giovedì 5 luglio 2012

Francesco II Re delle Due Sicilie

Francesco II

Francesco II è l'ultimo Sovrano a regnare sulle Due Sicilie; è con lui che avviene l'invasione del Regno da parte prima dei garibaldini e poi dell'esercito sabaudo, e quindi l'annessione al neonato Regno d'Italia.
Il tutto solo un anno dopo la morte di Ferdinando II, avvenuta quando questi aveva solo 48 anni, mentre Francesco si è trovato inaspettatamente sul Trono alla giovane giovane età di 23 anni.
Era infatti nato il 16 gennaio 1836 primogenito di Ferdinando II e della sua prima moglie Maria Cristina di Savoia (di cui, come detto in precedenza, è in corso il processo di beatificazione), che lo lascerà orfano di madre solo quindici giorni dopo la sua nascita.
Sia il padre che la sua seconda moglie, la Regina Maria Teresa d'Asburgo, gli impartirono, con l'ausilio dei padri gesuiti, un'educazione fortemente religiosa, ma non priva di cultura generale, anche se non ebbe mai quella militare di cui era ricco Ferdinando.
Per altro, questi gli insegnò sempre l'amore al Regno e i suoi doveri verso i sudditi, che venivano prima di ogni altra cosa, dopo quelli verso Dio, naturalmente.
In ogni caso, i rapporti con la matrigna non dovettero essere facili, in quanto, come è anche naturale, ella pensava anzitutto ai propri figli (ne ebbe 11, fra cui il futuro capo della Real Casa dopo la morte di Francesco, Alfonso Maria, Conte di Caserta), ma mai conflittuali; Francesco da parte sua rispettava la Regina, e questa si preoccupava di seguire il futuro sovrano.
Ferdinando gli scelse come moglie Maria Sofia di Baviera, figlia del Duca Massimiliano, sorella di Elisabetta, la moglie dell'Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe. Maria Sofia, come tra poco vedremo, si rivelerà, nei tragici giorni della loro vita, una donna eccezionale, mai più dimenticata dai sudditi ed ammirata in tutta Europa.
I primi tempi a Corte non furono facili per Maria Sofia, destinata a non intendersi con la Regina; ma aveva al contrario tutta la simpatia del Re, che le era sinceramente affezionato.
Il problema fu che proprio con il suo arrivo a Napoli iniziò la malattia che condusse Ferdinando alla morte; l'elevazione al Trono di Francesco e Maria Sofia rese ancor più critici i rapporti con la Regina madre; ma ormai ben altri problemi si stavano preparando all'orizzonte, e Maria Sofia saprà dimostrarsi Regina forte e coraggiosa come poche altre nella storia: il pensiero non può non andare alla Maria Antonietta degli ultimi tempi della sua vita, e anche se a Maria Sofia per fortuna fu risparmiata la tragedia della morte sua e del marito, un più lento dolore le toccò in sorte per tutto il resto della sua lunga esistenza (morirà nel 1925).
Francesco di fatto poté regnare da libero sovrano solo l'arco di un anno; poi dovette occuparsi di affrontare l'invasione del Regno. Eppure già in così poco tempo poté fornire qualche minimale dimostrazione di cosa sarebbe stato il suo regno qualora gli fosse stato concesso di governare serenamente come ai suoi antenati.
Certamente non possedeva la forza di carattere del padre, né, come è ovvio, l'esperienza politica, ma era uomo ricco di bontà e umanità, uomo di profonda fede e senso del dovere verso i sudditi, e specie verso i bisognosi. Univa alla capacità riformatrice dei suoi antenati, ancor più di questi un profondo senso dei doveri religiosi, il che in effetti lo rendeva forse il migliore dei sovrani per i suoi sudditi.
Del resto, la feroce resistenza filoborbonica che avvenne negli Anni Sessanta (si veda a riguardo la voce apposita) e che vide coinvolti decine di migliaia di uomini e donne - come ai tempi delle insorgenze - in armi a difesa dei suoi diritti legittimi, è la miglior riprova di quanto appena affermato.
Fin dalla sua salita al Trono, concesse tante amnistie, nominò delle commissioni apposite per visitare i luoghi di pena e apportare le migliorie necessarie; volle concedere maggiore autonomie locali ai municipi, e diminuì il peso dei legami burocratici; a Palermo e Messina accordò franchigie daziarie, a Catania istituì un Tribunale di Commercio e le Casse di conto e di sconto; condonò in Sicilia gli avanzi del dazio e dimezzò l'imposta sul macinato, abolì il dazio sulle case terrene ove abitava la povera gente e ridusse le tasse doganali, specie quella sui libri esteri; diminuì anche le tasse sulle mercanzie estere, concesse Borse di Cambio a Chieti e Reggio Calabria; ordinò che si aprissero monti frumentari e monti di pegni, e Casse di Prestito e di Risparmio nei paesi che ne erano privi; essendovi stata una carestia di grano, mentre i ribelli già accusavano il Re di voler far gravare il peso sui poveri, egli dava ordine di distribuire a prezzo ridottissimo intere partite di grano estero alle popolazioni, per altro con perdita economica da parte del governo.
Creò inoltre cattedre, licei e collegi, e istituì una commissione per il miglioramento urbano di Napoli (aveva in mente a riguardo di costruire mulini a vapore governativi per offrire la macinazione gratuita dei grani, ma l'idea non poté essere attuata per l'arrivo dei garibaldini); ampliò la rete ferroviaria e chiese stretto conto dei ritardi dei privati nelle costruzioni già accordate, e con decreto del 28 aprile 1860 prescrisse l'ampliamento della rete con la linea Napoli-Foggia e Foggia-Capo d'Otranto; poi ordinò le linee Basilicata-Reggio Calabria e un'altra per gli Abruzzi, mentre già pensava anche alla Palermo-Messina-Catania.
Il 1° marzo 1860 prescrisse a tutti i fondi la servitù degli acquedotti, ed evitando così gli impaludamenti favorì l'irrigazione dei campi e quindi la salute pubblica; dispose poi il disseccamento del Lago del Fucino, fece continuare il raddrizzamento del fiume Sarno scavando un canale navigabile, ordinò che si continuassero i lavori nelle paludi napoletane e lo sgombro delle foci del Sebeto.
Tutto questo in un anno. Ancora nel 1862, ormai esule a Roma, inviò una grossa somma ai napoletani vittime di una forte eruzione del Vesuvio.
Dopo la caduta del Regno, i Reali furono ospitati a Roma da Pio IX (che ricambiava in tal maniera l'ospitalità ricevuta da Ferdinando II nel 1848-1850) prima al Quirinale poi a Palazzo Farnese, fino al 1870. In questi anni, essi tentarono dapprima di fomentare la resistenza filoborbonica che stava prendendo piede nell'ex-Regno, ma poi si resero conto che tutto era perduto e non vollero essere causa di altro sangue, di altro odio e dolore.
Privati dei loro beni personali dai Savoia (erano stati sequestrati senza alcun diritto né giustificazione da Garibaldi, non solo i beni immobili, ma anche quelli mobili, che Francesco non aveva voluto portare con sé), essi dovettero spostarsi spesso, e vissero per molto tempo a Parigi, e di tanto in tanto in Baviera nelle tenute della famiglia di Maria Sofia, conducendo vita serena e modesta. In uno di questi viaggi, nel 1894, in pace con Dio, con il prossimo e quindi con la propria coscienza, Francesco II si spegneva ad Arco (Trento).
Capo della Real Casa, non avendo egli eredi, divenne il fratello Alfonso Maria di Borbone delle Due Sicilie, Conte di Caserta. 


Francesco II
Francesco II
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Brano tratto da "I BORBONI DI NAPOLI" - Giuseppe Coniglio, Dall'Oglio, 1981 (cfr. pgg. 452 - 454)

L'assedio di Gaeta

Giunto a Gaeta Francesco non aveva ancora un'idea esatta della gravità di quel che era successo. Forse sperava che potesse prevalere la soluzione federativa, che gli era stata in passato prospettata. Ma ben presto le vicende militari gli lasciarono solo il lembo di terra su cui si trovava, la piazzaforte di Gaeta, che fu assediata e a queste operazioni parteciparono le truppe di Vittorio Emanuele II, che si era inserito nella vicenda garibaldina.
Era libero il mare, ove navi francesi impedivano che fossero tagliate le comunicazioni, e cosi era possibile approvvigionare la fortezza.
L'assedio iniziò il 13 novembre con un bombardamento da parte dell'esercito sardo; si profilò subito la durezza delle operazioni militari e nello stesso tempo apparve il vero animo di quanti erano venuti al seguito del re.
Tutti coloro che avevano nutrito speranze di una facile e breve resistenza ed un lieto fine, si affrettarono a lasciare Gaeta, Maria Teresa ed i figli per primi, seguiti dagli ambasciatori di Austria e Prussia, mentre restò a Gaeta quello di Spagna. Erano stati gli unici rappresentanti del corpo diplomatico a lasciare Napoli con il re. Gaeta si svuotò, restarono solo i combattenti e tra essi si distinse per ardire ed abnegazione la regina, che si prodigò ad assistere i feriti.
La guerra divenne aspra, i pochi ma leali, rimasti fedeli a Francesco e che non erano partiti, erano decisi a morire e cosi il presidio di Gaeta. Tra essi 9 re fuggiasco trovò una dignità ed un prestigio mai dimostrato. Si era lasciato influenzare da consiglieri inetti ed aveva sempre adottato il partito peggiore; suggestionato dalla memoria del padre egli non aveva esitato a seguirne la tradizione, ma ora era libero da condizionamenti, spronato dall'esempio della moglie, e si mostrava intrepido tra il grandinare delle bombe.
Se il re mostrava più coraggio di quel che ci si sarebbe aspettati da lui, la regina divenne leggendaria; la fama del suo ardire e coraggio giunse anche ai piemontesi che assediavano Gaeta e potevano vederla con i binocoli. quando passava da una postazione all'altra per rianimare i combattenti, o intrepida sotto il fuoco confortava e curava feriti e malati.
Francesco, giunto a Gaeta, non dette solo prova di sprezzare il pericolo, ma tentò di organizzare un governo e, date le difficoltà, dimostrò anche in questo caso uno spirito d'iniziativa che fu una rivelazione. 1 prescelti erano vecchi collaboratori, ma tali da dare pieno affidamento di servire fedelmente e dividere col sovrano la sorte che il momento riservava. Presidente del consiglio e titolare dei portafogli degli Esteri e della Guerra fu il tenente generale Francesco Antonio Casella, ?consigliere di Stato. Il ministro della Marina fu il viceammiraglio Leopoldo Del Re; quello dell'Interno e di Grazia e Giustizia il marchese Pietro Calà Ulloa, ed infine delle Finanze Salvatore Carbonelli, barone di Letino C).
Il Casella iniziò subito la sua attività e già il 16 settembre si rivolse ai tre diplomatici stranieri presenti a Gaeta con una lettera in cui segnalava l'illegalità dell'azione garibaldina e dei decreti firmati da Garibaldi. In particolare protestava contro la disposizione per cui tutte le navi da guerra e mercantili borboniche erano incorporate nella flotta sarda, mentre arsenali e magazzini venivano messi a disposizione di essa.
Ancora non approvava che le sentenze fossero pronunciate in nome di Vittorio Emanuele ed i sigilli di stato borbonici fossero stati sostituiti da quelli sabaudi. Ma la parte più interessante del documento è quella in cui il Casella rifaceva la storia dei reclami borbonici presentati al Cavour, delle dichiarazioni con cui quest'ultimo declinava ogni responsabilità circa le azioni di Garibaldi, mentre gli stati sardi continuavano a servire a questi da base di rifornimento ed il Cavour tollerava che ciò avvenisse, che a Genova e a Torino avessero sede i comitati che avevano portato la rivoluzione nel regno delle Due Sicilie, favorendone l'occupazione.
Tutto ciò era avvenuto mentre apparentemente vi era lo stato di pace tra i due paesi e un ambasciatore sardo aveva risieduto a corte, restandovi sino al momento della partenza di Francesco II.
Per tutti questi motivi il Casella elevava formale protesta, richiamando la loro attenzione sull'illegalità degli atti commessi dal Cavour fino a quel momento e del titolo di re d'Italia che Garibaldi attribuiva a Vittorio Emanuele II.
Ormai si trattava di una questione morale, perché era chiaro che gli avvenimenti avevano carattere definitivo e si combatteva per la propria dignità. Pochi giorni dopo, il 25 settembre, prima che i borbonici affrontassero i garibaldini per l'ultimo scontro, quello finale dei primi d'ottobre lungo il Volturno, il Casella si rivolse ai diplomatici borbonici all'estero dichiarando che la rivoluzione e la successiva invasione erano atti contrari ad ogni norma di diritto internazionale, denunziando la complicità dello stato sabaudo in queste vicende e criticando l'indifferenza con cui le potenze europee avevano assistito a quanto era avvenuto ed avveniva e la gravità di tale precedente che sovvertiva i rapporti diplomatici d'Europa.
Nel contempo Francesco Il si rivolse ai sovrani d'Austria, Belgio, Inghilterra, Prussia, Russia, Spagna, tornando a ribadire l'interesse che tutti dovevano avere perché fossero condannati i metodi basati sulla forza e non sul diritto. A Napoleone III inoltre chiedeva che, come aveva fatto per lo Stato Pontificio, inviasse truppe in suo aiuto, collaborando così alla difesa di Gaeta. Ma i dispiaceri di Francesco II non erano terminati.
Garibaldì aveva ordinato il sequestro dei beni borbonici; il re si sentì in dovere di far presente e ribadire l'illegalità di tale azione, respingendo tutte le insinuazioni fatte sulla provenienza di tali ricchezze.
Né era finito, perché si reclamò contro i plebisciti tenuti nei due regni di Napoli e Sicilia l'8 novembre, contestandone la legalità. Ma erano atti privi di valore politico, che è opportuno segnalare per mostrare il radicale cambiamento avvenuto in Francesco II; era finita la sua inerzia, non rimase inattivo a veder morire i soldati, e nello stesso tempo fu spinto a mostrare i segni di vitalità del governo borbonico a Gaeta.
Nella fortezza intanto scarseggiavano le vettovaglie, malgrado l'aiuto della flotta francese che inoltre impediva alle navi sabaude di colpire dal mare; sopraggiunsero epidemie ed il tifo cominciò a mietere vittime, mentre la regina non si risparmiava assistendo coloro che ne avevano bisogno.
A tutto ciò si aggiunse il disimpegno francese. Lo annunciò una lettera del 6 dicembre di Napoleone III a Francesco II in cui deplorava che presto sarebbe stato costretto a dare ordine alla flotta di ritirarsi ed esortava il re a lasciare Gaeta. Ma Francesco, incoraggiato dai suoi a resistere, rifiutò di aderire a tale richiesta.
Così continuò il duro e lungo assedio che, cominciato il 13 novembre ebbe fine il 13 febbraio 1861. Fu condotto con tanta asprezza che fu colpita persino la parte del castello in cui era l'appartamento reale, dopo che i tiratori erano riusciti ad individuarlo.
Dal 9 al 19 gennaio 1861 si ebbe una breve pausa nel fuoco, grazie ad un armistizio negoziato dai francesi, ma subito dopo i bombardamenti ripresero più forti che mai. Lo stesso giorno 19 partirono le navi francesi ed i Borboni restarono soli al loro destino.
Ma anche tra queste difficoltà dettero segni di vita, inviando circolari alle rappresentanze diplomatiche all'estero, accusando la violenza loro inflitta. t il caso della circolare del 12 novembre. Erano sfoghi, affermazioni di principio che a nulla certo valevano, come la lettera che il 15 gennaio, alla vigilia della partenza della flotta, Francesco indirizzò a Napoleone III.
Dopo averlo ringraziato per l'aiuto ricevuto, e non era stato poco perché solo grazie alla presenza delle navi francesi egli aveva potuto resistere, il re faceva presenti le decisioni finali cui era giunto dopo attenta riflessione. Spiegava come, a suo giudizio, se si fosse ritirato, avrebbe compromesso ogni eventuale possibilità di far valere ancora i propri diritti. Proprio per non rinunciare ad essi egli era disposto a morire a Gaeta, che intanto veniva bloccata dall'ammiraglio sardo Carlo Pellion di Persano.
La fortezza cominciò ad essere bombardata anche dal mare ed il 23 gennaio una bomba provocò lo scoppio di una polveriera e si ebbero numerosi morti e feriti. Due altri episodi del genere avvennero il 4 ed il 5 febbraio. Fu necessaria una tregua per disseppellire morti e feriti giacenti tra le macerie, vi erano anche alcuni civili che non avevano voluto sgombrare le abitazioni, e si ottenne nello stesso tempo il permesso di evacuare a Formia ed a Napoli i feriti e gli ammalati che non potevano trovare cure sufficienti a Gaeta.
Dopo la tregua ripresero i violenti cannoneggiamenti, ma ormai Francesco era rassegnato ad arrendersi; i primi passi furono compiuti da parte borbonica ed il 13 febbraio, dopo due giorni di trattative, fu firmato un accordo piuttosto pesante. In base ad esso la fortezza di Gaeta doveva essere ceduta all'esercito sardo così come si trovava, con tutto l'equipaggiamento e le munizioni che ancora rimanevano.
Doveva avvenire gradualmente la cessione delle porte e tutti gli occupanti, militari e civili, uscendo avrebbero ricevuto gli onori militari. La truppa doveva subito consegnare le armi; gli ufficiali avrebbero potuto tenerle. Dovevano aprire la marcia le truppe straniere. Erano autorizzati a restare a Gaeta i malati, i feriti e tutto il personale ospedaliero.
I militari sarebbero stati trattenuti come prigionieri di guerra, finché non fosse avvenuta la resa delle fortezze di Messina e Civitella del Tronto, che ancora resistevano, poi sarebbero stati posti in libertà gli stranieri e rinviati ai loro paesi. Si impegnavano però per la durata di un anno a non combattere contro l'esercito di Vittorio Emanuele.
Seguivano norme che prevedevano la sistemazione degli ufficiali e dipendenti civili dell'esercito ed eventualmente il trattamento di quiescenza previsto, se avessero preferito essere messi in libertà.
Era ancora disposto che gli abitanti di Gaeta non dovessero avere molestie di alcun genere, qualunque fosse la loro posizione politica. Infine era nominata una commissione mista col compito di provvedere alla consegna della fortezza.
Francesco II si preparò a partire, congedandosi con un proclama in cui giustificava la cessione della piazzaforte ed il 14 febbraio alle 9 questa propaganda era il fattore religioso, che tanto aveva contribuito al successo del Ruffo. Ancora adesso, a distanza di molti decenni, era un motivo valido ed il pio Francesco venne presentato come una vittima dei miscredenti e fedele sostegno del potere temporale del papa, che in questi anni aveva subito gravi scosse.
Il confine pontificio fu sfruttato ampiamente dai borbonici con la connivenza della gendarmeria pontificia e le incursioni nel territorio ora italiano furono frequentissime. Maria Teresa e Francesco furono solidali in questa lotta, che costituì una pericolosa spina nel fianco dell'esercito sabaudo. Si ebbero episodi di violenza, come il sacco di Venosa, in provincia di Potenza, che non fu possibile impedire e così a Melfi, ove venne addirittura nominato un governo provvisorio filo?borbonico. Ma erano fuochi di paglia, presto repressi, che avevano un solo lato positivo, tenevano desta l'attenzione delle potenze verso Francesco e la situazione interna dell'Italia meridionale.
C) Una biografia del Carbonellì è in ARCHIVIO DI STATO Di Napoli, Archivio Borbone, Carte di re Francesco Il, f. 1134, c. 385.