “non crede alle evidenze che lui stesso deve studiare”. Sarebbe utile in proposito una rilettura di Dopo Darwin, un libro vecchio di 25 anni ma attualissimo, scritto a quattro mani con Roberto Fondi. Ci si accorgerebbe della legittimità scientifica delle prove e delle argomentazioni, pur senza condividerne, magari, le conclusioni. Oppure, non è più nemmeno lecito contestare una teoria sedicente scientifica?
La seconda parte del libro, curata da Roberto Fondi, mostrava lo stato della conoscenza paleontologica al 1980 (non credo che ci siano state da allora novità significative, a parte la retrodatazione della comparsa dei primi microrganismi). L’esame obiettivo della serie fossile mostra che la paleontologia confuta decisamente gli assunti darwiniani, cioè le stesse cose che diceva S.J. Gould fin dagli anni ’70. Però qui si giunge alla logica conclusione: la proposta di superamento del darwinismo, non di una sua riedizione. L’evoluzionismo vorrebbe che la vita partisse alle origini con poche forme indifferenziate e sviluppasse la sua infinità varietà procedendo nel tempo. I fatti paleontologici dicono tutt’altro: che la vita quando compare, si manifesta già specifica e con la massima biodiversità, in ogni epoca geologica. Che con il passare delle ere i vari tipi e sottotipi di forme viventi non aumentano in numero ma rimangono quasi costanti (tutti i Phyla conosciuti c’erano già 500 milioni di anni fa e quasi tutte le classi a circa 350 milioni di anni). Il fatto più spiacevole è che il tracciamento dei possibili alberi filogenetici tra specie e ordini, anziché chiarirsi, con l’aumentare della conoscenza dei fossili, si complica in tutti gli ambiti. E questa risalita ai progenitori sempre più antichi si ferma comunque al livello di entità che risultano “irriducibili” a qualunque altro progenitore conosciuto. In altre parole si risale fino ad un numero finito di “prototipi” Si ha quasi l’impressione che questi prototipi siano stati forniti dalla natura belli e pronti e che su di essi si sia esercitata l’evoluzione successiva, nella misura di “variazioni” sul tema. In conclusione la natura si manifesta attraverso una serie di salti sistemici che, per complessità, non ammettono gradi intermedi (dal mondo inorganico all’organico, dagli organismi monocellulari a quelli pluricellulari, dall’ambiente marino a quello terrestre, dall’assenza di volo al la capacità di volare, ecc…)
Alla maggioranza dei benpensanti un’esposizione di questo tipo appare inaccettabile, esotica, quasi magica. Di solito obiettano: “e le forme sono nate dal nulla?”. Obiezione non ricevibile in un contesto scientifico: quando un fenomeno straordinario come la stessa origine della vita non si inquadra nel paradigma vigente, bisogna tentare di elaborare un nuovo paradigma. Invece è bastato smettere di parlarne. Sul mistero della nascita della vita, pare sia calato un velo pietoso, come se l’esperimento di Stanley Miller avesse risolto per sempre il problema. Tuttalpiù avrebbe dimostrato che in particolari condizioni controllate si possono formare per reazione chimica alcuni mattoni fondamentali della casa (molti in verità contestano anche questo). Ma chi ha costruito la casa? Non esiste nel contesto delle attuali leggi della fisica una strada per spiegare in termini termodinamici il passaggio dal caos all’aggregazione, dal disordine all’informazione, dalle proteine alla cellula (correggetemi se sbaglio). Essendo la vita un sistema “circolare” che prevede la retroazione (feed-back) tra i suoi elementi costitutivi  non lo si può ottenere per aggiunte successive di un sistema lineare (in merito a ciò, la “Teoria semantica dell’evoluzione” di Marcello Barbieri è molto innovativa e illuminante).
Non vedrei quindi alcuno scandalo nell’ammettere come ipotesi di lavoro di una biologia post-darwiniana la nostra quasi totale ignoranza sulla nascita e l’avvicendamento delle forme. Questa ignoranza è appunto causata dal neo-darwinismo, che impedisce di esplorare strade alternative, a parte rarissimi tentativi di una biologia “strutturale” e le ipotesi relative al “campo morfogenetico” (Rupert Sheldrake – Ervin Laszlo). Non è una crociata iconoclasta. Professandomi agnostico e razionalista, come tanti suoi colleghi, propongo di sgombrare il campo dagli equivoci politici e religiosi. Il libro della Genesi non è che una delle tante  cosmogonie antiche e non deve interessare ad alcuno se la narrazione è in accordo o meno con una teoria scientifica (tra l’altro ci sono altre cosmogonie molto più ricche e suggestive – come ad esempio quella vedica – che si prestano ad interpretazioni molto profonde) [nota di RS: anche qui – per ragioni ovvie – non possiamo sottoscrivere]. Però bisognerà anche disfarsi del darwinismo, allo stesso modo con cui Galileo si è liberato dai dogmi aristotelici per fondare la Dinamica dei corpi. (ed Aristotele è comunque ritenuto un padre del pensiero moderno).
Fare piazza pulita degli eredi di Darwin non significa cancellare Sir Charles dai libri di scuola, ma collocarlo nella giusta prospettiva della storia delle scienze. Il suo contributo originale alla biologia si limita alla speciazione per isolamento geografico ed alla constatazione che in natura gli individui competono per accaparrarsi risorse limitate e che la selezione naturale mantiene sana la specie (sopprimendo gli anormali, i deboli, i “mostri”). Nelle due settimane del Festival edizione 2005, è stata giustamente ricordata non solo la figura di Darwin naturalista, ma anche la sua esemplare e rara attitudine di scienziato aperto alle critiche e alle obiezioni.  Queste sono le sue parole esatte tratte dal secondo fondamentale lavoro “L’Origine dell’Uomo” del 1871:
  • nelle prime edizioni della mia “Origin of Species” ho probabilmente attribuito troppo all’azione della selezione naturale e della sopravvivenza del più adatto… Non avevo allora considerato a sufficienza l’esistenza di molte strutture che sembrano non essere, per quanto possiamo giudicare, né benefiche né dannose; e questo credo sia una delle più grandi sviste sinora trovate nel mio lavoro.
Quindi 130 anni sono passati invano? Sono state prodotte nuove prove dell’onnipotenza della selezione naturale nell’indirizzare le nuove forme verso destini inaspettati? Sono state riempite le lacune fossili di cui si lamentava Darwin? Purtroppo invece di studiare Darwin per quello che fece e per quello che disse, lo si celebra in ogni salsa come precursore e visionario. Tutte le conquiste della biologia posteriore vengono fatte risalire a lui, quando in realtà la biologia moderna è nata nonostante Darwin, per non dire in aperta contraddizione. Darwin sosteneva la generazione spontanea (abiogenesi) della vita batterica (non è una colpa, data l’epoca) e la discendenza dei caratteri acquisiti (pangenesi) alla stregua di Lamarck. Eppure è lui il padre putativo di ogni disciplina.
–          La genetica: il lavoro di Gregor Mendel, lo scopritore della genetica, è stato trascurato dai darwinisti finchè era in chiaro disaccordo con la dottrina del trasformismo, poiché rivelava la fondamentale persistenza dei determinanti genetici dietro un’apparente variabilità. Poi Mendel è stato poi forzato ad andare a braccetto a Darwin con la formulazione della famosa “Sintesi” negli anni ’30 del ‘900.
–          La paleontologia: i fondamenti della sistematica sono precedenti a Darwin (Cuvier e Linneo) e le linee filogenetiche tratteggiate, (perché inesistenti) che troviamo su tutti i libri di scienze, non aggiungono alcunché di significativo alla comprensione delle forme viventi.
Al contrario gli esiti disastrosi dell’applicazione del darwinismo alle società e alle culture umane (l’eugenetica, il razzismo, l’ideologia del colonialismo) vengono sempre attribuiti alle derive dei suoi discepoli troppo integralisti (Galton, Huxley e compagnia) al di là delle intenzioni originali del maestro. Quindi Darwin non è solo un naturalista rivoluzionario è l’uomo simbolo della modernità, autore della “fine del disincanto”, fondatore lui stesso del pensiero moderno (se non ho frainteso le parole del prof. Sgaramella), filosofo della scienza, salvatore dell’umanità. Cos’altro ancora? Santo?
Tutto ciò rivela la debolezza di questo schema di pensiero, che sembra sottrarsi alle regole vigenti negli altri campi della scienza. Basta leggere i testi di Darwin per constatare quanto egli fosse figlio del suo tempo. La sua teoria è talmente “originale” che il, sempre misconosciuto, A.F.Wallace, negli stessi anni e dall’altra faccia del pianeta, la formulò negli identici termini. Fenomeno paranormale? Ma no, semplicemente entrambi i ricercatori, di scuola anglosassone, l’avevano mutuata dalle teorie economiche maltusiane della lotta per le risorse. A tal proposito rammento l’analisi di Karl Marx, suo contemporaneo, che scrisse nel 1862:
  • E’ notevole vedere come Darwin ritrovi nel mondo animale e vegetale la sua società inglese, con la divisione del lavoro, la concorrenza, l’apertura di nuovi mercati, le invenzioni e la lotta per la vita di Malthus. … in Darwin il regno animale figura come società borghese.
Più in generale, è la filosofia materialista, positivista, riduzionista ottocentesca ad aver partorito il darwinismo, all’insaputa del povero Charles, che stentava egli stesso a capire il successo travolgente della sua dottrina. Egli fu l’uomo giusto al momento giusto. E proprio in contrasto con le idee del suo fondatore il paradigma della “sopravvivenza del più adatto” è stato spalmato su tutta la natura ad occultare l’ignoranza dei fondamenti di quei fenomeni che si vorrebbe spiegare. La dubbia utilità scientifica dell’enunciato darwiniano fu osservata, fra gli altri, dal filosofo della scienza Karl Popper:
  • non è affatto chiaro che cosa potremmo considerare come possibile confutazione della teoria della selezione naturale. Se, più in particolare, accettiamo la definizione statistica di adattamento, [che definisce l’adattabilità] in termini di sopravvivenza effettiva, allora la sopravvivenza del più adatto diventa tautologica e inconfutabile.
Addirittura le tare epistemologiche dell’opera di Darwin sfociano in un antropomorfismo ingenuo (si ricordi che l’argomentazione di “L’origine delle specie” muove dall’analogia con l’allevatore, cioè dalla selezione artificiale operata da un intelligenza esterna che sa già in anticipo qual è la direzione desiderabile per gli esemplari dell’allevamento (pelo più folto, resistenza, statura). Ciò non può assolutamente valere per la Selezione Naturale che tuttavia assume nelle spiegazioni darwiniane lo stesso ruolo di un demiurgo (deus ex machina) che opera sempre per il bene dell’individuo e della specie. Paradossalmente l’esito finale dell’applicazione della filosofia darwinista alla natura è una nuova forma di finalismo, poiché ogni caratteristica anatomica e comportamentale dei viventi  esiste perché è utile ad uno scopo (ed inoltre deve essersi trasformata, durante il processo evolutivo, attraverso stadi intermedi di massima utilità).
Alla luce di queste considerazioni ho trovato sorprendenti le proposizioni finali del documento dei “saggi” indirizzato al Ministero (sempre che, di nuovo, non abbia frainteso). Secondo Sgaramella:
  • il darwinismo è il presupposto per una comprensione olistica della natura.
ciò nondimeno il documento mette in guardia dagli eccessi di una certa deriva scientista cioè dalla:
  • onnipotenza del gene (il rischio delle manipolazioni genetiche).
Capirà adesso quanto possa sentirmi confuso. In quale modo la sintesi neo-darwiniana possa dirsi “olistica” mi sfugge. Nella storia della scienza niente è più pervasivamente riduzionista dell’attuale Teoria Sintetica dell’Evoluzione. Almeno nella forma che mi è stata insegnata a scuola; altrimenti se stiamo parlando di qualcos’altro, ci terrei ad essere informato sulla  letteratura scientifica recente (ritenuta degna dal Comitato) che si indirizza verso l’interpretazione olistica della biologia. Il monito sull’onnipotenza del gene poi, non sarà mica un avvertimento verso la divulgazione ultradarwinista alla Richard Dawkins (quella sì, se posso permettermi, folcloristica, così pervasa di inquietanti elementi antropomorfi come il “Gene Egoista” e “L’Orologiaio Cieco”). Come si fa sostenere una cosa e il suo contrario nell’ambito della stessa manifestazione scientifica?
Nel mondo paleoantropologico in particolare, il mito dell’onnipotenza del gene è molto viva e giustifica l’eccessivo ottimismo con cui vengono presentati i risultati dell’antropologia molecolare. Purtroppo non c’è qui spazio per affrontare nel dettaglio la questione e instillare un poco di dubbio nella certezza che questi modelli abbiano prodotto risultati definitivi e condivisi da tutti, come l’età dell’antenato Homo sapiens  comune tutta l’umanità e la sua origine africana. Le applicazioni della genetica di popolazione alle migrazioni degli antenati dell’uomo spesso contraddicono i dati archeologici più recenti. Come si concilia una fuoriuscita dall’Africa stimata in 50.000 anni con la presenza di uomini anatomicamente moderni oltre il circolo polare Artico 30.000 anni fa, in Australia 60.000 anni fa, nelle Americhe 40.000 anni fa?  Bisognerebbe chiedersi se il cosiddetto gene MRCA (Most Recent Common Ancestor) sia in grado di darci informazioni significative sull’antenato in carne ed ossa che l’avrebbe portato nel suo DNA. Ci sarebbe molto da discutere sulla taratura dell’orologio molecolare arbitrariamente effettuata sulla distanza genetica rispetto ad un’altra specie, lo scimpanzé. Distanza che sul piano genetico è ora ridotta al 2%. Mi chiedo se un’affermazione del genere non equivalga a misurare le analogie tra “La Divina Commedia” e “I promessi sposi”, facendone l’analisi grammaticale. Molta letteratura che sostiene la monogenesi recente è stata sottoposta ad aggiustamenti “ad hoc” per farla tornare con l’idea preconcetta della migrazione “Out of Africa”. Basta una scorsa alla letteratura genetica per trovare anche qui i dissidenti, che si rifanno ad una diversa scuola di interpretazione dei dati e di cui non si è fatto parola al Festival (John Relethford, Alan Thorne, Richard Lewontin).
Fin qui una sintesi dei dubbi relativi all’evoluzionismo come teoria biologica. Ora tocchiamo un tasto molto più dolente: l’estrapolazione del darwinismo all’evoluzione culturale dell’uomo. Il 31 ottobre Gianfranco Biondi, co-autore de “Il codice Darwin”, affermava che tutte le nostre peculiarità umane, compresi i comportamenti, i sentimenti, la cultura ci vengono dall’evoluzione. Un’affermazione da prendere con cautela. Nella misura in cui significa che l’uomo è un animale appartenente all’ordine dei primati e che si è evoluto sulla Terra, senza interventi soprannaturali, lo trovo un concetto evidente, certamente inoffensivo.
Nella misura in cui sottintende invece il darwinismo applicato alla cultura umana, cioè che il pensiero, i significati, il linguaggio, i sentimenti, siano “emersi” dai nostri geni attraverso un percorso di competizione, di selezione del più adatto, allora lo trovo assolutamente inaccettabile. E sono quasi sicuro che sia questo il caso perché, lo scorso anno, ho assistito alla conferenza del prof. Luigi Luca Cavalli Sforza. Sostenere, come fa quest’ultimo, che tutte le peculiarità che ci fanno umani esistono in quanto “vantaggiose”, e in virtù del fatto di aver superato il test della selezione naturale è un’impostazione di un riduzionismo lampante. A me sembra una ben squallida prospettiva.
Prendo spunto proprio dalla relazione dell’ottobre del 2004, in cui il nostro professore di Stanford spiega che la cultura va considerata un meccanismo di adattamento all’ambiente straordinariamente efficiente che ha preso il posto, nella nostra specie, dell’evoluzione biologica. Ha impostato il suo lavoro su una definizione di cultura di questo tenore:
  • “accumulazione nel tempo dei comportamenti umani che portano alle novità culturali” (definizione che al limite potrebbe adeguarsi all’evoluzione della tecnologia, se non fosse ricorsiva)
La supposta somiglianza formale tra l’evoluzione dei geni, delle etnie, delle lingue e delle culture umane, poiché si sostiene fondata sugli stessi meccanismi di base – cioè la mutazione (la novità), la trasmissione preferenziale (orizzontale nel caso di lingua e cultura), la deriva – è un enunciato da dimostrare, NON l’assioma da cui partire. Altrimenti che modo di fare scienza è mai questo? Mi preoccupano sinceramente alcune affermazioni estratte dal suo ultimo libro “L’evoluzione della cultura”:
–          la genetica ha sviluppato la teoria dell’evoluzione biologica, ma tale teoria è del tutto generale e include anche quella dell’evoluzione culturale, perché vale per qualunque organismo [enunciato apodittico, quali evidenze?];
–          l’evoluzione culturale può fare quello che vuole ma è sempre sotto il controllo della selezione naturale. Quest’ultima corregge sempre gli errori e ciò offre una garanzia contro la possibilità che siano compiuti errori troppo gravi; tuttavia essa può anche colpire molti innocenti;
–          le nostre decisioni al livello culturale sono poi sottomesse a un tribunale più elevato, la selezione naturale, che le giudica e decide autonomamente in base alla nostra sopravvivenza e riproduzione se e quanto conteranno sulle generazioni successive [antropomorfismo del deus ex-machina].
Non so a voi, ma a me questa suona più come una minaccia messianica che un’asserzione scientifica: “state attenti perché qualunque cosa facciate la selezione naturale decide “autonomamente” per il vostro bene”. Queste affermazioni reazionarie affossano completamente un secolo di antropologia culturale. Da questa strada si ritorna dritti al punto di partenza degli studi etnologici del XX secolo, che si sono faticosamente scrollati di dosso la tara evoluzionistica nell’interpretazione culturale e nello studio del “pensiero selvaggio”. Ovvero quella scala evolutiva “naturale” che porta dai “semplici” comportamenti ripetitivi dei rituali magico-religiosi, alle civiltà “complesse” che hanno inventato l’ingegneria, il tasso di interesse e la democrazia parlamentare. Del resto questo atteggiamento non stupisce nel clima da neo-darwinismo sociale che si respira oggi nell’establishment politico-economico dominante. Basta constatare la superficialità e l’arroganza con cui la nostra civiltà industriale ha deciso unilateralmente che il proprio democratico metodo di sviluppo è il migliore, anzi l’ultimo, e va generosamente “elargito” a tutta la popolazione mondiale.
L’antropologia culturale ha mostrato che i comportamenti umani, le strutture del pensiero, le società umane, si articolano in entità di complessità “irriducibile”. Strutture che non sono suscettibili di essere spiegate nei termini di una “accumulazione di caratteri” che tendono a trasformare le strutture di partenza in qualcosa di migliore (più efficiente? più bello?). Ma la pensano così anche altri genetisti, come ad esempio Richard Lewontin:
  • “Manca totalmente, nel caso delle culture, l’equivalente dei meccanismi genetici alla Mendel. In biologia, le unità di base sono i geni, mentre non c’è modo di identificare le unità di base nella cultura, se non con criteri che risultano completamente arbitrari.”
Il biasimo espresso dal Cavalli-Sforza verso i suoi colleghi antropologi del versante culturale (accusati di “indigenismo”), a suo dire “troppo poco evoluzionisti”, si sposa male con la professata interdisciplinarietà degli incontri del Festival. Non sarebbe gentile invitare al tavolo anche gli antropologi culturali? (peraltro la facoltà di Genova annovera esponenti rispettabili). I neo-darwinisti si proclamano pluralisti, aperti di mente, contrari all’oppressione dei dogmi religiosi altrui, democratici, anti-razzisti, ma alla fine riducono tutto ciò che studiano, ai minimi termini “digeribili” da una filosofia ottocentesca mutuata dalle teorie economiche liberiste e dal positivismo progressista. I fatti biologici come le manifestazioni immateriali, devono sottostare “definitivamente” alla legge universale della selezione naturale. Ogni espressione della cultura umana è interpolabile o estrapolabile a piacere fino ad arrivare all’antenato comune, passando per progenitori intermedi, spesso inesistenti. Il metodo scientifico invece dovrebbe funzionare all’inverso: se un fenomeno non è suscettibile di essere spiegato in modo evoluzionista, o si sospende il giudizio oppure si cerca di elaborare una nuova teoria.
Rivelato il meccanismo di base, è facile vedere le vere ragioni alla base della popolarità di uno studioso come  Merrit Ruhlen. Sostenitore della monogenesi delle lingue (la derivazione di tutte le lingue del mondo da un’unica antica proto-lingua madre parlata da una comunità di antenati), egli appare nel suo campo un “dissidente” della dottrina ortodossa della linguistica comparata tradizionale (poligenesi). Il fatto è che la monogenesi concorda in pieno con l’impostazione neo-darwinista. La “macro-comparazione” linguistica adottata da questo ricercatore sembra capace di ridurre l’evoluzione delle lingue alle trasformazioni delle sue particelle (sillabe e fonemi), allo stesso modo in cui la genetica annulla le differenze tra gli organismi riducendole alle distanze tra i loro genomi. In questo modo, trascurando aspetti essenziali delle strutture linguistiche (come la sintassi che ne costituisce la “morfologia”) si possono mettere le “specie” linguistiche nel piano astratto delle distanze vettoriali misurate come “accumulo di mutazioni” in senso algebrico. Diventa così possibile estrapolare più o meno ciò che si vuole, avvicinare vocaboli che tra di loro non sembravano parenti ma che, passando attraverso l’artificio delle proto-lingue, possono somigliare a tutti gli antenati possibili fino ad approdare alla proto-lingua madre. L’intervento di Starostin mi è sembrato veramente chiarificatore in proposito. Entità che, alla luce della linguistica comparata tradizionale, apparivano “irriducibili” le une alle altre ora appaiono derivare da progenitori comuni.  Come ad esempio la lingua Khoisan dei Boscimani e le antiche lingue caucasiche, caratterizzate da strutture profondamente diverse che non possono essere derivate da progenitori comuni,
La parte “sospetta” nelle conclusioni di Ruhlen (almeno nella sintesi della conferenza) è l’estrapolazione alla mitica comunità di primi homini sapiens migrati dall’Africa 50.000 anni fa. Egli presenta questo risultato non come il frutto indipendente della sua indagine, ma come una verità calata dall’alto. In altre parole le proto-lingue dovrebbero venir fuori dall’analisi linguistica ed essere controllate nello spazio-tempo archeologico (paleografia antica?) o etnologico. Altrimenti vi è ben poco di verificabile. Ad esempio vi è una lingua africana odierna che risulta più vicina alla lingua madre (perché – immagino – più “semplice” o più efficiente?) secondo il “tempo di coalescenza” calcolato dall’albero filogenetico? E’ possibile estrapolare la proto-lingua dei progenitori dei Polinesiani (che dovrebbe risultare, secondo l’archeologia, molto recente? L’aggregazione in macro-famiglie (legittima finchè raggruppa entità omogenee), non produce di per sé una lingua madre. L’unico elemento di prova che viene mostrato è la matrice comune di singole parole e suoni, che sembrano diffusi fra tutte le lingue del mondo.
Ma per quel che ne sappiamo questo può anche essere il risultato di un “prestito” universale effettuato a livello planetario dalla singola lingua di un’ipotetica cultura umana diffusa sul pianeta nella preistoria recente (si pensi al destino dell’inglese moderno). Una cultura umana che potrebbe contemporaneamente essere la matrice per una monogenesi delle “tecnologie”. In proposito trovo sorprendente che il neo-darwinismo applicato all’uomo abbia introdotto la monogenesi ovunque, eccetto che nella nascita delle civiltà. Qui infatti vige il più severo dettame poligenetico: le grandi civiltà dell’antichità sarebbero nate tutte indipendentemente le une dalle altre, giungendo a conquiste tecnologiche e culturali del tutto analoghe tra loro. Ad esempio, la nascita dell’agricoltura attorno ai 10.000 anni fa, in maniera autonoma e indipendente sui quattro continenti, in un lasso di tempo molto breve (se paragonato al passato evolutivo della specie), appare, ad alcuni studiosi, un fenomeno molto misterioso.
Concludendo la questione “culturale”, è chiaro che,  dando per scontato che l’uomo è un essere africano recente, vengono promossi dall’establishment quei metodi di indagine che producono le parentele genetiche desiderate. Insomma l’orologio molecolare, la macro-linguistica e in generale le elaborazioni della scuola di Stanford non costituiscono prove indipendenti della Teoria “Out of Africa”, bensì ne sono corollari inconsci.
Vorrei infine far notare l’esito più pregnante della filosofia darwiniana, applicata al mondo tecnologico odierno: la manipolazione genetica degli organismi. Nel dominio di una natura che si professa governata dalle mosse caotiche di un “Orologiaio Cieco”, non c’è niente di male nel sostituire l’agente naturale con l’ingegnere genetico, il quale si adopera per “migliorare la natura”, in modo che i suoi prodotti possano meglio incontrare le esigenze del mercato. Peccato però che il Dogma centrale della biologia sia morto da trent’anni. Peccato che l’inserzione violenta di tratti di genoma GM nelle sequenze prodotte dall’evoluzione organica della specie, in un complesso (e incompreso) equilibrio a cui partecipano tutti i microrganismi cellulari, provochi risultati ampiamente imprevedibili, indesiderati, spesso pericolosi (già documentati dalla letteratura degli ultimi 15 anni). Questa è l’arroganza dell’allevatore industriale, figlio degenere del più bonario allevatore di Darwin, perché dotato di mezzi tecnologici che hanno by-passato le barriere di specie ed è rivestito addirittura di una missione umanitaria verso i problemi agro-alimentari del Terzo Mondo.
Sarebbe auspicabile per il futuro di un Festival della Scienza veramente pluralista, assistere a delle sessioni aperte alla ri-discussione dell’evoluzione culturale e dell’industria degli OGM.
 
In fede,