sabato 17 settembre 2011

Il cammino verso la malaunità:Il breve regno di Francesco II° di Borbone-Due Sicilie,politicamente immobile, diplomaticamente isolato.



A Ferdinando II successe il figlio ventitreenne Francesco II; lo storico risorgimentale Alfredo Panzini, negli ultimi giorni di agonia del re meridionale, a proposito della strategia di Cavour per la conquista del Sud, osservava: “Col Bomba egli capiva che non c’era nulla da tentare; ma il Bomba, vivaddio, è spacciato. Rimane il figlio, come sarà?“[1].
Francesco “è giovane [23 anni], senza esperienza, non è un idiota, come ne hanno spesso detto, parla molto bene di tutto con un certo possesso e con molto buon senso; talvolta ha l’aria di capire l’epoca, è imbevuto dei più esagerati principi del sanfedismo: di carattere molto debole e molto timido, costantemente circondato da una camarilla furiosamente retrograda e reazionaria, la quale impedisce che la verità arrivi fino a lui[2]. Al suo genitore era stato affibbiato il soprannome di “Re bomba” a lui quello di “Franceschiello” ma “la ridicolizzazione attraverso cui la storiografia post-risorgimentale ha consegnato ai posteri un’immagine storpiata di quel sovrano, è nient’altro che un’ennesima manifestazione di infierimento su un vinto[3]; in realtà era stato il popolo meridionale a dargli questo soprannome il cui significato non era dispregiativo, ma affettuoso; profonda era la sua conoscenza delle leggi e dei regolamenti amministrativi “egli li possedeva come un giurista”[4]. Il padre, fin da ragazzo, lo portava con sé nelle occasioni ufficiali più importanti, nella qualità di principe ereditario, ma certamente non poteva aspettarsi di lasciargli il comando così presto.
Francia ed Inghilterra riallacciarono subito i rapporti diplomatici e mandarono a Napoli i propri rappresentanti i quali cercarono, con modi che andarono dai “consigli” ad appena velate minacce, di attrarre il giovane e inesperto Re nella loro sfera di influenza politica; gli argomenti ufficiali delle conversazioni riguardavano, però, la riattivazione della monarchia rappresentativa costituzionale, la fine del regime poliziesco con la concessione di un’ampia amnistia politica e l’eventuale ingresso del regno nella guerra in corso; al contrario, gli ambasciatori delle potenze conservatrici (Austria, Prussia e Russia) premevano per il mantenimento dello status quo politico del regno delle Due Sicilie. Francesco aveva bene in mente l’ammonimento del padre “Costituzione eguale Rivoluzione” e temeva che, rimettendola in vigore, si scatenassero i torbidi del 1848 con la possibilità di perdere il trono, o, come minimo, la Sicilia la quale avrebbe proclamato il distacco dalla parte continentale del regno; in più, in quel momento, la riattivazione dello Statuto, che ricordiamo era stato sospeso ma non abrogato nel 1849, avrebbe quasi certamente significato l’alleanza col Piemonte nella guerra in corso, cosa che egli assolutamente non voleva.
Il 7 giugno, turbato dalle manifestazioni dei liberali napoletani il quali, raggiunti dalla notizia della battaglia di Magenta, esultavano e invocavano la guerra al fianco del Piemonte, nominò presidente del Consiglio e ministro delle Guerra Carlo Filangieri, 75 anni, figlio dell’immortale giurista Gaetano, in possesso di un “curriculum vitae” invidiabile: valorosissimo combattente, già a 17 anni, nell’esercito napoleonico, ispiratore delle riforme di Ferdinando II degli anni trenta, aveva domato la rivolta siciliana nel 1849 restandone come Luogotenente fino al 1855, dando ottima prova di sé anche in campo civile, una figura di militare e di politico di primissimo livello, conosciuta e rispettata a livello internazionale. “Vidi tornare a casa mio padre preoccupato e triste ... gli andai incontro ed egli mi disse: “…..Quel povero giovane mi ha domandato aiuto in modo che io non ho potuto negarglielo…..il Re manca di amici capaci di salvarlo, di uomini, direi, di spirito moderno, ma di fede sicura e devota alla monarchia. Ferdinando II ha purtroppo divorato due generazioni di uomini: è questa una triste verità che oggi apparisce in tutto il suo significato, che suona isolamento, abbandono, rovina di uomini e di cose[5]
Francesco II diede subito un vigoroso impulso alla progettazione di nuove opere pubbliche, concernenti soprattutto l’ampliamento delle linee ferroviarie e dei porti; i liberali, da parte loro, ricominciavano a battersi per il ripristino della Costituzione, caldeggiato anche dalla giovane e bellissima diciottenne regina Maria Sofia, sorella dell’imperatrice austriaca Sissi.


La Regina Maria Sofia.


Il 9 giugno arrivò, a Napoli, Ruggero Gabaleone, conte di Salmour, un diplomatico inviato da Cavour, il quale invitò Francesco II a ripristinare la Costituzione, propose un’alleanza con il Piemonte nella guerra in corso contro l’Austria che aveva già visto la prima vittoria francese del 4 giugno a Magenta e parlò anche di una spartizione dell’Italia con l’inglobamento da parte delle Due Sicilie delle Marche e dell’Umbria, territori del Papa. Il diplomatico piemontese era visto con forte sospetto, per il ruolo di sostegno che il regno di Sardegna ricopriva con gli esuli meridionali e per quello avuto da Boncompagni, rappresentante sardo in Toscana, il quale aveva provocato, il 27 aprile, la caduta del Granduca Leopoldo e la formazione di un governo ”provvisorio” a guida piemontese. Tutte le istanze, espresse da Salmour, furono così respinte per cui il plenipotenziario piemontese così scriveva al suo primo ministro: ”Almeno per il momento l’alleanza con Napoli è impossibile, poiché, vista la situazione esterna e lo stato dei partiti all’interno, il Re e il governo si sentono perfettamente rassicurati. Il solo e unico modo di arrivare al nostro scopo è di agire qui come nelle altre parti d’Italia, ossia di provocare la caduta della dinastia e l’acclamazione di Vittorio Emanuele[6].
Del resto, nell’ottobre successivo, quando sia Salmour che Cavour non erano più al loro posto, il primo si scusò col secondo di aver fallito la sua missione e Camillo Benso rispose irritato: ”Come ha potuto, solo per un momento, uno spirito fine come il tuo, credere che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda la Costituzione. Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirci dei suoi Stati [7]
Secondo alcuni storici questa era l’ultima occasione offerta dalla Storia alla dinastia borbonica per salvare se stessa e soprattutto il popolo meridionale da una annessione forzata; essi, infatti, sono convinti che ripristinando subito la Costituzione ed alleandosi col Piemonte si sarebbe tolto a quest’ultimo ogni “pretesto” per l’invasione del Sud del 1860. Questo punto di vista è tutto da dimostrare, nondimeno c’è da dire che i liberali meridionali pretendevano che il giovane Francesco ribaltasse immediatamente, e di 180 gradi, la politica seguita dal padre dalla cui personalità egli era stato sempre schiacciato e che era defunto solo da un mese, un po' troppo per un personaggio del suo calibro.
A questo proposito c’è, però, da rimarcare il fatto che neanche gli oppositori politici del governo borbonico la pensavano allo stesso modo tanto è vero che essi, il 4 giugno, avevano stilato due manifesti diversi: gli esuli erano tutti convinti della necessità di entrare in guerra a fianco del Piemonte mentre quelli rimasti nelle Due Sicilie erano più realisti e rimarcavano il fatto che l’alleanza con regno di Sardegna non solo non era voluta dal Re [il quale affermava di conoscere solo l’indipendenza napoletana e di non sapere cosa fosse l’indipendenza italiana] ma anche e soprattutto dal popolo meridionale che era insensibile alla “sacra causa dell’Indipendenza”; esso infatti si sentiva già pienamente tale e non minacciato in alcun modo dall’Austria.
Questo realismo fu interpretato, dai propugnatori della guerra, come codardia e l’irritazione reciproca tra le varie correnti degli oppositori al regime borbonico raggiunse toni aspri, gli uni si sentivano parte integrante delle Due Sicilie e rimarcavano il fatto che “il Piemonte non potrà dispensarsi dal trattare e accordarsi con noi se vuole riordinare l’Italia”, gli altri invece desideravano un “moto esterno” che annettesse definitivamente il Mezzogiorno al regno subalpino, sacrificando le tradizioni e le libertà locali sull’altare dell’Unità d’Italia”[8].
Per ultimo, ricordiamo che la stessa Inghilterra, per voce di Elliot, suo ambasciatore a Napoli, consigliava vivamente il Re alla neutralità; temeva, infatti, che una probabile vittoria della Francia sull’Austria, con le Due Sicilie ad essa alleata, avrebbe fatto inevitabilmente passare lo stato meridionale nell’orbita di influenza dei temutissimi francesi, in questo modo essi avrebbero messo una forte ipoteca sul controllo del Mediterraneo. Elliot, il 6 giugno, aveva consegnato al Re una lettera autografa della regina Vittoria la quale esortava Francesco II a mantenere la neutralità e, a garanzia dell’integrità del regno, mandava nel porto di Napoli una squadra navale che manifestò a lungo, con salve di cannone e manifestazioni di giubilo, il ritrovato clima di amicizia tra i due paesi che erano alleati naturali, vista la loro forte propensione al commercio marittimo con, rispettivamente, la prima e la quarta flotta mercantile del mondo. Alla fine, per tutti questi motivi, la precedente politica estera isolazionista di Ferdinando II rimase immutata; Francesco II rimase immobile proprio quando in Europa erano in pieno svolgimento le manovre delle potenze grandi e piccole.
Egli decretò, il 16 giugno, un’amnistia politica limitata solo ai responsabili dei fatti del 1848-49, furono cancellate dalla lista poliziesca degli “attendibili“, cioè dei sospetti, quelle persone incluse per “le politiche turbolenze” dei medesimi anni; condonava, inoltre, diversi anni di pena per alcuni reati comuni; nonostante queste misure, lo strapotere della polizia rimase quasi intatto. Questi provvedimenti non soddisfecero, per la loro limitatezza e la loro frequente non applicazione pratica, i rappresentanti diplomatici francese, inglese e sardo che protestarono per il fatto che i numerosi arresti politici, effettuati dopo i fatti del 1848-49, non erano inclusi nel provvedimento, rimarcavano anche la persistenza dell’illegale detenzione, dal 1857 e senza processo, di 48 persone, di cui 16 accusate di complicità nel tentativo di regicidio di Ferdinando II. Filangieri tentò di ribattere che altri e più ampi provvedimenti di clemenza si sarebbero succeduti nel tempo e che bisognava, quindi, avere solo un pò di pazienza; valutò la lista degli “attendibili” del regno in 180mila persone invece delle 400mila calcolate dal diplomatico francese.
Il 7 luglio, si verificò, a Napoli, una rivolta di parte dei soldati della milizia svizzera, da tempo al soldo dei sovrani meridionali e fino a quel momento fedelissima; fu sedata dai loro stessi commilitoni a prezzo di morti e feriti nelle cui tasche fu trovato il prezzo del tradimento: monete d’oro che un’indagine successiva fu appurato essere state distribuite da agenti sabaudi; tutto il corpo svizzero fu congedato e rimandato in patria, dietro consiglio del generale Alessandro Nunziante.
Nel frattempo, la cosiddetta seconda guerra d’indipendenza (in realtà, principalmente, una vera e propria guerra franco-austriaca per il predominio sull’Italia) aveva fatto il suo corso ed ebbe due principali e cruentissime battaglie svoltesi entrambe nel giugno 1859: quella di Magenta del 4 e quella di Solferino del 24. In esse l’esercito piemontese dette pessima prova di sé: nella prima si presentò allo scontro quando era concluso, nella seconda l’episodio “vittorioso” di S. Martino fu determinato dal fatto che il generale austriaco Benedek, che in giornata aveva respinto più volte gli attacchi dei sabaudi, pur avendo a disposizione la metà dei loro effettivi, ricevette verso sera l’ordine di ritirata dall’imperatore Francesco Giuseppe.
Questo scarso contributo delle armate piemontesi deluse molto l’imperatore francese Napoleone III che capì di dover condurre la guerra praticamente da solo, il prezzo di sangue pagato dai francesi era già altissimo, la Prussia aveva mobilitato e si temeva che entrasse nel conflitto a fianco dell’Austria. Napoleone III avvertiva anche l’irritazione dell’Inghilterra che mal sopportava l’idea che la Francia subentrasse agli Asburgo come potenza egemone in Italia, temeva che andasse in fumo il trattato commerciale di libero scambio con gli inglesi, prossimo alla firma. Infine, e soprattutto, constatava che Cavour non era stato ai patti sottoscritti a Plombiers: nei ducati padani e in Toscana egli aveva provocato, con sommosse provocate ad arte, la fuga dei regnanti ma non per formare quel progettato stato dell’Italia Centrale guidato da Gerolamo Bonaparte, lo scopo, invece, era l’annessione di questi Stati italiani al Piemonte. Per tutte queste motivazioni l’imperatore francese mandò, tramite un suo aiutante di campo, una lettera a Francesco Giuseppe, presente a Verona, e così si giunse all’armistizio franco-austriaco di Villafranca, firmato l’11 luglio 1859 senza nemmeno informare Cavour, il quale, dopo una isterica sfuriata davanti al sovrano in cui dichiarò “Il vero Re sono io!”, si dimise.
Fu concordata la cessione della Lombardia, eccettuate le fortezze di Mantova e di Peschiera, alla Francia che la “girò“ al Piemonte senza che ci fosse un plebiscito per verificare il consenso dei lombardi. Napoleone III aveva speso per le necessità di guerra 360 milioni di franchi, ne chiese solo 60 di rimborso a Vittorio Emanuele, non ebbe né Nizza né la Savoia e tanto meno il progettato regno dell’Italia Centrale sotto la guida di Gerolamo Bonaparte, l’Austria manteneva il controllo sul nord-est dell’Italia, malgrado la sconfitta militare: un fiasco politico e finanziario completo. I sovrani austriaco e francese si impegnavano anche a dar vita ad una confederazione italiana, sotto la presidenza onoraria del Papa, alla quale avrebbero aderito i reintegrati sovrani dei ducati padani e della Toscana, nonché il Veneto che rimaneva comunque sotto la corona asburgica. “È innegabile: l’idea di una Confederazione italiana allarmava i dirigenti delle Due Sicilie…… La politica di re Francesco II, lo disse lui stesso a Martini [ambasciatore austriaco], sarebbe stata quella di temporeggiare. In sostanza il re si rendeva perfettamente conto che “confederazione” voleva dire “mutamento” nella politica degli Stati della Penisola….sarebbe stato un focolaio di rivoluzioni perchè il Piemonte avrebbe corrotto tutti e tutto”[9].
Il 26 luglio entrò nel porto di Napoli la nave ammiraglia della flotta inglese del Mediterraneo che salutò e fu ricambiata con una doppia salva di cannoni (a mo’ di saluto), seguita, in soli quattro giorni, da metà della squadra britannica presente nel “mare nostrum”: era il suggello al tentativo inglese di rinsaldare il legame con il Regno delle Due Sicilie, la cui neutralità aveva appoggiato e garantito nella guerra appena conclusa.
Ma il primo ministro Carlo Filangieri, dopo alcuni tentennamenti, esplicitò la sua strategia futura e tentò di imporre una svolta della politica estera e interna delle Due Sicilie: per la prima suggerì la definitiva uscita del Sud d’Italia dall’orbita asburgica e un avvicinamento alla Francia., per la seconda diede incarico al giurista Manna di redire il progetto di una nuova Costituzione che sostituisse quella “sospesa” da Ferdinando II e che lasciasse al Re gran parte dei poteri, per evitare si ripetessero i fatti del 15 maggio 1848. Con questi intendimenti egli cercava di allontanare le nubi che si avvicinavano minacciose al reame meridionale, il 4 settembre presentò il progetto della Costituzione a Re, dopo averlo fatto visionare all’ambasciatore francese Brenier per l’approvazione di Napoleone III. “Presentai al Re quel progetto di Statuto, supplicandolo di leggerlo. A tale mia preghiera Sua Maestà non si degnò far buon viso, né cedé sottomettere quel manoscritto alla disamina dei suoi ministri o al parere degli uomini politici nei quali avesse avuto più fiducia che in me……la poca accoglienza fatta dal Re a tale mia proposta fu accompagnata da poche e monche parole”[10]
In seguito a ciò Filangieri si dimise; successivamente andarono a vuoto altri tentativi del primo ministro di convincere il sovrano a cambiare idea (alcuni, al contrario, affermano che anche il primo ministro, in diverse occasioni, avesse manifestato a Corte delle grosse perplessità sulla svolta liberale e che il suo ritiro fu dettato da motivi di opportunismo perché preconizzava la fine del regno, oppure perché il suo amor proprio era stato ferito dalla constatazione che il giovane Re non era facilmente influenzabile dalla sua persona, già beffardamente soprannominata “Re Carlo” da Ferdinando II).
Francesco II ricominciò a temere la recrudescenza di moti liberali e unitari che potessero mettere in pericolo il suo trono, si cominciava, infatti, a parlare di uno sbarco in Calabria di rivoltosi provenienti via mare, con partenza da Genova, guidati da Garibaldi; non si curò di posizionare le Due Sicilie nel gioco delle alleanze del nuovo scacchiere internazionale e la politica isolazionistica di suo padre rimase immutata.
Il 28 settembre tenne una riunione con i principi di sangue e i suoi consiglieri, prospettando ad essi la scelta tra due vie da seguire: semplici miglioramenti dell’amministrazione oppure apertura liberale a nuove istituzioni. “Le risposte a noi pervenute sono poche ed orientate verso la soluzione conservatrice….seguì un’immediata ondata di arresti…che screditò il governo non solo di fronte ai sudditi, ma anche di fronte all’opinione pubblica internazionale.
La cosa non stupì i contemporanei; e meno che mai Elliot [l’ambasciatore inglese che cercava, su mandato del governo inglese, di adoperarsi per porre fine allo strapotere della polizia nella repressione dei dissidenti e di favorire una svolta liberale nel paese, con lo scopo di stringere un’alleanza]. Questi, conversando con Carafa [ministro degli Esteri delle Due Sicilie]…sentendo il ministro napoletano parlare di “partito rivoluzionario”, gli domandò cosa intendesse con quel termine, e si sentì rispondere che egli, Carafa, considerava rivoluzionari tutti coloro che desideravano cambiamenti nelle istituzioni del paese in senso contrario al parere del governo…Carafa, e con lui tutto il governo, erano del parere che qualsiasi mutamento delle istituzioni del paese avrebbe generato la rivoluzione, e che i loro sforzi , i suoi e dei colleghi, dovevano essere limitati a tentare di introdurre qualche miglioramento nell’amministrazione……quando Elliot aveva accennato alle persone detenute in carcere nonostante le leggi, Carafa replicò che “al Sovrano deve essere lasciato un potere discrezionale di sostituire norme regolamentari quando giudica di pubblico interesse farlo”. Elliot non potè trattenersi dal dirgli di aver ascoltato con rincrescimento i principi che gli erano stati enunciati.”[11]
Il re meridionale, fermo sulle sue posizioni, cominciava, pero’, a sentire il peso dell’isolamento diplomatico:l’Austria lo aveva abbandonato, l’Inghilterra, dopo aver sostenuto e garantito la neutralità delle Due Sicilie nella guerra appena combattuta, gli fece sapere che, dato che egli non apriva il suo regno a svolte costituzionali, non avrebbe garantito l’integrità del trono in caso di rivoluzioni “Il 1 ottobre….Elliot fu ricevuto dal re al quale doveva consegnare una lettera della regina Vittoria…….lo stesso governo inglese, a fine mese, dichiarava di arrendersi per il momento, ma per il futuro prevedeva che sarebbe giuntogli giorno in cui Napoli non avrebbe avuto alcun diritto di chieder all’Inghilterra un aiuto eccezionale, dato che aveva disprezzato tutti i suoi consigli ed i suoi ammonimenti”[12].
Si era così persa l’ultima occasione per rinsaldare, con un’alleanza, il riavvicinamento inglese del 1859, che sarebbe stato utilissimo ad entrambe le nazioni per arginare l’influenza della Francia sulla Penisola; al contrario, le simpatie di Francesco II erano rivolte al di là delle Alpi ma anche i transalpini chiedevano riforme in cambio di un appoggio politico. Il re meridionale si oppose ad ogni apertura politica, sempre convinto dell’asserzione paterna di “Costituzione eguale rivoluzione”: questa linea di condotta causò il completo isolamento delle Due Sicilie sullo scenario internazionale che fu fatale alla sua sopravvivenza. Il 10 novembre 1859 fu firmata la pace di Zurigo che prevedeva la nascita di una Confederazione italiana composta dal regno di Sardegna “allargato” alla Lombardia, dal regno delle Due Sicilie, dal Granducato di Toscana, i ducati di Parma e Piacenza e quello di Modena restituiti ai legittimi sovrani; tutto questo andava discusso al Congresso Europeo di Parigi che si doveva tenere il 5 gennaio del 1860.
L’Inghilterra, dal canto suo, cominciò ad elaborare una nuova strategia: si rese conto che era diventato impossibile, per la paladina del liberalismo, continuare a presentarsi come sostenitrice e garante di un regno, come le Due Sicilie, il cui sovrano non aveva la minima apertura liberale e nel quale continua lo strapotere della polizia, in più e sopratutto, la Confederazione italiana rischiava di cadere nelle mani della Francia, uscita vincitrice dal conflitto, per cui cambiò registro: le Due Sicilie e gli altri stati italiani dovevano sparire dalla carta geografica per far posto a uno Stato unitario italiano.
Le motivazioni ideali di facciata , del tipo “gli italiani devono decidere da soli del loro destino” erano sbandierate per coprire quelle politiche ed economiche che erano molto concrete: per le prime, l’Inghilterra valutò che era più probabile che la formazione di un Regno d’Italia esteso a tutta la Penisola avesse la forza di limitare l’influenza francese su di esso, cosa che un Piemonte “allargato” all’Italia settentrionale o una semplice confederazione italiana non potevano garantire; per le seconde, l’abbattimento delle barriere doganali degli stati italiani preunitari avrebbe anche creato un nuovo appetibile mercato per la nazione che teneva in mano i commerci del mondo con la sua poderosa flotta; quest’ultimo convincimento era, da anni, nei suoi auspici: «L'Inghilterra non è gelosa d’alcun impero già esistente; essa è pacifica ed ha bisogno d'amici, è trafficante ed ha bisogno d'avventori. Ben vede qual vasto mercato pei suoi prodotti le fornirebbero 25 milioni d’uomini, abitanti una contrada prediletta dalla natura e correnti la via del progresso [l’Italia]. Non ignora che deplorabili barriere sono poste al commercio dal moltiplicarsi delle dogane, conseguenza delle divisioni territoriali, e saluterebbe con gioia un’unificazione che tutte le togliesse di mezzo. Sa che l'Austria, signoreggiando in qualche parte d'Italia, non cesserà mai d'adoprarsi con ogni studio per escludere i prodotti britannici quasi fossero britanniche idee, affinché i prodotti austriaci e l'austriaca melensaggine abbiano campo di penetrare senza competitori e senza ostacoli [13] .
Per la realizzazione dei suoi progetti, gli occhi di Londra erano puntati, già da anni, sul Piemonte anche per mancanza di valide alternative: il regno Lombardo Veneto era sotto la diretta dominazione austriaca, i ducati padani e la Toscana sotto la sua tutela, lo Stato della Chiesa era improponibile per la forte avversione inglese al cattolicesimo romano, il Regno delle Due Sicilie era fuori dai giochi politici europei.
Già il 15 giugno 1848, Lord Palmerston (allora ministro degli Esteri britannico) scriveva a Re Leopoldo del Belgio: “Io amerei di vedere tutta l'Italia Settentrionale unita e un solo reame che comprendesse il Piemonte, Genova, Lombardia, Venezia, Parma e Modena…una tale sistemazione per l’Italia settentrionale sarebbe altamente favorevole alla pace d’Europa con anteporre tra Francia e Austria uno Stato neutrale forte abbastanza da farsi rispettare da solo”.[14] Il Piemonte conseguì questo obiettivo con l’aiuto francese nella guerra del 1859, ci pensò poi l’Inghilterra a completare l’opera favorendo la conquista anche del florido Regno delle Due Sicilie.
E così, nel dicembre 1859, l’ambasciatore inglese a Torino, Sir James Hudson, a nome del suo governo, chiede all’aiutante di campo del re Vittorio Emanuele II di far nominare Cavour inviato ufficiale piemontese all’assise internazionale di Parigi di prossima convocazione, il Conte ottenne immediatamente l’incarico. Nello stesso tempo, Napoleone III, visti falliti i suoi piani di espansione territoriale tramite la guerra appena conclusa, per superare lo stallo politico elaborò una nuova strategia volta a minare il potere temporale papale e permettere al Piemonte l’annessione delle Legazioni pontificie (Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna), in questo modo avrebbe potuto ottenere, in cambio, Nizza e la Savoia . La sera del 23 dicembre 1859 fu messo in circolazione, a Parigi, un opuscolo anonimo, “Le Pape et Le Congrès”, riconosciuto a posteriori come suo dall’imperatore francese, nel quale si affermava che l‘esercizio del potere spirituale universale del Papa mal si conciliava con quelli di un Sovrano se i suoi possedimenti restavano estesi, meglio che questi ultimi si limitassero al un piccolo territorio, quale poteva essere la sola città di Roma, garantito e finanziato nella sua esistenza dalle potenze cattoliche; in esso il pontefice potesse esercitare “un potere paterno che debba rassomigliare piuttosto a una famiglia che a uno Stato”. Contemporaneamente, nell’opuscolo, si diffidava esplicitamente il Regno delle Due Sicilie a prendere le difese del Papa per il mantenimento dei suoi possedimenti “Napoli, non più che la Francia e l’Austria, non può dunque intervenire a Bologna“ [il Piemonte, invece, stranamente sì].
Il ministro della polizia meridionale Aiossa, il 29 dicembre, dirama una circolare a tutti gli Intendenti del Regno autorizzando ”senza la menoma esitazione ad arrestare chiunque offrisse elementi di colpabilità e anche di semplici sospetti”[15]
Il congresso europeo di Parigi non si tenne e il 14 gennaio 1860 l’Inghilterra inviava una nota, che aveva il sapore di un ultimatum, alle cancellerie europee diffidando la Francia e l’Austria ad interferire ulteriormente nella questione italiana, ufficialmente in nome del principio di “non intervento”; era il via libera definitivo per l’espansione territoriale del governo sabaudo che si sentì coperto alle spalle dalla più forte superpotenza mondiale oltre che dalla Francia. Non ci voleva certo un grande genio politico per far capire a Cavour, ritornato a capo del governo il 21 gennaio 1860, che la strada delle annessioni era spianata: l’Austria, dopo la sconfitta militare era impotente, Francia e Inghilterra lo appoggiavano.
Napoleone III, nel frattempo, aveva già sostituito, l’8 gennaio, il ministro degli Esteri Walewsky, firmatario degli accordi di Zurigo, con Thouvenel, e il 25 gennaio concluse con l’Inghilterra il Trattato sul libero scambio delle merci, ottenendo quindi l’appoggio incondizionato della classe borghese francese e il totale accordo tra le due nazioni che comprendeva anche la fine dei contenziosi che esse avevano su alcune colonie sparse nei vari continenti.
Il 27 gennaio Cavour inviò alle potenze europee un messaggio nel quale dichiarava che, sfumata l‘idea del Congresso ed essendo impossibile la restaurazione dei sovrani italiani spodestati, egli aveva il “dovere di fare l’Italia” per evitare che questi stati cadessero nell’anarchia; questa fu la sua linea di condotta per tutte le annessioni piemontesi che vennero mascherate, ufficialmente, come il solo mezzo per arginare la “rivoluzione” italiana, impedendo rivolgimenti repubblicani. Negli stati padani, nella Toscana e nelle legazioni pontificie, dopo che i commissari piemontesi avevano fatto rientro a Torino in ottemperanza a quanto previsto dalla pace di Zurigo, i governi provvisori, sempre ispirati dal regno sabaudo, avevano indetto elezioni a suffragio ristretto che avevano dato vita ad assemblea costituenti; queste, nei giorni 11 e 12 marzo organizzarono dei plebisciti per sondare la volontà popolare all’annessione al Piemonte che si espresse favorevolmente, anche se il voto contadino fu pilotato dai proprietari terrieri.
Il 16 marzo apparve sul Times di Londra un articolo nel quale si affermava che Francesco II “stava superando il padre in bigotteria e crudeltà. Gli infelici Napoletani sono passati da Tiberio a Caligola”.
Cavour aveva già riallacciato i rapporti con Napoleone III e così, il 23 marzo, ci fu il consenso dell’imperatore all’annessione piemontese della Toscana, dei ducati padani e delle Legazioni papali, in cambio ricevette la città di Nizza e la Savoia nonché l’impegno piemontese ad onorare il rimborso parziale, già pattuito, delle spese di guerra francesi del 1859; papa Pio IX lanciò, il 26 marzo, la scomunica “contro tutti coloro i quali hanno perpetrato la nefanda ribellione nelle province del Nostro Stato Pontificio, e la loro usurpazione, occupazione ed invasione … come pure i loro mandanti, fautori, aiutatori, consiglieri, aderenti”. Garibaldi, il 12 aprile, protestò alla Camera torinese contro la cessione della sua città natale (Nizza) ma Cavour gli rispose che “Quella cessione non esser isolata, ma fatto della serie dè compiuti, e di quei che rimangono a compiere”.
L’Inghilterra era stata ingannata dalla proverbiale doppiezza di Cavour il quale aveva negato ufficialmente di voler cedere ai transalpini questi possedimenti; il ministro degli esteri Lord John Russel affermò che il primo ministro piemontese non era altro che un agente di Napoleone III “quasi un prefetto francese e che si doveva formulare l’ipotesi che l’alleanza franco sarda celasse altri accordi segreti a danno degli interessi inglesi[16] ma, nonostante ciò, il proverbiale pragmatismo anglosassone prevalse e si proseguì nella politica che tendeva a favorire la formazione di uno Stato italiano più grande in funzione antifrancese intimando, però, nel contempo, al Piemonte di non cedere anche la Sardegna alla Francia (come si andava progettando).
In conclusione la seconda guerra d’indipendenza, sebbene il contributo delle truppe sabaude fosse stato scarso, determinò per vie diplomatiche un grosso allargamento territoriale del Piemonte; queste modeste qualità belliche furono poi ribadite, nel 1866, nella terza guerra d’indipendenza quando il regno d’Italia fu sconfitto per terra e per mare dall’Austria e riuscì ad ottenere il Veneto solo grazie ai successi dell’alleata Prussia; per questi motivi gli Asburgo non cedettero questa regione direttamente agli italiani ma alla Francia, che la girò successivamente all’Italia. In quell’occasione Napoleone III commentò, salacemente, nei confronti degli italiani:”Ancora una sconfitta e mi chiederanno Parigi!” e Bismarck “corvi che volano si campi di battaglia per nutrirsi degli avanzi”; più caustico Giuseppe Mazzini: ”È possibile che l’Italia accetti di essere additata in Europa come la sola nazione che non sappia combattere, la sola che non possa ricevere il suo se non per beneficio d’armi straniere e concessioni umilianti dell’usurpatore nemico?“[17]; nel 1919, alla conferenza di pace di Parigi che seguiva alla prima guerra mondiale, fu il plenipotenziario francese Georges Clemenceau a commentare:”Ma che vuole l’Italia? Aumenti territoriali? Non sapevo che avesse perso un’altra guerra”.
Dopo i plebisciti e le annessioni si svolsero le elezioni politiche, stavolta a suffragio ristretto, nel Piemonte “allargato“ dalle recenti acquisizioni territoriali: la Lombardia, la Toscana, gli Stati Padani e l’Emilia Romagna; il 2 aprile si aprirono i lavori alla Camera dei deputati di Torino (la numerazione della legislatura non cambiò e fu la settima). Mancavano solo le Due Sicilie e lo Stato della Chiesa a completare il quadro dei sei stati, di tradizioni plurisecolari, che in complessivi venti mesi furono cancellati dalle carte politiche, la popolazione che li componeva assommava a 20 milioni di persone contro i 5 del regno di Sardegna.

Medaglia 24 agosto 1861 in Bronzo diam. 50,7 mm. coniata a Roma per l’esilio del Re Francesco II di Borbone a Roma (opus: F.Speranza). Al dr./ FRANCISCVS II.DEI.GRATIA.NEAPOL.ET.SICIL REX Testa del Re a sinistra; in basso, F.SPERANZA. Al rov./ EDITIS . CAIETAE / BELLICAE.VIRTVTIS / EXEMPLIS / ROMAM.DEMIGRAT / MAIOR.IN.ADVERSIS / AN.MDCCCLXI (Agli alti esempi di valore nella bellica Gaeta, emigrò a Roma, più grande nelle avversità). (Ricciardi 273. D’Auria 286)
La coniazione di questa medaglia fu autorizzata il 24 agosto del 1861, a richiesta di Mons. Nicola Milella, per opera dello Speranza, e per iniziativa di alcune famiglie nobili di Roma, per le prove di virtù militari e nobiltà d'animo dimostrate dal Re Francesco II durante l'assedio di Gaeta.


A Capodanno del 1860 Francesco II e la regina Maria Sofia erano stati protagonisti della consueta cerimonia del baciamano al palazzo reale. Il 16 gennaio grande festa per il compleanno del Re che compiva 24 anni e varo festoso, a Castellammare di Stabia, della modernissima fregata a vapore armata “Borbone”, poi le celebrazioni della settimana santa nella quale il religiosissimo Francesco II lavò i piedi di una dozzina di poveri. Tutto sembrava scorrere senza scossoni, come negli ultimi anni di regno di Ferdinando II, ma, in realtà, tutto era in movimento.
Già a fine gennaio 1860, tramite il rappresentante piemontese accreditato a Napoli, Marchese di Villamarina, Cavour aveva fatto pervenire a Francesco II un messaggio di Vittorio Emanuele II : «La Casa Savoia non è mossa da fini ambiziosi o da brama di signoreggiare l’Italia …lungi dal volere e dal desiderare che sia turbato alla reale casa di Napoli il pacifico possesso degli Stati che le appartengono … non sarebbe migliore salvaguardia dell’indipendenza d’Italia che il buon accordo fra i due maggiori potentati di essa»[18]. Questo accordo veniva successivamente esplicitato come una spartizione dell’Italia tra il nuovo regno del Nord, “allargato” dalle recenti annessioni, e il Regno delle Due Sicilie “allargato” anch’esso perchè veniva invitato, con il beneplacito di Napoleone III, ad entrare con le sue truppe nelle Marche (territorio papale); in realtà, probabilmente, era un tranello per dare al Piemonte il pretesto di reagire con una guerra contro Napoli; comunque sia, Francesco II aborriva l’idea di sottrarre al pontefice, di cui era devotissimo, i suoi possedimenti (rispose a Filangieri “Vuie che dicite mai. Chella è robba d’ ‘o papa!”) e la cosa cadde nel nulla. Un’analoga proposta di alleanza venne reiterata in aprile, sotto forma di un mascherato ultimatum, perchè il Savoia faceva presente che era l’ultima occasione di aderire, altrimenti sarebbe stato “troppo tardi”, il re meridionale rifiutò, ma la malafede di Vittorio Emanuele e del suo primo ministro è provata dal contemporaneo invio di emissari piemontesi incaricati di prendere contatto con i rivoluzionari siciliani che stavano per insorgere di nuovo contro il governo di Napoli; ad essi si prometteva l’appoggio piemontese per una futura autonomia dell’isola, pur se inserita nel costituendo regno d’Italia che sarebbe nato dopo la cacciata dei Borbone.
Il 16 marzo erano state accolte le dimissioni che Carlo Filangeri aveva dato da mesi, egli non era riuscito a convincere il re a farsi promotore di una svolta costituzionale delle istituzioni meridionali, ad accettare la proposta di alleanza col Piemonte e a mettersi nell’orbita francese, gli successe l’ottantenne siciliano Antonio Statella, principe di Cassaro, nuovo ministro della Guerra il generale Francesco Antonio Winspeare, di 82 anni, agli Esteri andò Luigi Carafa, incapace di qualsiasi iniziativa. In Inghilterra si affermò che Francesco II era ancora più tirannico del padre, ma, purtroppo, egli “non poteva seguire né i consigli di Elliot [l’ambasciatore inglese] né quelli di nessun altro uomo politico perché era rimasto schiavo di un mondo nel quale lo aveva collocato la nascita, l’educazione, la religione da un lato, l’ambiente di Corte, la struttura dell’esercito e dell’amministrazione ereditata dal predecessore, dall’altra. La situazione internazionale, affrontata con cultura, mezzi e uomini assolutamente inadatti, lo trascinò alla rovina. Egli pure come suo padre si comportò da sovrano del XVII e del XVIII secolo in un momento in cui sarebbe stato necessario avere il coraggio di affrontare questa nuova realtà”[19]
Il 3 aprile, un mese prima che gli avvenimenti precipitassero, il fratello del defunto Ferdinando II, Leopoldo Borbone, Conte di Siracusa, inviava una lucidissima e preveggente lettera al nipote Francesco invitandolo ad impostare una politica estera che fosse più adeguata ai tempi nuovi, in essa scriveva: ”Il principio della nazionalità italiana, rimasto per secoli nel campo dell’idea, oggi è disceso vigorosamente in quello dell’azione. Sconoscere noi soli questo fatto sarebbe di una cecità delirante, quando vediamo in Europa altri aiutarlo potentemente, altri accettarlo, altri subirlo come suprema necessità dei tempi. Il Piemonte … facendosi iniziatore del novello principio … oggi usufrutta di questo politico concetto, e respinge le sue frontiere fino alla bassa valle del Po … la Francia … sarà sempre mai sollecita a crescer d’influenza in Italia … l’Inghilterra, che pure accettando lo sviluppo nazionale d’Italia, dee però contrapporsi all’influenza francese … nel Mediterraneo … l’ Austria, dopo le sorti della guerra…sente ad ogni ora vacillare il mal fermo potere … né occorre che io qui dica a V.M. dell’interesse che le potenze settentrionali prendono in questo momento … giovando in fine più che avversando loro la creazione di un forte Stato nel cuore d’Europa, guarentigia contro possibili coalizioni occidentali. In tanto conflitto di politica influenza, qual è l’interesse vero del popolo di V.M. e di quello della sua dinastia? Sire! La Francia e l’Inghilterra, per neutralizzarsi a vicenda, riuscirebbero …da scuoter fortemente la quiete del paese ed i diritti del trono, l’Austria cui manca il potere di riafferrare la perdute preponderanza e che vorrebbe rendere solidale il governo di V.M. col suo, più dell’Inghilterra stessa e della Francia tornerebbe a noi fatale, avendo a fronte l’avversità nazionale, gli eserciti di Napoleone III e del Piemonte, la indifferenza britannica. Quale via dunque rimane a salvare il paese e la dinastia minacciata da così gravi pericoli ? Una sola. La politica nazionale che riposando sopra i veri interessi dello Stato, porta naturalmente il Reame del Mezzogiorno a collegarsi con quello dell’Italia superiore…operandosi tra due parti del medesimo paese, egualmente libere ed indipendenti tra loro. Anteporremo noi alla politica nazionale uno sconsigliato isolamento municipale?”[20]
Queste parole rimasero inascoltate. Sfortunatamente lo stesso personaggio arrivò a un tale disprezzo per la causa che i suoi natali gli imponevano, da dichiarare di volere essere salutato “colla bandiera allo stemma dei Savoia e non col borbonicosi professa suddito di S.M. Vittorio Emanuele II, solo Re degno di regnare sull’Italia”. ricevendo dall’ammiraglio piemontese Persano, a cui aveva rivolto queste parole, la proposta di “Luogotenenza in Toscana“ a cui egli rispose con un sorriso di compiacenza.[21] La storiografia ufficiale lascia, comunque, nell'ombra la mano della nazione che più d’ogni altra intendeva beneficiare di una nuova realtà politica italiana indipendente: l'Inghilterra; “Senza l’aiuto di Palmerston, Napoli sarebbe ancora borbonica, e senza l’ammiraglio Mundy non avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina“questo dichiarò Garibaldi , in un discorso tenuto al Crystal Palace, nel corso del suo viaggio in Inghilterra nell’aprile 1864[22] .