venerdì 30 settembre 2011

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due-Sicilie(1860-1861):Il timore di garibaldi e l'armistizio farsa:Parte6.

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.



 Quartiere Quattro Venti, un telone e' steso dai sovversivi attraverso la strada per impedire le comunicazioni visuali delle truppe Duo Siciliane,esso è stato "issato" come molte barricate durante i giorni dell'armistizio,quando tali operazioni non sono consentite.



La Masa che si trovava nel combattimento di Porta di Termini, vedendo i soldati, quantunque decimati, avanzarsi imperturbabili, corse al Palazzo Pretorio, e disse a Garibaldi, che tutto era perduto, le squadre ed i volontari del continente tutti in fuga, i soldati avanzarsi senza più trovare ostacoli, tra breve invadere tutta la Città, e quindi il loro pericolo di essere fatti prigionieri, imminente. Il Dittatore che stava dubbioso sulla sorte de' suoi, perché avea inteso il fuoco della moschetteria sempre avvicinarsi a lui, udendo le notizie che gli recava la Masa, ex abundantia cordis,
esclamò: «Tradimento! mi hanno tradito! «Stava per uscire dal Palazzo Pretorio per mettersi in salvo, forse sopra qualche legno sardo o inglese che si trovavano nel porto; e veramente a quelle persone che gli si paravano innanzi anelante domandava: «Qual'è la strada più vicina che conduce al Porto? "
Però, prima di fuggire, consigliato dagli amici che lo circondavano, volle tentare di nuovo la fortuna con ottenere qualche cosa dal generale Lanza, cui mandò subito una persona fidata. Questo tristissimo Generale che era inaccessibile ed invisibile a tutti, ricevè immediatamente il messo di Garibaldi. Fu allora che il Lanza spiccò l'ordine a Meckel di cessare dalle ostilità, e non avanzarsi di più nella città: e non contento di avere mandato quest'ordine col capitano Nicoletti, temendo che questi potesse avere del male in quella baruffa, ne spiccò un altro simile e lo mandò anche a Meckel col capitano Bellucci. Quanta premura e prevvidenza quando si trattava di agevolare il nemico!
Garibaldi rassicurato dagli ordini dati da Lanza al Meckel, si atteggiò nuovamente a Dittatore della Sicilia, ad eroe da commedia.
La penna mi cade dalle mani scrivendo questi fatti che non hanno esempi nella storia delle umane malvagità. Quella sospensione d'armi non solo fu il crollo della monarchia de' Borboni, e della autonomia secolare del Regno delle Due Sicilie, ma inoltre fu inesauribile fonte di lagrime e di sangue. Oh! la caduta de' Troni legittimi schiaccia sotto i suoi rottami e popoli e Regni!
Garibaldi mandò un altro messo al Lanza per affrettare la discussione de' patti e la firma dell'armistizio. Il Lanza che in tutto e per tutto volea contentare il duce rivoluzionario, mandò i generali Letizia de Chretien a sottoscrivere in suo nome.
I due generali si recarono al Lazzaretto, ove trovarono Garibaldi in mezzo al suo Stato maggiore, e tutti montarono su l'Annibale
legno inglese, ed ivi alla presenza di Mundy abborracciarono senza discussione una tregua di 24 ore.
Letizia portava alta la testa, si vantava delle sue passate prodezze, pretensione che fece ridere tutti.
Firmata la tregua i due Generali tornarono da Lanza orgogliosi e baldi come se avessero vinta una grande battaglia. Regno disgraziato servito da simili Generali!
Garibaldi stremato di forze, battuto dentro Palermo, circondato da un esercito di circa ventiquattromila uomini, in procinto di fuggire all'entrata della sola brigata Meckel che si batteva per davvero, e che si era raccomandato a Lanza per esser salvo, ed ottenere la tregua, dopo i fatti di Fieravecchia, annunziava all'attonita Sicilia di aver conceduta quella tregua per mera umanità.
Palermitani però non credeano che veramente il Lanza avesse concesso un armistizio. Essi, dopo tutto quello che aveano veduto, non poteano credere che il duce della rivoluzione avesse ancora qualche autorità in Palermo. Aveano veduto i soldati avanzarsi senza ostacolo nella città, i garibaldini fuggire per ogni dove, le squadre sparite per incanto: la notizia di quell'armistizio chi la giudicava una favola garibaldesca, chi un'astuzia del Lanza.
Tenente Savino, e il Capitano Nicoletti, i quali traversarono la città immediatamente dopo aver firmato l'armistizio, mi raccontarono più volte, che ricevettero da' Palermitani moltissimi segni di profonda riverenza e proteste di sottomissione.
Io sono testimone, che moltissimi Palermitani d'ogni condizione, dopo firmato l'armistizio, venivano nel campo della Fieravecchia a raccomandarsi a me, facendo a tutti proteste di devozione alla causa dell'ordine e del Re.
Si era stabilito che il giorno seguente si dovesse assalire la città con tre colonne: una comandata da Wittembach dalla parte del Papireto, la seconda comandata da Sury dalla parte di Ballarò, la terza dal celebre Landi di Calatafimi per la via del Cassero. L'essere stato quest'ultimo scelto all'operazione più difficile, dimostrava chiaro che non si voleva vincere.
Il Tenente-Colonnello Buonopane intimo del Lanza, fece di tutto affinchè non avvenisse quell'assalto che si era designato: fece osservare che la città non si sarebbe potuta assalire, conciosiachè fosse stata barricata da' garibaldini: quindi proponeva un prolungamento d'armistizio d'altri tre giorni: Lanza approvava un consiglio cotanto sapiente.
Vedete, lettori miei, quanta insipienza e stupidaggine! Se in una notte la città fu barricata in un modo che la truppa ne avrebbe patito gran danno assaltandola, con altri tre giorni di tregua Palermo non sarebbe divenuto inespugnabile? Intanto così ragionavano que' duci gallonati, privi di quel buon comune che fa difetto né pure agli idioti: se poi non si volesse ritenere di buona fede, meriterebbero quegli epiteti che voi sapete.
È legge di guerra che nella tregua nessuna delle parti belligeranti possa fare opera di fortificazioni qualunque siano: tuttavia i garibaldini ne faceano quanto più poteano, ed i soldati spettatori di quelle opere che servivano a loro danno non poteano impedirle per divieto de' loro duci. I garibaldini fecero di più: contrariamente a' patti della tregua impedirono alla truppa di fornirsi di vettovaglie, impossessandosi de' carri pieni di viveri destinati a' soldati. Lanza e gli altri generali della sua qualità non trovavano nulla da osservare a queste infrazioni dell'armistizio.
Il generalissimo Lanza facendo tesoro delle ragioni sciorinate dal Buonopane contro i progetti di assalire la città, mandò il solito Letizia al palazzo Pretorio, acciocchè chiedesse a Garibaldi un prolungamento d'armistizio.
Ecco i patti del novello armistizio firmato da Crispi come segretario di Stato del Dittatore: art. 1° Consegna del Banco di Palermo con tutti i danari (bravo Crispi); art. 2° Prolungamento della tregua per tre giorni; art. 3° libero passaggio de' viveri dall'una e l'altra parte; art. 4° Imbarcarsi i feriti regi con le famiglie; art. 5° Scambio di prigionieri d'ogni garibaldino con due regi.
Avete mai letto nelle storie delle guerre che, nella conchiusione di una tregua solo profittevole al vinto, si consegnassero a questo i danari dello Stato? Io non l'ho mai inteso dire né letto, e suppongo che una simile cosa non sia mai stata al mondo. I duci napoletani, ignoranti, inetti, e, com'è in voce presso tutti, traditori, non contenti di accordare al nemico tutti i vantaggi possibili per distruggere quell'armata ch'essi medesimi comandavano, consegnarono allo stesso nemico il danaro dello Stato e de' privati, per metterlo nella posizione più comoda e sicura di far la guerra ad oltranza, come possessore di quell'attraente metallo che tutto può e vince.
Il Crispi, creato allora ministro delle Finanze, trovò nel Banco (attento Crispi), cinque milioni di ducati, moneta sonante già s'intende, perché il Regno delle Due Sicilie non era Regno di carta che spesse volte diventa stomachevolmente sudice.
Si vuole che il vero scopo dell'armistizio fosse stato la cessione di quel Banco a Garibaldi, dapoichè vi era da far contenti e quelli che davano, e quelli che riceveano. Fu detto e stampato che Lanza, di que' cinque milioni rosicchiò per parte sua ducati sessantamila. Io me ne lavo le mani, vi racconto, lettori miei, quello che solamente si disse e si stampò in que' tempi: e trattandosi di danari, è un affar serio; quid non mortalia pectoria cogit auri sacra fames?
Ai soldati si era imposto con inganno, l'ordine di non avanzarsi nella città, dico con inganno, non solo perché si disse che la rivoluzione era abbattuta e sottomessa, ma perché l'armistizio vantato e protestato dal Lanza al Meckel, non era stato ancora né firmato né discusso, ma in parola, e Meckel potea misconoscerlo: e quando essi intesero il secondo armistizio,e i vergognosi patti, inviperirono di un modo che mettea paura. Già cominciavano a disubbidire, gridavano al tradimento, e a qualunque costo voleano slanciarsi contro i rivoluzionari.
La notte di quel giorno che si firmò il secondo armistizio, parecchi capi di reggimenti e di battaglioni erano dello stesso avviso de' soldati. Ma ecco il genio malefico del Tenente Colonnello Buonopane, mandato da Lanza, a perorare la causa della tregua, or con preghiere, or con minacce, mettendo sempre in mezzo i voleri del Re. La truppa educata ad una severa disciplina, se per un momento la dimenticava, tosto se ne correggeva, specialmente udendo il nome del Re, cui idolatrava, si sottomettea a tutto, ma non senza fremere di rabbia.
Dopo la firma del secondo armistizio, i soliti intimi del Lanza, Buonopane e Letizia partirono per Napoli. Questi due tristi militari fecero al Re una descrizione della truppa la più sconfortante, ed un'altra brillantissima dello stato de' garibaldini in Palermo. Que' due volponi consigliarono a quel giovine e buon sovrano - il quale né pure sospettava la nequizia di que' due tanto beneficati - di approvare assolutamente l'armistizio, ordinare la ritirata della truppa a' Quattroventi, e prolungare per un termine indefinito l'armistizio. Il Re per allora approvò il solo armistizio.
Il 2 giugno questi stessi ritornarono trionfanti a Palermo: prima di recarsi dal Lanza si abboccarono con Garibaldi: pretendeano di avere pieni poteri dal Re: quindi opponevano qualche contrasto al Generale in capo Lanza: e tutto questo perché trasportati dal grande desiderio di cedere la città a Garibaldi in nome proprio.
Essi ripartirono subito per Napoli, e consigliarono al sovrano di cedere Palermo a Garibaldi, facendogli osservare che la città era divenuta inespugnabile, che i soldati erano demoralizzati, non ubbidivano, e non voleano battersi menzogne ed infamie!
Il giovin Re, pio e aborrente dal sangue, diede loro ordine di condurre la truppa a' Quattroventi, e di là imbarcarsi e lasciare Palermo in balia di Garibaldi e dei suoi. Letizia e Buonopane il 5 giugno ritornarono a Palermo sul vaporetto la Saetta,
e spacciarono come un gran trionfo gli ordini carpiti al tradito sovrano.
È indescrivibile il furore de' soldati e degli uffiziali all'annunzio che si dovesse abbandonare Palermo. Io mi aspettava da un momento all'altro una rivoluzione soldatesca.
Nel tempo che si rimaneva inoperosi alla Fieravecchia, le diserzioni de' soldati ed uffiziali erano già cominciate largamente: però all'annunzio di dar Palermo a Garibaldi e della nostra partenza da quella città, le diserzioni aumentarono in un modo allarmante. Alcuni uffiziali diceano di essere tentati a quel vergognoso passo per non sopportare la maggiore vergogna di ubbidire e servire sotto Generali inetti, vili, e traditori. Questi furono i pochissimi, i quali nella guerra aveano fatto il loro dovere, la maggior parte disertarono, adescati dal danaro (era quello del Banco), che spargeano i messi Garibaldi, pel desiderio di ottenere gradi maggiori nell'armata rivoluzionaria, e riposo, perché erano vili. Questi uffiziali disertori, salvo pochi, erano stati lo scandalo della truppa: in pace burbanzosi e fieri, in guerra si nascondeano in faccia al nemico.
Chinnici Capitano della compagnia d'armi di Palermo disertò al nemico, ma questi invece di premiarlo lo mandò alla Vicaria, d'onde dopo poco tempo fuggì e riparò a Malta: e si potrebbe dire di quel Capitano, «a Dio spiacente ed a' nemici sui».
Il 6 giugno, il generale Letizia e il Tenente Colonnello Buonopane ottennero il favore tanto desiderato di trattare con Garibaldi lo sgombro della truppa dalla Città, presenti gli ammiragli francese ed inglese. Ecco quanto si stabilì. Lo esercito dovea ritirarsi per mare con armi, bagagli e tutti gli animali di tiro che si trovassero nell'armata.
Liberi gli uffiziali di imbarcarsi con le loro famiglia e roba. Scambio di prigionieri.
Liberazione de' prigionieri politici.
Si disse che Lanza, Letizia e Buonopane per far cosa grata a Garibaldi gli avessero promesso che avrebbero fatto consegnare i fucili a' soldati, e gli avrebbero lasciato l'artiglieria: però questa promessa non l'adempirono perché il contegno degli uffiziali fedeli e de' soldati era poco rassicurante.
Si gridò tanto e si grida ancora contro l'armata napoletana per avere bombardato Palermo, saccheggiati ed uccisi molti cittadini, abbruciati palazzi e case con dentrovi intiere famiglie.
Lord Palmerston si fece scrivere tutto questo dal suo Ammiraglio Mundy, e i giornali inglesi lo strombazzavano a' quattro venti della terra, ed erano poi ricopiati dal giornalismo europeo ed americano come oracoli di fede. Io, qual testimone oculare, dirò coscienziosamente quello che vi è di vero e di calunnioso.
Circa il bombardamento di Palermo ho già detto che non fu ordinato dal Re, ma provocato e voluto da' suoi perfidi Generali per discreditare la causa del proprio sovrano. Di fatti fu un bombardamento senza scopo militare, non essendo stato seguito dall'assalto della truppa alla città, come si dovea secondo le leggi di guerra. Fu detto pure quali case e palazzi fossero arsi dai soldati, e di chi fosse la colpa, cioè de' rivoluzionarii, i quali in cambio di battersi a campo aperto, si fortificavano nelle abitazioni altrui ed ivi non veduti faceano fuoco sulla truppa. È assolutamente calunnioso il dire che vi furono intiere famiglie bruciate vive. L'incendio de' palazzi accadde a porta di Termini: ora que' palazzi erano stati già abbandonati da' loro abitatori quando li occuparono i garibaldini, quindi nessuna famiglia fu vittima dell'incendio. Concesso pure che qualche famiglia fosse stata bruciata nella propria abitazione, dovea darsene la colpa a' soldati? no certamente, bensì a' rivoluzionarii: conciosiachè i soldati non aveano il potere di ordinare al fuoco che abbruciasse i soli nemici e perdonasse alle famiglie innocenti, le quali si contennero malissimo rimanendo in quelle abitazioni trasformate in fortezze, ove non potea essere sicurezza né quiete. Dopo l'assalto di porta di Termini, io girai pe' palazzi
incendiati con lo scopo di recare soccorso a qualche disgraziato moribondo, ove mi toccò vedere de' cadaveri a' quali ancora rimanea qualche lembo di camicia rossa, ma non vidi alcun vestigio né di ragazzi né di donne consumate dal fuoco. Del pari è calunnioso che i soldati saccheggiarono que' palazzi: i proprietarii,
prima di abbandonarli, si crede fermamente avessero portato seco le cose migliori che aveano: in seguito vennero le squadre e i garibaldini, che non erano tutti fior di onestà, e lo provano i decreti di Garibaldi il quale condannava in que' giorni i ladri alla morte. I mobili di que' palazzi servirono alle barricate, il resto fu consumato dal fuoco: ai soldati rimanea di saccheggiare le sole mura. Voi lo vedete, io qui non difendo i soldati napoletani con passione, vi dico fatti: in Parco ove la brigata Colonna saccheggiò i magazzini di vino fu trattata come meritava: ma ne' palazzi della Fieravecchia e porta di Termini, se i soldati avessero voluto saccheggiare loro sarebbe mancata la materia. Mi si dirà che i soldati saccheggiarono alcuni palazzi ove non entrarono i rivoluzionarii, ed io rispondo che que' palazzi furono saccheggiati da' ladri palermitani. In fatti la notte veniva molta gente nella strada di porta di Termini e della Fieravecchia, e si annunziava a' soldati padrone di tale o tal altro palazzo; saliva, facea fagotto, e via.
Meckel, di ciò avvisato, diede ordine a' soldati, che faceano la sentinella nella strada, di non fare entrare in alcun palazzo tutti coloro che si spacciassero padroni. Purnondimeno i ladri palermitani trovarono un altro mezzo per rubare, cioè nella notte faceano un buco alla parte opposta di quelle abitazioni, e vi si introduceano senza che le sentinelle se ne accorgessero. Spesso, que' ladri entravano in un palazzo e da questo passavano a quello contiguo, forando il muro intermedio.
Il solo saccheggio che si può imputare alla truppa - se tale potesse chiamarsi - fu quello di aver tolto a sè campi intieri di pomi di terra che erano nelle vicinanze di porta di Termini, e di aver falciato il grano ancor verde per darlo a' cavalli e muli. Ciò fu permesso da Meckel per la ragione della mancanza de' viveri.
Fuori di porta di Termini, dalla parte di mare, vi era un deposito di vini esteri e nostrani: le squadre e i garibaldini lo aveano scassinato e mezzo saccheggiato; i soldati quando sopraggiunsero fecero anche la loro parte. Meckel, onestissimo e rigoroso qual era, impedì non solo quell'atto a' soldati, ma punì costoro, fece serrare le porte del magazzino, e stabilì una sentinella per guardarlo.
Del resto, nelle guerre civili, ed anche in quelle di eserciti regolari, accadono sempre simili saccheggi; avvengono spesso incendii e altri mali peggiori. Basta aprire la storia di tutte le guerre per accertarsi che questa piaga sociale esiste da per tutto, eziandio negli eserciti che si vantano tra i più civili d'Europa.
Lord Palmerston, quando calunniava il Re di Napoli e l'armata napoletana vedeva il fuscello negli occhi altrui e non vedeva la trave nei suoi. Il mondo sa come erano trattati da' soldati inglesi i poveri indiani. Quindi calunniare in quel modo un'armate infelice e tradita non è onesto e generoso.


(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).