giovedì 1 settembre 2011

Il cammino verso la malaunità:L’espansionismo piemontese (1855-1860).

                                                Camillo Benso, conte di Cavour.


Dopo la disfatta della prima guerra del Piemonte contro l’Austria (1848-49), quest’ultima continuava a tenere saldamente in mano la penisola sia con domini diretti sia con stati alleati ma la politica di Napoleone III mirava a subentrare in Italia agli Asburgo favorendo, strumentalmente, le mire espansionistiche del Piemonte. Si sarebbe creato un nuovo e primo ampio stato italiano vassallo, primo anello di una catena che voleva fare del Mediterraneo un lago francese, l’occupazione dell’Algeria (1830) faceva parte di questo piano; anche l’Inghilterra, perse da tempo le colonie americane, mirava al controllo del commercio marittimo nel Mediterraneo e temeva, oltre all’aumento della sfera d’influenza di Napoleone III in Italia, le mire espansionistiche transalpine in Egitto dove era in costruzione, da parte di un’impresa francese, il canale di Suez, prossima via d’accesso rapido all’India che era un dominio inglese; quest’ultima era minacciata contemporaneamente anche dalla Russia che, impadronendosi del Mar Nero, mirava a portare l’impero ottomano alla dissoluzione.
La storia unitaria italiana si inserì in questo contesto geopolitico europeo ed è assurdo attribuire i suoi sviluppi esclusivamente ai fermenti rivoluzionari come se si fosse potuta sviluppare “sotto vuoto” senza il benestare di Francia e Inghilterra, le due superpotenze che avevano rispettivamente l’esercito e la marina più potenti del mondo (l’Inghilterra con il suo impero controllava addirittura un quinto delle terre emerse): l’Italia era politicamente zero, gli altri erano in sella da secoli.
Camillo Benso, conte di Cavour, “uocchie ‘e cane e vocca ‘e lupo[1] andò al potere nel 1852 e cominciò l’opera di “grande tessitore” tentando di rompere l’isolamento internazionale del piccolo Piemonte con lo scopo di trovare appoggi stranieri al suo obiettivo politico: l’espansione territoriale del suo Stato. Egli cercava l’alleanza di Francia ed Inghilterra, le uniche potenze che potevano essere disposte ad appoggiarlo allo scopo di ridimensionare l’influenza dell’Austria sulla penisola, queste nel marzo 1854 entravano in guerra contro la Russia a fianco dell’Impero Ottomano per opporsi alla politica espansionistica dello Zar il quale aveva occupato due principati danubiani che erano sotto il dominio turco (guerra di Crimea del 1854-56).
Quando gli inglesi chiesero al Piemonte di inviare truppe di rinforzo, Cavour accettò malgrado la dura opposizione interna: 18mila piemontesi partirono inalberando il vessillo tricolore con lo stemma sabaudo nel mezzo, le spese di guerra (50 milioni di lire dell’epoca) furono coperte con un prestito al 3%, concesso naturalmente dall’Inghilterra; l’accordo non prevedeva nessuna contropartita a favore del Piemonte. All’opposto Ferdinando dichiarò la sua neutralità nel conflitto in corso, respingendo le profferte di alleanza Francia e Gran Bretagna (chiedevano 40 mila uomini e tre navi) [2] alle cui flotte rifiutò di concedere l’uso dei porti meridionali come scalo per le operazioni di guerra; inutile dire che questo fermo atteggiamento gli attirò ulteriormente le ire delle due superpotenze che reagirono con azioni diplomatiche e propagandistiche aizzando la stampa “liberale” dei loro due stati contro il re meridionale. Viceversa Cavour se ne era ingraziato i favori anche se l’apporto sul campo del suo esercito fu molto modesto: “I morti erano stati duemila ma quasi tutti per malattia, di modo che anche quel contributo non fu tale da pesare molto sul piano politico, dovendosi necessariamente commisurare ai 14 caduti nel combattimento e ai 15 morti a seguito delle ferite riportate: quanto a dire a perdite non superiori a quelle che le forze alleate subivano ogni notte nelle operazioni davanti a Sebastopoli.” [3]
C’è da aggiungere che anche oppositori acerrimi del Borbone, come Luigi Settembrini, pur se costretti al carcere, plausero la decisione del Re il quale, in questo modo, riaffermava la sua autonomia perché “è forse il regno infeudato alla Francia o ad Inghilterra?”[4]; quelli, invece, costretti all’esilio si espressero per una partecipazione delle Due Sicilie alla guerra.
La Grande Trama piemontese di espansione territoriale, ben mascherata dall’ideale unitario, si sviluppò ulteriormente al congresso di Parigi (14 febbraio-16 aprile 1856) seguito alla guerra di Crimea. Già il 28 dicembre del 1855 Cavour aveva inviato agli ambasciatori a Torino di Francia e Inghilterra una nota nella quale si chiedeva di parlare, nel prossimo consesso europeo, anche della situazione italiana; poi si era recato a Parigi a conferire con Napoleone III al quale consegnò un memoriale nel quale si pregava l’Imperatore di “obbligare l’Austria a rendere giustizia al Piemonte e sollevare le condizioni di Veneti e Lombardi, di sforzare il Re di Napoli a non più scandalizzare l’Europa (sic!), di far allontanare le truppe austriache dalla Romagna”[5].
Così l’8 aprile, in una seduta suppletiva del Congresso, a pace oramai firmata da dieci giorni, prese la parola il ministro degli esteri francese Walewskj il quale, congiuntamente al successivo intervento del rappresentante inglese Lord Carendon (entrambi precedentemente catechizzati da Cavour), sollevò la questione politica italiana puntando l’indice contro lo Stato della Chiesa e il regno delle Due Sicilie accusati, col loro malgoverno, di fomentare spinte rivoluzionarie che potevano mettere in serio pericolo l’assetto europeo se fossero esplose, si invitò quindi questi stati a concedere amnistie generali per i condannati per reati politici e avviare profonde riforme. Poi parlò Cavour che si scagliò contro l’Austria affermando che teneva oppressa con le sue truppe mezza Italia; i delegati austriaci e prussiano fecero delle obiezioni, rimarcando il fatto che il Congresso non si era riunito per deliberare sulla situazione italiana e che, quindi, questi interventi erano fuori tema; quello russo non spese una parola a favore di Ferdinando II, malgrado questi avesse impedito che le flotte alleate, in navigazione per il fronte, facessero scalo nei porti delle Due Sicilie, disse che le istruzioni avute dal suo governo riguardavano esclusivamente le questioni inerenti al trattato di pace. Dietro le quinte Cavour ebbe colloqui privati con gli altri inviati diplomatici, esplicitando le sue mire sui ducati padani e sulle Due Sicilie: la cosa non era nei patti prebellici e i suoi colleghi ne ricavarono una pessima impressione, salvo dargli dei “contentini” con vaghe promesse, come accadde in un incontro ufficiale con il rappresentante del governo inglese Lord Clarendon: il piemontese disse: “Milord, Ella vede che non vi è nulla da sperare dalla diplomazia; sarebbe tempo di ricorrere ad altri mezzi, almeno per quanto riguarda il re di Napoli” e l’inglese, di rimando: “Bisogna occuparsi di Napoli”. “Verrò a trovarvi e ne parleremo insieme rispose il Cavour [6] che nella stessa sede sondava, col Palmerston, primo ministro inglese, la possibilità di acquisire la Sicilia. In realtà egli tornò a Torino a mani vuote, la sua missione fu un fallimento, come anche egli ammise nella corrispondenza col suo ministro degli esteri, nonostante ciò non si può sminuire la circostanza che il problema politico italiano era stato ufficialmente sollevato per la prima volta in un consesso europeo, questo fatto ebbe una grossa risonanza a livello dei liberali italiani.
Il Congresso di Parigi. Il primo delegato a sinistra è Cavour (Regno di Sardegna), il terzo Buol-Schauenstein (Austria). Seduti: da sinistra, Orlov [1] (Russia) e, al di là del tavolo, Manteuffel [2] (Prussia); al di qua del tavolo Walewski (Francia), Clarendon (Gran Bretagna) e Aali [3] (Impero ottomano).

Successivamente ai pronunciamenti avversi manifestati al congresso di Parigi, Ferdinando fece pervenire una nota di protesta alla Francia rimarcando il fatto che “Aver egli la coscienza di governare i popoli secondo giustizia, né l’altrui licenza poterlo spingere a mutar la sua via ... Egli non transigerebbe mai sul diritto di sua indipendenza, pronto a soffrir qualunque abuso di forza, ed alla forza opporre la ragione”[7]. Il 19 e 21 maggio i rappresentanti diplomatici, accreditati a Napoli, di Francia e Inghilterra presentarono delle note ufficiali di biasimo che Ferdinando rispedì ai mittenti interpretandole come una lesione alle sue prerogative di sovrano di uno stato indipendente e affermando che “Se il Congresso stabilì che nessuno Stato aver diritto di ingerirsi nello Stato altrui [il principio del non intervento] i proposti consigli son derogazioni a tale principio … da ultimo egli mai non essendo entrato nelle cose altrui, credesi del pari essere egli solo giudice dè bisogni del suo Regno”[8]; il 24 maggio l’Austria si ritira dalla Toscana. Nell’ottobre del 1856, la Francia e l’Inghilterra ruppero le relazioni diplomatiche con le Due Sicilie e minacciarono anche l’invio di una spedizione navale punitiva nel porto di Napoli che però non ebbe luogo. Persino Luigi Settembrini, dal carcere di Santo Stefano, affermò con orgoglio: “Io fui condannato a morte, io sono nell’ergastolo per causa dello Stato, ma io darei il mio sangue e la mia vita a Ferdinando, se lo straniero volesse insultare lo Stato, occuparlo, invaderlo, impadronirsene[9].
Il 20 ottobre apparve sul “Moniteur”, il giornale governativo francese, un articolo in cui si affermava che “Gli Stati d’Italia ammettono la opportunità di clemenza e di riforme. Solo Napoli rigetta con alterigia i consigli…il rigore napoletano agita l’Italia e compromette l’Europa”. Era fumo negli occhi e, in realtà, queste parole mostravano chiaramente quali fossero le pretese egemoniche delle superpotenze dell’epoca verso gli stati più piccoli, il principio del “non intervento”, da esse tanto solennemente proclamato in più occasioni, rimaneva sulla carta tanto che lo stesso ministro degli esteri francese Walewsky ebbe a dichiarare all’ambasciatore delle Due Sicilie Antonini che “Napoli deve sottostare o a Francia o ad Inghilterra, e deve impedire che esse si congiungano a suo danno”; Ferdinando II, che difendeva con orgoglio e con le sue sole forze l’indipendenza del Sud dell’Italia, stava diventando sempre più scomodo e inviso a tutti. Il 15 novembre Cavour convocava il rappresentante diplomatico delle Due Sicilie a Torino, Canofari, complimentandosi della brillante figura fatta da Ferdinando II e proponendo un riavvicinamento col Piemonte, la proposta fu rigettata adducendo come motivo l’ospitalità che il regno di Sardegna dava agli esuli politici meridionali che tramavano contro il governo legittimo, molti di essi volevano collocare sul trono meridionale Luciano Murat, discendente di Gioacchino.
I liberali continuavano l’opposizione a Ferdinando II  e ci fu anche un tentativo di assassinarlo: l’8 dicembre 1856, durante l’annuale sfilata militare nel Campo di Marte di Napoli (zona Capodichino), il mazziniano Agesilao Milano, arruolatosi nella milizia borbonica nel terzo battaglione cacciatori, allorché venne a trovarsi a pochi passi dal Re, esce dalle righe e tenta di ucciderlo con la baionetta, riuscendo solo a ferirlo leggermente, mentre stava per provarci una seconda volta fu fermato dal tenente colonnello delle Ussari La Tour. Il contegno del sovrano fu impeccabile, non perse la calma e rimase al suo posto, continuando a osservare il resto dei reparti che sfilavano davanti alla sua persona, l’azione fu fulminea e pochissimi si accorsero dell’accaduto, l’attentatore fu immediatamente condotto in Gendarmeria dopo l’opposizione del re ad una esecuzione immediata. Alcuni affermano che il Milano fosse un attentatore isolato e non la mano armata di un complotto, altri pensano il contrario e chiamano in causa addirittura la persona di Alessandro Nunziante, aiutante di Campo di Ferdinando II, prediletto dal Re che lo colmava di benefici e al quale dava addirittura del “tu”; non ci sono ovviamente prove definitive ma indizi: Milano fu arruolato malgrado il suo nome fosse nella lista degli “attendibili”, cioè dei sospetti politici, e questo poteva essere possibile solo per l’azione di un alto ufficiale dell’esercito in combutta con altri complici, fu proprio Nunziante a insistere perché il re non commutasse la pena di morte stabilita nel processo [in modo da evitare eventuali accuse di complicità da parte dell’attentatore], ci fu un colloquio in carcere a quattr’occhi tra i due, il generale dispose che nessuno potesse parlare con Milano e lo fece sorvegliare strettamente. Ferdinando II ricevette le felicitazioni, per lo scampato pericolo, da parte di tutti i rappresentanti diplomatici accreditati a Napoli eccetto quelli degli Stati Uniti, Svezia e Regno di Sardegna che inviò una nota solo il 29 dicembre, su sollecitazione pressante del suo rappresentante nella capitale del Sud, il quale manifestò il suo grande imbarazzo per questa grave omissione.[10]
Il 17 dicembre, salta in aria un deposito di munizioni vicino alla reggia, con 17 morti; il 4 gennaio del 1857 tocca la stessa fine alla fregata a vapore Carlo III carica di armi e munizioni dirette a Palermo, ci furono trentotto vittime; non ci sono prove certe che questi altri due avvenimenti fossero dovuti ad attentati, ma, comunque sia, impressionarono, ovviamente, il Re e scossero la sua fede nelle forze armate di terra e di mare. Il 25 giugno parte la spedizione di Pisacane con il “Cagliari”, un battello della società genovese Rubattino (la stessa che successivamente fornì le navi per la spedizione dei Mille), essa fu esecrata ufficialmente da Cavour e repressa nel sangue a Sapri, in Calabria. Ai comandi dell’imbarcazione c’erano dei macchinisti inglesi (perchè il Piemonte non ne aveva di suoi, contrariamente alle Due Sicilie), furono incarcerati e ne seguì un contenzioso con l’Inghilterra a cui Ferdinando II dovette cedere con la loro liberazione e con un indennizzo in denaro, non prima di aver protestato che faceva ciò “restando tutto alla volontà assoluta della Gran Bretagna”.
                Pisacane viene fermato dal popolo che giustamente e fedele al sovrano.


Cavour, all’opposto di Ferdinando, non era isolato diplomaticamente e giocò spregiudicatamente su due tavoli sfruttando a suo vantaggio l’appoggio sia della Francia che dell’Inghilterra: accettò, in tutta segretezza, la proposta di alleanza della prima, ponendo le basi per una seconda guerra contro l’Austria, contemporaneamente si tenne amica la seconda con intensi contatti diplomatici; il suo obiettivo immediato era l’unificazione dell’Italia settentrionale e centrale sotto i Savoia.
Napoleone III aveva superato indenne l’attentato del mazziniano Felice Orsini del 14 gennaio 1858 e ricominciò a brigare con Cavour riproponendo un programma già esplicitato nel 1840 quando “il ministro degli Esteri francese Thiers andava proponendo all’ambasciatore sardo a Parigi… un’alleanza militare franco piemontese contro l’Austria…Unitevi a noi e vi daremo Milano in cambio della cessione di Nizza e della Savoia, in modo che la Francia raggiunga i suoi confini naturali e voi possiatevi finalmente espandervi nella pianura del Po…nulla trapelava dal chiuso delle cancellerie ma la Francia continuava ad accarezzare il progetto formulato per la prima volta nel 1610 da Enrico IV di Borbone col duca Carlo Emanuele”.[11] L’imperatore fece sapere a Cavour che avrebbero potuto vedersi segretamente a Plombiers, una località termale, il primo ministro piemontese si presentò il 21 luglio 1858, munito di passaporto falso, il colloquio durò otto ore, come precisa lo statista piemontese, che il giorno 24 scrive al suo Re una lunghissima lettera dalla quale si possono ricavare particolari illuminanti “Appena fui introdotto nel Gabinetto l’Imperatore mise la conversazione sull’oggetto che aveva motivato il mio viaggio, cominciò a dirmi che era pronto ad aiutare la Sardegna con tutte le sue forze per una guerra contro l’Austria, purché questa guerra fosse intrapresa per una causa non rivoluzionaria, la quale potesse giustificarsi agli occhi della diplomazia e avanti l’opinione pubblica della Francia e dell’Europa. La ricerca di questa causa presentando la principale difficoltà……la mia posizione diveniva imbarazzante perchè non avevo niente altro a proporre……l’Imperatore mi venne in aiuto e ci mettemmo a percorrere insieme tutti gli stati d’Italia per cercarvi questa causa di guerra tanto difficile a trovare…… passammo alla seconda questione: ”Quale sarebbe lo scopo della guerra?” l’Imperatore mi concesse senza difficoltà che bisognava cacciare gli Austriaci dall’Italia, e non lasciare loro un pollice di terreno al di là delle Alpi e dell’Isonzo. Ma in seguito come si organizzerebbe l’ Italia?”[12]
Su quest’ultimo punto essi siglarono un pre-accordo, che rimase segreto a tutte le altre potenze europee per lungo tempo, che stabiliva un ampliamento del regno di Sardegna con i territori strappati al nemico austriaco in caso di vittoria, l’incorporazione dei ducati di Parma, Piacenza e Modena, nonché le Legazioni pontificie (Bologna e Ferrara) e la Romagna con la creazione di un Regno dell’Alta Italia; prevedeva, inoltre, la creazione di un Regno dell’Italia Centrale comprendente Toscana, Marche, Umbria e parte del Lazio, dato al cugino Gerolamo Napoleone che aveva anche in “dote” la figlia di Vittorio Emanuele, Clotilde; questi 4 stati (regno dell’Alta Italia, dell’Italia centrale, Stato della Chiesa e Regno delle Due Sicilie) sarebbero stati riuniti in una confederazione sotto la presidenza onoraria del Papa ma che, di fatto, sarebbe stata sotto l’influenza francese.  In cambio dell’appoggio alla guerra la Francia avrebbe ottenuto, oltre al risarcimento delle spese militari, i territori di Nizza e la Savoia. Le Due Sicilie, nel progetto, venivano lasciate a Ferdinando II, anche se Napoleone III non faceva mistero del suo desiderio di rovesciarlo per metterne a capo suo cugino Luciano Murat (figlio di Gioacchino, già re francese di Napoli) il quale lanciò anche un proclama ai popoli delle Due Sicilie, invitandoli a rovesciare “l’odioso mostro” [Ferdinando II]. Nel gennaio 1859 ci fu la stesura definitiva in cui non si parlava più specificatamente di quali territori da annettere al Piemonte ma solo di quelli che la Francia avrebbe ottenuto, cioè Nizza e la Savoia. Rosario Romeo afferma che il convegno di Plombiers “fu un singolare intreccio di franchezza e di ipocrisia, la guerra di aggressione progettatavi sarebbe stata condannata da qualunque tribunale chiamato a giudicare secondo il diritto internazionale vigente“[13].

                                        Gli accordi di Plombières (1858).


Il 10 gennaio 1859, nel discorso della Corona del Parlamento piemontese, fu concordato con Napoleone III, che Vittorio Emanuele pronunciasse la famosa frase, bellicosa ma non compromettente, per la quale “Non possiamo restare insensibili alle grida di dolore che vengono fino a noi da tante parti d’Italia”. Gli rispose sarcasticamente l’ “Armonia” organo dei gesuiti che “E il Piemonte che si duole che dopo dieci anni di libertà non si è potuto ottenere un bilancio normale e si dispera per l’avvenire, mentre i Napoletani non invidiano la libertà piemontese, i Toscani di nulla si dolgono e da Roma non partono che benedizioni”. Contemporaneamente si irretiva l’Austria con l’accoglienza data in Piemonte ad alcuni renitenti di leva lombardi e con il progressivo potenziamento dell’esercito piemontese che veniva provocatoriamente schierato nel pressi del fiume Ticino (al confine con il regno Lombardo Veneto austriaco): “Nel parlamento di Torino è approvata una legge per la sottoscrizione di un prestito di cinquanta milioni di lire “per difendersi dalle mire espansionistiche dell’Austria”. Nella discussione del 9 febbraio 1859 il marchese Costa di Beauregard denuncia: “Il Conte di Cavour vuole la guerra e farà gli estremi sforzi per provocarla. Nella pericolosa condizione in cui ci ha collocati la sua politica, la guerra si presenta al suo pensiero come l’unico mezzo per liberarsi onorevolmente dal debito spaventoso che ci schiaccia, e di rispondere agli impegni che ha preso”, il bilancio del regno di Sardegna di quell’anno “ha un deficit di 24 milioni di lire che porta il debito pubblico complessivo ad un totale spaventoso di 750 milioni di lire[14] . Era quindi sull’orlo della bancarotta sia a causa della bilancia commerciale, da anni in passivo, sia soprattutto per la costosissima politica estera, in questa situazione l’unica possibilità per evitare il tracollo finanziario era la conquista di nuovi territori e come disse l’influente deputato sabaudo Boggio: “Ecco a dunque il bivio: o la guerra o la bancarotta”. Nel marzo del 1859, Cavour era oramai divenuto a pieno titolo “dittatore parlamentare” visto che assommava sulla sua persona gli incarichi di presidente del Consiglio, ministro degli Interni, ministro degli Esteri e, dopo l’inizio delle ostilità, anche ministro della Guerra e in quel frangente si fece addirittura sistemare il letto al ministero della Guerra.
La cosiddetta seconda guerra d’indipendenza, in realtà una vera e propria guerra franco-austriaca, iniziò il 29 aprile 1859: l’Austria aveva lanciato al Piemonte, il 23 aprile, un ultimatum di 3 giorni, con la richiesta di disarmo; esso venne respinto dal Cavour il quale, tramite la sua politica provocatoria e sfruttando l’inesperienza dell’Imperatore austriaco Francesco Giuseppe, riuscì a far apparire, agli occhi dell’Europa, il suo stato come vittima e gli Asburgo come aggressori, scattava così la clausola degli accordi di Plombiers e la Francia doveva scendere in campo. In realtà questo era già avvenuto nei mesi precedenti con la mobilitazione dell’esercito francese che era, all’epoca dei fatti, pienamente operativo, prova ne sia che esso fu trasferito verso Piemonte via terra (con un ordine di Napoleone III del 21 aprile, quindi prima che gli avvenimenti precipitassero) e via mare (il 26, quindi il giorno stesso della scadenza dell’ultimatum), una guerra non si prepara in poche ore; per questi motivi, molti storici affermano che l’Austria fu costretta ad entrare in guerra, giocando d’anticipo, per cercare di battere gli avversari sul tempo prima che organizzassero le loro forze alleate; questo, però, non fu possibile per la pessima conduzione dell’esercito, nella fase iniziale del conflitto, da parte dell’irresoluto comandante Giulay, succeduto al leggendario maresciallo Radetsky, morto l’anno precedente. Aggiungiamo, infine, che nei rapporti diplomatici, gia dall’inizio della primavera si faceva menzione di un prossimo attacco della Francia all’Austria.
                                   Battaglia di Solferino 24 Giugno 1859.


Contemporaneamente cominciò l’opera di destabilizzazione interna di alcuni stati preunitari con “spontanee insurrezioni unitarie” da parte d’agenti sabaudi infiltrati (spesso carabinieri travestiti), che avevano provocato la fuga dei sovrani regnanti (il 27 aprile del Granduca di Toscana, il 9 giugno della duchessa di Parma, l’11 giugno del duca di Modena; tutti e tre si rifugiarono nelle braccia dell’Austria; sempre l’11 giugno scoppiano, con le stesse modalità, dei moti in Emilia Romagna e in Umbria, possedimenti del Papa). Vi fu la costituzione di governi provvisori con a capo dei rapacissimi “commissari” piemontesi che misero le mani sulle casse pubbliche, saccheggiandole, “per sostenere la causa unitaria”. “La destabilizzazione interna [dei piccoli stati italiani fu] condotta dagli agenti cavouriani con le tecniche abitualmente usate dalle potenze europee in un contesto coloniale: invio di agenti provocatori, acquisto dei notabili locali, promesse di carriera ai quadri militari”.
Sia nel Regno Lombardo-Veneto,nel Ducato di Parma,Ducato di Modena,Granducato di Toscana e Legazioni della Romagna Pontificia,il popolo fu totalmente estraneo alle così dette "rivolte per l'unità D'Italia"che di fatto furono messe in scena e architettate dai liberali filo-Piemontesi e dalla massoneria.