lunedì 17 febbraio 2014

Conte Joseph De Maistre : Può durare la repubblica francese?





Joseph De Maistre.

Sarebbe meglio porre quest'altra domanda: Può esistere la repubblica? Lo si dà per scontato, ma in questo modo si va troppo in fretta, mentre la questione preliminare sembra molto fondata; infatti, la natura e la storia testimoniano insieme che una grande repubblica indivisibile è una cosa impossibile. Un piccolo numero di repubblicani chiusi tra le mura di una città possono, senza dubbio, avere milioni di sudditi; fu il caso di Roma; ma non può esistere una grande nazione libera sotto un governo repubblicano. La cosa è talmente chiara di per sé, che la teoria potrebbe fare a meno dell'esperienza; ma l'esperienza, che decide di tutto in politica come in fisica, è qui perfettamente d'accordo con la teoria.
Cosa si è potuto dire ai francesi per indurli a credere a una repubblica di ben ventiquattro milioni di uomini? Due cose soltanto: 1) Nulla impedisce che si veda ciò che non si è mai visto. 2) La scoperta del sistema rappresentativo rende possibile per noi quel che non lo era per i nostri predecessori. Esaminiamo la forza di questi due argomenti.
Se ci dicessero che un dado, gettato cento milioni di volte, non ha mai presentato, posandosi, che cinque numeri, 1, 2, 3, 4 e 5 potremmo mai credere che il 6 si trovi su una delle sue facce? No di certo; e sarebbe per noi dimostrato, come se l'avessimo visto che una delle sei facce è bianca, o che uno dei numeri è ripetuto.
Ebbene, guardiamo la storia; vedremo in essa quel che chiamiamo la Fortuna gettare il dado da quattro mila anni senza interruzione: ha mai fatto uscire GRANDE REPUBBLICA? No. Dunque questo numero non era sul dado.
Se il mondo avesse conosciuto di volta in volta governi sempre nuovi, non avremmo alcun diritto di affermare che tale o tal altra forma è impossibile solo perché non si è mai vista, ma le cose stanno altrimenti: si è vista sempre la monarchia e qualche volta la repubblica. Se poi ci si vuole lanciare nelle classificazioni, si può chiamare democrazia il governo in cui la massa esercita la sovranità, e aristocrazia quello in cui la sovranità appartiene a un numero più o meno ristretto di famiglie privilegiate.
Detto questo, si è detto tutto.
Il paragone del dado è dunque perfettamente appropriato: essendo sempre usciti gli stessi numeri dal bussolotto della Fortuna, siamo autorizzati, dalla teoria delle probabilità, a sostenere che non ve ne sono altri.
Non confondiamo le essenze delle cose con le loro modificazioni: le prime sono inalterabili e ritornano continuamente; le seconde cambiano e variano un po' lo spettacolo, almeno per la moltitudine; giacché qualsiasi occhio esercitato penetra facilmente le mutevoli vesti di cui l'eterna natura si copre a seconda dei tempi e dei luoghi.
Per esempio, cosa c'è di particolare e di nuovo nei tre poteri che costituiscono il governo dell'Inghilterra? i nomi di Pari e di Comuni, la toga dei Lords? Ma i tre poteri, considerati in modo astratto, si trovano ovunque si trovi una libertà saggia e durevole; si trovano soprattutto a Sparta, dove il governo, prima di Licurgo, era sempre vacillante, inclinando ora alla tirannia, quando i re avevano troppo potere, e ora alla confusione popolare, quando la plebe finiva per usurpare troppa autorità. Ma Licurgo interpose fra i due il Senato, che fu, come dice Plafone, un contrappeso salutare... e una robusta barriera che manteneva i due estremi in equilibrio, e che dava solidità e sicurezza alla cosa pubblica, dal momento che i senatori... si schieravano qualche volta dalla parte dei re, quando ce n'era bisogno per resistere alla temerarietà popolare, ma anche rafforzavano qualche volta il partito del popolo contro i re, per impedire che essi usurpassero un'autorità tirannica (1).
Non c'è dunque niente di nuovo, e la grande repubblica è impossibile, poiché non c'è mai stata una grande repubblica.
Quanto al sistema rappresentativo, che si crede capace di risolvere il problema, mi sento costretto a una digressione che spero mi sarà perdonata.
Cominciamo con l'osservare che questo sistema non è affatto una scoperta moderna, bensì una produzione o, per meglio dire, un pezzo del governo feudale, quando esso giunse a quel punto di maturità e di equilibrio che lo rese, tutto sommato, quanto di più perfetto si è visto al mondo (2).
Avendo l'autorità monarchica formato i comuni, li convocò nelle assemblee nazionali; essi non potevano comparirvi che attraverso i loro delegati: da ciò ebbe origine il sistema rappresentativo.
Detto fra parentesi, lo stesso avvenne per il ricorso ai giurati nel procedimento giudiziario. La gerarchia delle dipendenze feudali convocava i vassalli dello stesso ordine nella corte dei rispettivi sovrani (3); dal che derivò la massima secondo cui ogni uomo doveva essere giudicato dai suoi pari (Pares curtis), massima che gli inglesi hanno assunto in tutta la sua estensione, e che hanno fatto sopravvivere alla sua causa generatrice; mentre i francesi, meno tenaci, oppure cedendo forse a circostanze irresistibili, non ne hanno tratto lo stesso partito.
Bisogna proprio essere incapaci di penetrare ciò che Bacone chiamava interiora rerum, per immaginare che gli uomini abbiano potuto elevarsi a simili istituzioni attraverso un precedente ragionamento, e che esse possano essere il frutto di una deliberazione.
Del resto, la rappresentanza nazionale non è affatto peculiare dell'Inghilterra; si ritrova in tutte le monarchie d'Europa; ma in Gran Bretagna è viva; altrove è morta oppure addormentata; e non rientra nel piano di questa piccola opera esaminare se la sua sospensione sia stata un danno per l'umanità, e se non sia conveniente riavvicinarsi alle forme antiche. È sufficiente osservare, secondo la testimonianza della storia,
1) che in Inghilterra, dove la rappresentanza nazionale ha ottenuto e conservato più forza che in qualsiasi altro luogo, essa non esiste fino alla metà del tredicesimo secolo (4);
2) che essa non fu affatto un'invenzione, né l'effetto di una deliberazione, né il risultato dell'azione del popolo facente uso dei suoi antichi diritti; ma che un soldato ambizioso, per soddisfare i suoi particolari interessi, creò realmente l'equilibrio dei tre poteri dopo la battaglia di Lewes, senza sapere quel che faceva, come sempre accade;
3) che non solo la convocazione dei Comuni nel consiglio nazionale fu una concessione del monarca, ma che, all'inizio, il re nominava i rappresentanti delle province, delle città e dei villaggi;
4) che anche dopo che Ì Comuni si furono arrogati il diritto di inviare deputati al parlamento, durante il viaggio di Edoardo I in Palestina, questi vi ebbero solo voto consultivo; che essi presentavano le loro doléances come gli Stati generali di Francia, e che la formula delle concessioni emananti dal trono in seguito alle loro petizioni era costantemente: accordato dal re e dai principi spirituali e temporali, in virtù delle umili preghiere dei Comuni;
5) infine, che il potere, attribuita alla camera dei Comuni, di legiferare accanto al re è ancora molto recente, poiché risale appena alla metà del quindicesimo secolo.
Se dunque con questa espressione di rappresentanza nazionale si intendono alcuni rappresentanti inviati da alcuni uomini, provenienti da alcune città o villaggi, in virtù di un'antica concessione del sovrano, non bisogna discutere sulle parole: questo governo esiste, ed è quello dell'Inghilterra.
Ma se si vuole che tutto il popolo sia rappresentato, che esso possa esserlo solo in virtù di un mandato (5), e che ogni cittadino sia capace di dare o di ricevere questi mandati, a parte qualche eccezione fisicamente e moralmente inevitabile; e se si pretende per giunta di unire a un tale ordine di cose l'abolizione di ogni distinzione e funzione ereditaria, questa rappresentanza è una cosa che non si è mai vista, e che non si realizzerà mai.
Ci viene citata l'America; non conosco niente di più irritante delle lodi attribuite a questo bambino in fasce: lasciatelo diventare grande.
Ma per mettere in questa discussione tutta la chiarezza possibile, bisogna notare che i fautori della repubblica francese non sono tenuti soltanto a provare che la rappresentanza perfezionata, come dicono gli innovatori, è possibile e buona; ma anche che il popolo, con questo mezzo, può mantenere la, propria sovranità (come dicono ancora) e formare, nella sua totalità, una repubblica. È qui il nodo della questione; perché se la repubblica è nella capitale, e il resto della Francia è suddito della repubblica, non si può parlare di popolo sovrano.
La commissione incaricata recentemente di presentare un progetto per il rinnovo del terzo dell'assemblea, fa ammontare a trenta milioni il numero dei francesi. Ammettiamo questa stima, e supponiamo che la Francia mantenga le proprie conquiste.
Ogni anno, secondo la Costituzione, duecentocinquanta persone uscenti dal corpo legislativo saranno sostituite da altre duecentocinquanta. Ne consegue che, se i quindici milioni di maschi che costituiscono questa popolazione fossero immortali, capaci di rappresentanza e nominati in ordine uno dopo l'altro, ciascun francese verrebbe ad esercitare la sovranità nazionale ogni sessantamila anni (6).
Ma siccome in un tale intervallo non si smette di morire di tanto in tanto; e poiché inoltre l'elezione può ripetersi a vantaggio delle stesse teste, e una gran quantità di individui, per natura e per buon senso, sarà sempre inabile alla rappresentanza nazionale, l'immaginazione è sbigottita per il numero prodigioso di sovrani condannati a morire senza aver regnato.
Rousseau ha sostenuto che la volontà nazionale non può essere delegata; ognuno è libero di consentire oppure no con questa affermazione, e di discutere mille anni su simili problemi da accademia. Ma è certo che il sistema rappresentativo esclude direttamente l'esercizio della sovranità, soprattutto nel sistema francese, dove i diritti del popolo si riducono alla nomina di coloro che nominano; dove non solo esso non può dare mandati speciali ai suoi rappresentanti, ma la legge stessa si preoccupa di spezzare qualsiasi loro legame con le rispettive province, avvertendoli che essi non sono inviati da coloro che li hanno inviati, ma dalla Nazione-, grande parola di estrema comodità, giacché se ne fa quel che si vuole. Per farla breve, non è possibile immaginare una legislazione meglio congegnata per annullare i diritti del popolo. Aveva dunque ragione quel vile cospiratore giacobino, allorché dichiarava francamente in un interrogatorio giudiziario:
Considero il governo attuale usurpatore del potere, violatore di tutti i diritti del popolo, che è stato ridotto alla più deplorevole schiavitù. Questo orribile sistema fa la fortuna di pochi e opprime la massa. Il popolo è talmente imbriglialo, talmente stretto in catene da questo governo aristocratico, che spezzarle gli è divenuto più difficile che mai (7).
Eh! che importa alla Nazione il vano onore della rappresentanza, con cui essa ha a che fare cosi poco direttamente, e al quale miliardi di individui non giungeranno mai? La sovranità e il governo le sono forse meno estranei?
Ma, si dirà, ritorcendo l'argomento, che importa alla nazione il vano onore della rappresentanza, se il sistema costituito garantisce la pubblica libertà?
Non è di questo che si tratta: il problema non è di sapere se il popolo francese può essere libero attraverso la Costituzione che gli è stata data, ma se può essere sovrano. Si cambiano , termini della questione per sfuggire al ragionamento. Cominciarne con l'escludere l'esercizio della sovranità; insistiamo su questo punto fondamentale, che il sovrano sarà sempre a Parigi, e che tutto quel fracasso sulla rappresentanza non significa niente; che il popolo resta perfettamente estraneo al governo; che esso è suddito più che nella monarchia, e che le parole grande repubblica si escludono a vicenda come quelle di cerchio quadrato. Tutto ciò è dimostrato in modo matematico.
Il problema dunque si riduce a sapere se è nell'interesse del popolo francese essere suddito di un direttorio esecutivo e di due consigli istituiti secondo la Costituzione del 1795, piuttosto che di un re che regni secondo le antiche forme.
È molto meno difficile risolvere un problema che porlo.
Bisogna dunque mettere da parte questa parola repubblica e parlare solo del governo. Non giudicherò se esso è in grado di assicurare la pubblica felicità; i francesi ne sanno qualcosa! Vediamo soltanto se, così com'è, e in qualunque modo lo si chiami, è permesso credere alla sua durata.
Innalziamoci innanzitutto al livello che è proprio dell'essere intelligente, e da quel punto di vista elevato, consideriamo il fondamento di questo governo.
Il male non ha niente in comune con l'esistenza; non può creare, poiché la sua forza è puramente negativa: il male è lo scisma dell'essere, e non possiede verità.
Ora, quel che distingue la rivoluzione francese, e quel che ne fa un evento unico nella storia, è che essa è malvagia, radicalmente; nessun elemento di bene conforta l'occhio dello spettatore; è il più alto grado di corruzione che si conosca; è impurità allo stato puro.
In quale altra pagina della storia si troverà una cosi grande quantità di caratteri viziosi che agiscano contemporaneamente sul medesimo palcoscenico? Che spaventoso ammasso di bassezza e di crudeltà! che profonda immoralità! che oblio di ogni pudore!
L'infanzia della libertà possiede tratti cosi evidenti, che è impossibile ingannarsi. In tale epoca, l'amor di patria è una religione, e il rispetto per le leggi una superstizione. I caratteri sono fortemente pronunciati, i costumi sono austeri: le virtù risplendono tutte insieme; la lotta di fazione si risolve a vantaggio della patria, poiché ci si disputa soltanto l'onore di servirla; tutto, perfino il crimine, reca l'impronta della grandezza.
Se si confronta questo quadro con quello che ci offre la Francia, come credere alla durata di una libertà che comincia già putrida? Ovvero, per parlare più esattamente, come credere che questa libertà possa nascere (giacché ancora non esiste), e che dal seno della più disgustosa corruzione possa sorgere questa forma di governo, che richiede più virtù di tutte le altre? Quando si sentono questi pretesi repubblicani parlare di libertà e di virtù, sembra di vedere una cortigiana appassita che, con rossore pudico, si dia le arie di una vergine.
Un giornale repubblicano riporta il seguente aneddoto sui costumi di Parigi. " Si dibatteva davanti al tribunale civile una causa di seduzione; una fanciulla di 14 anni stupiva i giudici per un grado di corruzione che gareggiava con la profonda immoralità del suo seduttore. Più di metà dell'uditorio era composta di donne e ragazze; fra queste, più di venti non avevano ancora 13-14 anni. Molte stavano accanto alle madri; e invece di coprirsi il viso, ridevano rumorosamente dei dettagli necessari, ma rivoltanti, che facevano arrossire gli uomini " (8).
Lettore, rammenta quel romano che, ai suoi tempi, fu punito per aver baciato la moglie davanti ai suoi bambini. Fa il confronto, e tira le conclusioni.
La rivoluzione francese, senza dubbio, ha percorso un cammino i cui momenti non si somigliano tutti; però, nel fondo, la sua natura non è mai cambiata, e fin dalla sua culla ha mostrato tutto quel che sarebbe stata. Era un certo delirio inspiegabile, un'impetuosità cieca, un disprezzo scandaloso di quanto è rispettabile tra gli uomini; un'atrocità di nuovo genere che scherzava sui propri misfatti; soprattutto una prostituzione impudente del raziocinio e di tutte le parole fatte per esprimere idee di giustizia e di virtù.
Se ci si sofferma in particolare sugli atti della Convenzione nazionale, è difficile dire quel che si prova. Quando vado con il pensiero all'epoca della sua convocazione, mi sento trasportato, come il Bardo sublime dell'Inghilterra (9), in un mondo fantastico; vedo il nemico del genere umano sedere al Maneggio, e convocare tutti gli spiriti del male in questo nuovo Pandoemonium; odo distintamente il rauco suon delle tartaree trombe (10); vedo tutti i vizi della Francia accorrere all'appello, e non so se è un'allegoria quella che sto scrivendo.
E ancora adesso, guardate come il crimine fa da fondamento a tutta quella impalcatura repubblicana; la parola cittadino che essi hanno sostituito alle forme antiche di cortesia, l'hanno presa dagli uomini più vili; fu in una delle loro orge legislatrici che alcuni briganti inventarono questo nuovo titolo. Il calendario della repubblica, che non deve essere considerato soltanto dal suo lato ridicolo, fu una congiura contro il culto; la loro era prende inizio dai più grandi misfatti che abbiano disonorato l'umanità: non possono datare un atto senza coprirsi di vergogna, ricordando l'origine infamante di un governo le cui feste perfino fanno impallidire.
È da questo fango intriso di sangue che deve dunque uscire un governo durevole? Non ci si oppongano i costumi feroci e licenziosi dei popoli barbari che pure sono diventati ciò che vediamo. La barbara ignoranza ha presieduto, senza dubbio, a numerose costruzioni politiche; ma la barbarie dotta, l'atrocità sistematica, la corruzione calcolata, e soprattutto l'irreligiosità, non hanno mai prodotto niente. Ciò che è acerbo giunge alla maturità; la putredine non giunge da nessuna parte.
Si è mai visto, d'altra parte, un governo, e soprattutto una libera Costituzione, incominciare a funzionare prescindendo dai membri dello Stato, e fare a meno del loro consenso? (11) Eppure è il fenomeno che ci presenterebbe quella meteora che si chiama Repubblica francese, se potesse durare. Questo governo viene creduto forte perché è violento; ma la forza si distingue dalla violenza tanto quanto dalla debolezza, e il modo stupefacente in cui esso opera in questo momento, forse basta da solo a dimostrare che non può continuare a lungo. La nazione francese non vuole questo governo; essa Io patisce. Vi resta sottomessa, perché non può scuoterlo, oppure perché teme qualcosa di peggio.
La repubblica riposa solo su questi due pilastri, che nulla hanno di reale. Si può dire che si regge interamente su due negazioni.
Inoltre, è assai notevole che gli scrittori amici della repubblica non si adoperino affatto a mostrare la bontà di un tale governo; sanno bene che proprio questo è il punto debole: dicono solo, con la temerità di cui sono capaci, che esso è possibile; e passando con leggerezza su questa tesi come su dei carboni ardenti, si adoperano unicamente a provare ai francesi che essi si esporrebbero alle più grandi sciagure, se ritornassero al loro antico
governo. È su questo capitolo che sono facondi; non la finiscono di parlare degli inconvenienti delle rivoluzioni. Se li incalzaste, sarebbero capaci di ammettere che fu un crimine a creare l'attuale governo, purché si accordi loro che non bisogna compierne uno nuovo. Si mettono in ginocchio davanti alla nazione francese; la supplicano di conservare la repubblica. In tutto quel che dicono sulla stabilità del governo, si sente, non il convincimento della ragione, ma i sogni del desiderio.
Passiamo ora al grande anatema che pesa sulla repubblica.

NOTE :

1 Plutarco, Vita di Licurgo, cap. 9, traduzione di Amyot (n.d.a).
2 Non credo vi sia stato mai sulla terra un governo cosi ben temperato, ecc. Montesquieu, Esprit des Lois, libro XI, cap. 8 (n.d.a.).
3 Vedi il libro dei Feudi, in appendice al Diritto romano [n.d.a.].
4 I democratici d'Inghilterra hanno cercato di dare ai diritti dei Comuni un'origine molto più antica, e hanno visto il popolo fin nei famosi WITTENAGEMOTS; ma questa tesi era insostenibile, e si è dovuto abbandonarla di buona grazia, Hume, tomo I. Appendice I, p. 144. Appendice II, p. 407. Edizione in 4". London, 1762 [n.d.a.].
5 Spesso si suppone, per malafede o per disattenzione, che solo il mandatario può essere rappresentante: è un errore. Tutti i giorni, nei tribunali, il bambino, il pazzo e l'assente vengono rappresentati da uomini che non hanno ricevuto il loro mandato se non dalla legge. Ora, il popolo riunisce eminentemente queste tre qualità; giacché esso è sempre bambino, sempre pazzo e sempre assente. Perché dunque i suoi tutori non potrebbero fare a meno del suo mandato? [n.d.a.].
6 Non tengo conto dei cinque posti dì Direttori. A tale proposito, la probabilità è cosi piccola che può essere considerata uguale a zero [n.d.a.]
7 Vedi l'interrogatorio di Babeuf, giugno 1796 [n.d.a],
8 fournal de l'Opposition, 1795, n. 175, p. 705 [n.d.a.].
9 Milton, l'autore del Paradiso perduto.
10 In italiano nel testo.
11 Allusione al decreto dei due-terzi, che imponeva agli elettori di accordare il mandato a un numero fisso di ex membri della Convenzione. Contro il decreto ebbe luogo un'insurrezione (13 vendemmiaio dell'anno III - 5 ottobre 1795), repressa nel sangue.