martedì 30 luglio 2013

R.P. Valentino Steccanella d.C.d.G.: Due morali a fronte (II).

 
 
 
 
La Civiltà Cattolica anno XLVI, serie XVI, vol. II, Roma 1895 pag. 129-143.

R.P. Valentino Steccanella d.C.d.G.

DUE MORALI A FRONTE [1]

 SCIENZA E CHIESA

I.

La questione circa la vera morale è ormai lanciata in mezzo a quella società, che non vi pensava o non la capiva, e vi ha fatto presa. Essa vi fa il suo cammino, come qualunque altra quistione di gravissima importanza. La scienza boriosa latra e ringhia contro di essa. Ma invano. Ella è assalita vigorosamente e deve quindi mettersi su le difese. Gli scritti pro e contro si moltiplicano, ed il Journal des économistes nella revisione della stampa ce ne offre un gruppo di cinque nel solo numero del 15 gennaio. Il Brunetière in un suo splendido articolo della Revue des deux Mondes ha gittato ai savants, come egli suol chiamarli, un solenne guanto di sfida, ed al grido di guerra: il fallimento della scienza, ha già incominciato la pugna [2].
Dagli scritti privati la stessa quistione ha già varcato la soglia del Parlamento. Là si è dato pubblico biasimo alla scuola della morale laica. Là colla statistica alla mano e con savie considerazioni si sono fatti vedere i rei frutti della medesima. Là il socialista Jaurès non potè contenere un alto grido di dolore alla vista di uomini, che prima si erano dimostrati ferventi caldeggiatori dell'insegnamento laicale, ed ora mutavano opinione, o ne erano fieramente scossi. Mettendo in opera tutta l'arte e lo splendore della sua eloquenza si studiò di rilevarne il credito. Ma non vi è riuscito gran fatto. Si adirò, bestemmiò Cristo e la sua morale, e peggiorò la sua causa [3].
Eh! gli uomini savi dentro e fuori del Parlamento son ormai convinti della necessità di una educazione morale ben altra da quella che spande la scienza moderna nel suo orgoglio coll'insegnamento laico nella scuola, e fuori nella nazione coi suoi scritti. La trepidazione intorno al futuro ha invaso non pochi. La minaccia di un formidabile disastro finanziario, la corruzione, che dilaga da ogni parte, il socialismo, che si propaga, quale onda tempestosa, minacciando sterminio e morte all'autorità, alla famiglia, ed alla proprietà e che baldo procede rafforzato nel suo cammino dall'ateismo predicato dalla scienza, e dai gravi scandali di ogni specie commessi in opera di danari su i banchi, sono le cagioni che turbano la quiete degli animi [4]. Di qui il cercarsi un insegnamento morale, che valga in qualche modo ad infrenare la fiumana del male, avviando i giovani sul retto cammino ed insinuando negli adulti i suoi principii del giusto ed onesto operare.
Dove si può trovare cotesto insegnamento? Presso i positivisti, o presso gli evoluzionisti? No: abbiamo confutati i lor sistemi nell'articolo precedente [5]. È da cercarsi altrove, vogliamo dire nell'insegnamento morale della Chiesa cattolica. Vero è, che se voi vi arrischiate di proporlo ai savants, la risposta sarebbe, o una voce di sdegno, o un sorriso di scherno! Giacchè essi pensano di poterlo costituire filosofando alla maniera di qualunque altro umano ritrovato. Non è così. E perciò universaleggiando la quistione, diciamo: essere impossibile che la scienza da loro esaltata ci dia un codice di vera morale; viceversa non solo esser possibile, ma cosa di fatto, che la Chiesa cattolica ci offre un codice compiuto di vera e sana morale. Veniamo alle prove.

II.

Che cosa ci dà o ci discopre tale scienza in opera di morale? Placiti individuali, teoriche, le quali oggi appaiono e domani scompaiono, l'una cacciando l'altra, come l'onda caccia l'onda nel mare. Niuna maraviglia di ciò. La scienza, che cotanto si esalta e inorgoglisce, è nella impossibilità di fornire alla specie umana un codice di leggi morali che valgano alcun che. È egli possibile sciogliere un problema senza i suoi dati? oppure fondare un edifizio senza averne gli elementi necessarii? Nè punto nè poco. Ebbene questa è la condizione, in cui si trova la scienza di cui favelliamo.
Difatto che cosa è la morale? Non altro che la norma regolatrice dell'operare umano. Ma chi ragiona non la foggia a capriccio. Ei la toglie dal fine che si propone, dicendo: a tal fine, tale norma di operare e non altra. Mi propongo di giungere alla tal città: la norma del mio cammino è la via, che ad essa mi conduce. Qui, come è evidente, non si tratta di fini particolari o di questo o di quell'individuo; ma del fine o della destinazione propria dell'uomo. Punto adunque fondamentale di una retta morale è il conoscimento del fine ultimo, o della destinazione dell'uomo. Non basta. Posto il fine, è necessario inoltre acconciare il proprio operare al conseguimento del medesimo. Quel macchinista, che si è proposto di comporre una macchina, che serva ad un fine determinato nella sua mente, deve necessariamente regolare gli atti dell'arte sua secondo quelle leggi meccaniche, le quali giovano a condurre l'opera al conseguimento del concepito disegno. Dite altrettanto dell'uomo. Dunque il secondo punto fondamentale è il conoscimento delle leggi morali acconce al fine. Ancora più. Il macchinista, recato in esempio, non potrebbe regolare il proprio lavoro secondo le leggi suddette senza la conoscenza del principio, sul quale elle si fondano. Eccovi un terzo punto fondamentale, che è necessario conoscersi dall'uomo, affine di dedurre la regola del suo operare per camminare sicuramente verso il suo ultimo fine, vale a dire, il principio, donde è venuto. E quindi tre sono i punti o gli elementi fondamentali, su cui deve stabilirsi il codice della vera morale: conoscimento del principio dell'uomo, conoscimento del fine, conoscimento di quelle relazioni o di quelle leggi morali, che intercedono tra il principio e il fine, a cui l'uomo deve conformarsi, se vuole giungere a piaggia felicemente.
Interrogate ora di grazia la scienza in quistione. Essa vi dirà delle cose oltremirabili, vi esalterà a buon diritto i trovati del suo ingegno, vi magnificherà le sue scoperte, vi additerà le moltiplicate sue industrie e tante e tante altre cose da destarvi la più alta maraviglia. Se non fosse altro, la sola mostra di Chicago ne sarebbe un argomento dei più lampanti. Non vi è dubbio; in ciò che è sagacia d'indagini, forza di deduzioni, scaltrezza di ingegno nel penetrare i secreti della natura, operosità indefessa intorno allo scibile umano ci offre un prodigio di valore. Ma la cerchia dello scibile, onde ella si occupa con tanta gagliardia d'ingegno, non esce di quaggiù, va terra terra, non si leva più su d'una spanna. Le chiedete donde l'uomo sia venuto in questo mondo? Essa tace. Le dimandate il perchè egli viva su questa terra? Non vi risponde. La interrogate intorno al fine ultimo del medesimo? Non fa motto. In mezzo ai suoi dottori ci troviamo in loco di ogni luce muto. Così fosse! A sproposito, sì, ma parecchi di essi fecero delle loro dottrine dette morali, un largo spaccio. Sul loro mercato ve ne ha di ogni specie: vi è quella dei razionalisti, si offre quella dei positivisti, si vende quella degli evoluzionisti e l'altra dei materialisti, gli utilitaristi ed i socialisti mettono pure in vendita le loro ed altre altri cotali. In tutte più o meno si discorre del principio, della vita e della fine dell'uomo. Ma diverse sono le lingue in questo argomento, come sono diverse le penne. Se badi ad essi ti troverai, come Dante:
...per una selva oscura,
Che la diritta via era smarrita [6].
La ignoranza stende su questi punti capitali di una retta morale il più fitto velo dinanzi ai loro occhi.
Nel resto la cosa è così manifesta, che eglino stessi non possono dissimularla. Vi è, ha scritto il Renan, una scienza circa le origini della umanità, che presentemente ignorata sarà costituita e raffermata per mezzo delle ricerche scientifiche. Qual sia la vita umana è un problema, che non è sciolto. Or come si potrebbe asserire, che si conosce l'uomo e l'umanità? Ma non si dubiti: tempo verrà, in cui la umanità sarà scientificamente ordinata e sarà avviata sul cammino diritto della sua destinazione [7]. Non altrimenti la pensa lo Spencer, e quell'altro, che scriveva: l'avvenire è della scienza [8]. Ma queste sono ciance, che non valgono fiore.
Il peggio però di questa ignoranza sta nel confessarla e nel rifiutare sdegnosamente quel raggio, che potrebbe sgombrarla di tratto. Il Jaurés nell'adunanza parlamentare citata, dopo di avere rigettate tutte le teoriche dei razionalisti, dei positivisti, degli spiritualisti e dei materialisti continuava dicendo: «L'idea, che ci conviene tener salda, si è quella, che non vi ha niuna verità sacra, si è quella, che niuna potenza, niun domma deve porre alcun limite al perpetuo sforzo ed alla perpetua ricerca, che mette in opera la specie umana. La umanità siede come grande commissione d'inquisizione, i cui poteri sono senza confine: è verità tutto ciò, che viene da essa, è menzogna tutto ciò, che non esce dal suo labbro. Il nostro spirito deve stare sempre all'erta di maniera, che se Dio stesso comparisse al cospetto delle moltitudini sotto forma palpabile, il primo dovere dell'uomo sarebbe di negargli obbedienza e di considerarlo come eguale, con cui si discute, e non qual signore, a cui si curva la fronte. Eccovi quello in che consiste la bellezza del nostro insegnamento laico.» Bellezza? Orribile mostruosità, e lingua per cieco orgoglio satanicamente bestemmiatrice, di cui Dante inorridito ripeterebbe:
Per tutti i centri dello inferno oscuri
Spirto non vidi in Dio tanto superbo,
Non quel che cadde a Tebe giù dei muri:
Ei si fuggì, che non parlò più verbo
Ed io vidi un Centauro pien di rabbia
Venir gridando: Ov'è, ov'è l'acerbo? [9]

III.

Cotesti dottori della scienza si studiano di sciogliere il problema della vera morale. Lodevole fatica! Ma perchè si ostinano nel cercarne la soluzione, dove tutti i loro sforzi non riescono a trovarla? Si volgano alla Chiesa cattolica. In questo piccolo codice, che ella ci offre, sta scritta la soluzione del grande problema del principio e del fine dell'uomo e del suo ordinamento morale. Aprite e leggete: è il decalogo. Esso è simile a fulgidissima lucerna che rischiara il cammino della umanità. — Oh! oh! il decalogo! Ma voi volete la baia dei fatti nostri. Il decalogo è roba vecchia, sdruscita. Figuratevi, il suo fondamento è la fede cieca. La ragione al presente è divenuta un creditore severo, il quale non si appaga di niuna credenza: vuole avere di bei contanti in altrettanti argomenti apodittici a saldo del suo credito, che è il convincimento. — Prima di tutto la filosofia cattolica presenta tanti e così validi argomenti di credibilità, che chi non ha dato a pigione il suo intelletto deve persuadersi, Dio aver parlato e su la sua infallibile parola fondarsi il cristiano convincimento. Inoltre fra le verità proposte dalla fede ve n'ha di quelle, che si possono dimostrare colla ragione. Il decalogo è appunto una di queste.
Osservate di grazia l'abito di quel signorino. È talmente aggiustato in ogni parte alla sua persona, che pare dipinto sul suo dosso. Indi il giudizio: quell'abito è proprio il suo, gli conviene appuntino. Tant'è del decalogo relativamente all'uomo. Esso gli quadra a capello; e tutto attagliato alla sua natura razionale. In questa voglionsi distinguere due cose: la natura stessa fondamento di ciò, che le conviene o disconviene, e quella forza intellettuale, in virtù della quale l'uomo è illuminato a discernere quelle operazioni, che convengono alla stessa natura, o disconvengono alla medesima. Considerata sotto il primo rispetto è il fondamento del convenevole o della onestà naturale; sotto il secondo è la stessa legge naturale, che impone alla volontà umana o divieta ciò che deve fare od evitare secondo il diritto naturale. Ed appunto siccome cotesta virtù o lume intellettuale rischiara continuamente l'uomo per mezzo della coscienza circa il retto operare, e vi muove le volontà; così si dice che la legge naturale sta scritta nel cuore dell'uomo. Cotesta forma di favellare non solo è usata dai filosofi cattolici, ma ancora dagli antichi in Grecia ed in Roma, dove Cicerone scrivendo ne fa un bellissimo ritratto specialmente nella miloniana.
Che cosa è difatto il decalogo? È la espressione per sommi e brevi capi di quella legge naturale, che sta scritta nel cuore dell'uomo, esposta in caratteri visibili per chiunque ha occhi in fronte per vedere. Vero è, che i principii universali della legge naturale splendono dinanzi ad ogni intelletto, che non voglia accecarsi da sè stesso. Ma rispetto alle deduzioni anche immediate da cotali principii, quanti o per colpevole negligenza o per le tenebre delle passioni, che gli offuscano, o per male abitudini rafforzate da rei esempii non vengono meno alla conoscenza delle medesime! Gli esempii di un Platone, di un Aristotile, e ciò che accade presentemente fra i dottori della scienza non ci palesano cotesta difficoltà nei gravi scapucci, in che diedero nelle loro deduzioni morali? Il decalogo non solo ti apprende i principii più universali della legge naturale, ma ancora te gli svolge nelle conclusioni più sostanziali. Di guisa che nel suo linguaggio dice: così e così devi operare; non attienti a questa abitudine, che è rea; non voler seguire questo o quell'esempio, perchè contrario al tuo ed all'altrui bene. Insomma esso è maestro e duce fidato nel difficile cammino della rettitudine umana.

IV.

Veniamo ai particolari. Due sono i precipui capi, in cui si possono distinguere e partire i precetti della legge naturale, vale a dire, o per rispetto alle persone, a cui sono ordinati, o relativamente alle inclinazioni o tendenze naturali degli individui. Sotto la prima partizione cadono tre ordini di precetti, altri dei quali si riferiscono a Dio, altri al prossimo, ed altri all'uomo stesso. Nel decalogo sono tutti e tre questi ordini brevemente formolati. Qui ci si fa incontro la scienza: su qual titolo, ci domanda, fondate voi i precetti, che imponete verso Dio? Su quello di creatore e di signore universale, eccovi il titolo: Ego sum Dominus Deus tuus, che sta a capo del decalogo. Onde in quanto tale ha tutto il diritto d'imporre non solo i precetti, che si riferiscono a lui, ma ancora quelli di tutto il decalogo. — L'origine dell'uomo, ci replica, è involta in fitte tenebre; la scienza non è giunta e difficilmente giungerà a sciogliere il problema di questo fatto; e poi la creazione è un mistero, è inconcepibile. — Voi fate della origine dell'uomo un problema insolubile: or bene eccovi una quistione, che vi darà qualche lume. Rispondeteci di grazia: fu prima l'uovo, o fu prima la gallina? Se dite l'uovo, e dove è la gallina, di cui l'uovo è parto? Dite invece, che fu prima la gallina, e dov'era l'uovo, donde proviene la gallina? Voi senza dubbio capite, come dovea capire il vecchio Macrobio, che proponea tale quistione nelle Notti attiche, qualmente dovete occorrervi necessariamente la mano di un potente, il quale abbia dato l'essere alla gallina colla virtù di produrre le uova. Eccovi un fatto, fatene l'applicazione all'uomo, che gli si aggiusta assai bene. — Voi negate il fatto della creazione e la dite un mistero inconcepibile. Eppure voi ne portate la dimostrazione scritta a caratteri indelebili nella vostra essenza stessa. Potete voi negare la contingenza vostra e di tutta la presente generazione? No; è cosa più che manifesta. Potete forse negare quella di tutte le generazioni passate? Nemmanco. Dunque potendo l'uomo di sua natura esistere o non esistere, se egli esiste di fatto, dovette esservi una causa necessaria, onnipotente, che lo traesse dal non essere all'esistenza. Conosciutissimo è il fatto della legge, secondo la quale i pianeti girano intorno al sole. Ma si conosce la causa, che li mette in moto e li governa? No: ella è ancora un mistero. Negherete perciò il fatto? Voi non osate tanto, altrimenti vi si ricanterebbe sorridendo quel detto, che si mette sul labbro del Galileo: eppure ognun si muove. Accertato il fatto della esistenza dell'uomo per virtù di un atto creativo, come voi potete negarlo per la semplice ragione che non conoscete il modo ond'è accaduto? La ignoranza è un fondamento antilogico di negazione. Posto il titolo di creatore, eccovi due rapporti morali di necessità assoluta: in Dio quello di un dominio assoluto su l'uomo, e nell'uomo quello di dipendenza assoluta verso Dio, e quindi nel primo il diritto assoluto d'imperare, nel secondo l'obbligo assoluto di obbedire. I precetti adunque del decalogo, quale espressione della legge naturale scritta dal dito del Signore nel cuore dell'uomo, debbono da questo essere puntualmente osservati.
Alla sentenza, Ego sum Dominus Deus tuus, aggiungendo l'altra, che viene appresso, Non habebis deos alienos coram me, avete in esse indicato il principio e il fine dell'uomo. Difatti, essendo Dio il creatore, ne segue, che sia il principio dell'uomo. Dovendo l'uomo non avere in conto di deità nessun altro dinanzi a Dio, ne segue altresì che egli debba volgere tutto sè stesso a Dio, quale suo unico centro, ossia come a suo fine ultimo. Ma con quali leggi morali soddisferà l'uomo a cotesto suo rapporto verso Dio? Le avete nella terza sentenza, che viene dopo le due citate, in cui lo stesso Dio fa sapere che premierà coloro che lo amano ed osservano i suoi precetti: Ego... faciens misericordiam his qui diligunt me, et custodiunt praecepta mea. Ed eccovi sull'inizio del decalogo sciolto il problema del principio, del fine e dell'ordinamento morale dell'uomo [10].

V.

Giustificato così il decalogo, consideriamo in prima i precetti, che spettano a Dio. Che s'impone in esso all'uomo? In primo luogo l'ossequio di adorazione, la quale consiste nel riconoscere in Dio una superiorità, ma non qualechesiasi, sibbene una superiorità infinita, incomunicabile. Se l'uomo ha tutto il suo essere da Dio, chi potrebbe negare la superiorità di Dio sopra dell'uomo? Niuno per fermo. Badate inoltre, che l'essere dell'uomo è limitato, laddove Dio è il mare di tutto l'essere, ossia l'infinito: dunque la superiorità di Dio relativamente all'uomo è infinita. Ella è pure incomunicabile, in quanto che non altri che Dio poteva crearlo. S'incurvi adunque l'uomo dinanzi a Dio e l'adori: il precetto, che glielo impone, è atto richiesto dalla sua natura. L'empio, che lo ricusa, cade in una assurdità, che non ha pari, vantando un'assoluta indipendenza, quando egli è un essere contingente, e perciò di assoluta dipendenza.
Al precetto dell'adorazione si annoda quello del culto esterno. L'orgoglio della scienza moderna si fa beffe di esso e lo deride quale superstizione, o per lo meno lo disprezza quale atto inutile; ma contro ciò, che richiede la natura dell'uomo. Il culto prescritto dal decalogo, vuoi nella parte negativa (secondo precetto), vuoi nella parte positiva (terzo precetto) non esprime falsi attributi della divinità, nel che consiste la superstizione. Esso esprime un dovere. L'adorazione obbliga l'uomo. Ora essendo uno l'uomo, ne consegue, che debba adorarlo non solo nella intima parte, di sè, ma eziandio nella esterna. Esso esprime una necessità. L'affetto di gratitudine, quanto è più grande il benefizio, tanto più preme l'uomo a manifestarlo in atti esterni al cospetto altrui. La esistenza, che l'uomo ricevette da Dio è un benefizio incommensurabile, ed appunto per gli atti del culto ci palesa l'affetto della sua gratitudine. Esso esprime un bisogno. L'uomo ingolfato negli affari del mondo che farà per distaccarsene efficacemente e compiere il suo dovere di adorazione verso Dio? Vada al sacro tempio, e quel silenzio, che vi regna, raccoglierà in lui il suo spirito. Curvi la fronte verso il suolo. Sentirà destarsi il sentimento della sua inferiorità dinanzi all'Altissimo. Salmeggi. Sentirà nascergli in cuore gli affetti conformi ai concetti di ciò, che pronunzia o canta. Non è dunque il culto esterno superstizione o cosa di lieve conto, ma un dovere, una necessità, un bisogno della natura umana.
Ai precetti imposti verso Dio seguono quelli, che riguardano il prossimo. Dal quinto all'ultimo sono tutti negativi, e si appoggiano sul principio bandito a chiara voce dalla natura razionale: quod tibi non vis, alteri ne feceris. Non fare ad altri quello, che non vorresti fatto a te stesso. Indi si divieta il danneggiarlo comecchesia o nella persona, o nell'onore, o negli averi, e ciò non solo coll'opere o colle parole, ma eziandio dentro di sè coi pravi desiderii, dai quali, come da radice avvelenata, pullulano le azioni in danno altrui. Il quarto precetto è positivo, e impone ai figli di onorare i genitori. Che cosa sono i genitori relativamente ai loro figliuoli? Causa istrumentale bensì, ma vera causa della loro esistenza. Causa dice superiorità, effetto dice dipendenza; dunque i figli debbono onorare i loro genitori colla soggezione. Ma quali e quanti servigi non prestano loro i genitori nell'allevarli ed educarli alla vita civile? Dunque i figli debbono ad essi l'affetto più profondo di amorosa gratitudine. Il beneficato deve pure corrispondere al suo benefattore a misura del benefizio ricevuto. Or chi potrebbe adeguatamente stimare i benefizii, che i figli ricevono dalle cure amorose dei genitori dalla loro nascita fino all'età della virilità, in cui sono in condizione di vivere da sè? Eccovi quindi spuntare in essi il dovere di retribuire i genitori soccorrendoli.
Fa il bene, evita il male è il principio fondamentale di tutta la morale. Il decalogo, espressione della legge naturale, mi divieta queste e quelle azioni; dunque esse per me sono un male. Dovrò quindi nel mio operare tenere la via opposta per fare il mio bene. In che consiste cotesto mio bene? Il creatore ha posto nell'uomo certe inclinazioni o tendenze naturali: ragioniamone alla stregua del decalogo e lo vedremo. L'uomo è un ente individuo, e in quanto tale tende alla conservazione del proprio essere, ed al suo benessere, procacciandosi i commodi della vita. Spinto dalle passioni può trasmodare o per eccesso o per difetto. Il decalogo mi vieta di danneggiare per mio commodo persone e roba altrui. E perciò all'intento di fare il mio bene io conterrò entro i limiti della temperanza la mia tendenza, rompendone ad un bisogno con forte animo la foga irragionevole. L'uomo, in quanto corruttibile e mortale, tende a propagarsi. Il decalogo mi vieta l'abuso di cotesta tendenza. Farò quindi il mio bene infrenandone l'impeto per la castimonia. L'uomo è un essere razionale, e in quanto tale è capace della immortalità, di perfezionarsi nello spirito, di communicare con Dio e di associarsi con altri enti razionali. Eccovi il decalogo, che ordina l'uomo coi suoi precetti relativamente a Dio, al consorzio cogli altri uomini e alla sua perfezione mercè della religione, della giustizia e della onestà, contenute nei suoi precetti. Qui sta tutto il midollo della perfezione.

VI.

Dal ragionato fin qui appaiono le speciali proprietà della morale contenuta nel decalogo. Essa è una e universale. È una, giacchè spetta alla natura specifica dell'uomo, e non alla ragione di questo o di quell'individuo particolare. E quale espressione della legge naturale rilucendo egualmente nei singoli individui, ne consegue, che ella sia universale, cioè comune a tutti i luoghi, a tutti i tempi ed a tutte le nazioni.
Osservata è causa di perfezione così nell'ordine individuale, come nell'ordine sociale. Difatto in che consiste sostanzialmente la perfezione dell'uomo qui in terra? La risposta è ovvia: nel vivere secondo le esigenze della natura razionale, le quali vengano manifestate dalla legge naturale. Or tutto il lavoro della morale del decalogo è volto per l'appunto a far conoscere all'uomo ciò, che è conforme a cotali esigenze, e ciò che è loro difforme, ingiungendo quello e divietando severamente questo. Ella gli dice a chiare note: vivi da uomo ragionevole, sii onesto. La scienza, le arti e la perizia nel maneggio degli affari sono di ornamento all'individuo, ma non ne formano la onestà. Tutto ciò, che disunisce gli animi, è contro la vita sociale; tutto quello che tende ad unirli favoreggia la sua perfezione. L'aggiunto sociale ce lo dice. L'azione morale del decalogo è tutta intesa ad eliminare tutto ciò che dissocia, ed a promuovere tutto quello che serve ad associare. Cercate le cagioni dei perturbamenti sociali, e non indugerete vederle nella ingiustizia, nella corruzione dei costumi e nella irreligione. Uno sguardo al decalogo, ed eccovelo colla opera dei suoi divieti e delle sue ingiunzioni tendere ad eliminarle.
Da ultimo la morale del decalogo porta il suggello della più potente autorità. Essa difatti è divina, è infallibile, è legislativa di un sommo diritto. Ha pure la efficacia di una potente sanzione essendosi Dio nel promulgarla dichiarato severissimo punitore di chi non la osserva, e larghissimo premiatore di chi la mette in pratica. Io sono, egli disse, il Signore Dio tuo, che punisce l'iniquità di chi non osserva la mia legge, e premia in millia chi la osserva, cioè senza misura e senza termine.
Eccovi quindi i caratteri della morale formolata nei precetti del Decalogo: è una, è costante, è comune, è universale, perchè di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutti i popoli, osservata perfeziona l'individuo, stringe il nodo sociale, si appoggia sopra un'autorità infinita, si fonda sul diritto di un dominio assoluto, è corroborata da una sanzione efficace. Camminerà la umanità sotto l'indirizzo smagliante di cotesta legge? Non fallirà di venire al porto del suo fine. Vorrà invece seguire quella, che è formolata dai placiti della filosofia anticristiana? Ella sarà qual nave gittata in mare burrascoso senza un fido nocchiero, perchè cotal legge manca di unità nell'insegnamento, perchè manca di autorità personale, perchè manca di autorità dottrinale e reale, perchè infine manca di efficace sanzione, che premii gli osservatori, e punisca i trasgressori.

VII.

No: il decalogo non è roba vecchia da smettersi, perchè logora e sdruscita. Esso è la voce della umana natura, la quale è sempre eguale a sè stessa. Non si fatichino gl'ingegni per sostituirgliene un altro migliore. Sarebbe lavoro sprecato. Non occorre altro che metterlo in pratica. A rincalzo lo stesso Figliuol di Dio fattosi uomo ha reso solenne testimonianza della sua origine e della sua infallibile bontà. Leggete di grazia la storia evangelica. Qui in risposta ad un cotale dice: tu sai i comandamenti della legge, che sono questi e questi: osservali ed otterrai la vita eterna, che tu cerchi. Là ei li compendia in due: amar Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutto lo spirito ed il prossimo come sè stesso. Il primo, soggiunge, è il sommo dei precetti, il secondo lo rassomiglia quasi un riverbero. Altrove commenda il quarto precetto del decalogo, e inculca il divieto del sesto. La cupidigia radice infetta, onde germogliano le azioni più ree, non è punto risparmiata, rintuzza il soverchio amore alla roba, ed infrena l'amore trasmodante verso le persone anche più care. Breve: tutti i precetti del decalogo sono ad uno ad uno commendati dal Verbo divino, dalla eterna Sapienza di Dio incarnata testificati, e colla sanzione di un premio eterno a chi gli osserva, di pena parimente eterna a chi li viola confermati.
Affinchè ne fosse più efficacemente guarentita la osservanza non solamente Cristo allettò gli uomini colla sua voce, ma vi aggiunse ancora la forza del suo esempio provocandoli all'esercizio della virtù fino all'eroismo. Leggete i due sermoni, che egli tenne sul monte e nell'ultima cena. In essi non trattasi solo di tenere a freno i vizii, che degradano la dignità umana; ma eziandio di spegnerne oppugnandoli coll'esercizio delle più nobili virtù la forza di guisa, che domati, l'uomo signoreggi i loro moti. Non si tratta solo di conservare il nodo sociale coll'astenersi dall'offendere comechessia i diritti altrui; ma ancora di lottare contro l'egoismo coll'esercizio della più pura e più sublime fratellanza. Vero è, che a fronte di cotesto eroismo la umana natura sente in sè le più acerbe ripugnanze. Ma si è fatto in tale opera maestro e duce, e colla voce potente rinfrancando gli animi dice: non temete, affrontate, pugnate, io ho vinto; confidate in me, vincerete anche voi. Il grosso stuolo di eroi, che onorano cosiffatta morale predicata da Cristo ed insegnata dalla Chiesa, è patente argomento, che dal grembo della medesima escono quegli animi gagliardi, che indarno si cercano altrove.
Con tutto ciò il Jaurès, col gruppo dei radicali e socialisti che lo hanno plaudito, non la intende così. Sedutosi a scranna, se gli si presentasse il Figlio di Dio in forma sensibile, indotto dallo spirito di critica vorrebbe discutere, e trattandolo da eguale negherebbe di sottomettersi a lui qual maestro infallibile di verità. Così egli favella, perchè non lo conosce. Compatiamolo nel suo empio delirio! Vuol egli discutere? L'opera dimostra chi fu l'uomo. Non potendo vedere il Figlio di Dio, ito in cielo, ebbene discuta l'opera da lui compiuta, la fondazione della Chiesa cattolica. Come ella sorse, come crebbe, come si mantenne immota? In virtù di una parola, in virtù di una promessa uscita dal labbro di Cristo: ipse dixit et facta est un'opera così mirabile. Proclamato da Pietro qual Figlio del Dio vivente, egli soggiunse: Tu sei Pietro e sopra cotesta pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze dell'inferno non prevarranno contro di essa. Edificherò, eccovi la parola; non prevarranno, eccovi la promessa. In virtù di quella sorse e si propagò, in virtù di questa resse contro tutti gli assalti. Le potenze umane collegaronsi per isterminarla dal mondo colle loro feroci persecuzioni; i filosofi antichi e moderni si unirono per annientare coi loro sistemi gl'insegnamenti de' suoi dommi e della sua morale. Quale fu l'esito della lotta? La storia ce lo dice: la esaltazione della Chiesa coronata dalle vittorie di diciannove secoli, e la disfatta vergognosa degli avversarii. Donde in essa tanta forza? Dalla podestà Divina di colui, che gliel'ha promessa, e gliela dà continuamente colla sua presenza. Andate, egli disse ai suoi apostoli, e in essi ai loro successori, predicate la dottrina, che vi ho insegnato, fondate il regno di Dio sulla terra. Non temete. Ecce ego vobiscum sum usque ad consummationem saeculi. A me fu affidata ogni podestà in cielo e in terra; sono con voi sino alla fine del mondo.
Vi è alcuno, che voglia ancora discutere cotesta dottrina insegnata dalla Chiesa, che porta in sè la impronta della divinità? Tragga innanzi. Sappia però aver detto lo stesso Figliuol di Dio, che chiunque urterà contro la pietra fondamentale di questa Chiesa, ne porterà fiaccato il capo, e chiunque ostinato nel suo orgoglio la contraddirà, sarà dalla medesima stritolato. Tant'è: su di essa sta scolpito in caratteri indelebili:
Son la forza di Dio, nessun mi tocchi.

Ego sum Dominus Deus tuus - Io sono il Signore Dio tuo
I. Non habebis deos alienos coram me - Non avrai altri dii dinanzi a me.
Ego... faciens misericordiam his qui diligunt me, el custodiunt praecepta mea. - Io... fo misericordia a coloro, che mi amano, e osservano i miei comandamenti.
II. Non assumes nomen Domini Dei tui in vanum: nec enim habebit insontem Dominus eum, qui assumserit  nomen Domini Dei sui frustra. - Non prendere in vano il nome del Signore Dio tuo: perocchè il Signore non terrà per innocente colui. che prenderà invano il nome del Signore Dio suo.
III. Memento, ut diem sabbati sanctifices. - Ricordati di santificare il giorno di sabato.
IV. Honora patrem tuum, & matrem tuam - Onora il padre tuo, e la madre tua
V. Non occides - Non ammazzare
VI. Non moechaberis - Non fornicare
VII. Non furtum facies - Non rubare
VIII. Non loqueris contra proximum tuum falsum testimonium - Non dire il falso testimonio contro il tuo prossimo
IX. - X. Non concupisces domum proximi tui: nec desiderabis uxorem ejus, non servum, non ancillam, non bovem, non asinum, nec omnia, quae illius sunt. - Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderare la sua moglie, non lo schiavo, non il bue, non l'asino, nè veruna delle cose, che a lui appartengono.



NOTE:

[1] V. Civiltà Catt. quad. 1071, pag. 271.
[2] Revue des deux Mondes. Après une visite au Vatican, 1er Janv. 1895, pag. 97. Éducation et Instruction, 15 Fevr, p. 914.
[3] V. Séance du lundi 11 Fevr. Univers, 13.
[4] Nous entendons de toutes parts, en France, ces plaintes désesperés. Nous sommes menacés d'une ruine financière, débordés par l'impiété et les vices.... Et aujourd'hui appuyé sur l'athéisme et sur tant de scandales financièrs, le socialisme, qui a voué une haine à mort a l'autorité, à la famille, à la propriété.... envahit de plus en plus les villes et les campagnes. Univers, 26 Fevr.
[5] Quad. cit. pag. 271 e segg. e 277 e seg.
[6] Inferno, c. I.
[7] L'Avenir de la science pag. 37.
[8] A. Lefevre, La Religion pag. 572, 573.
[9] Inferno, c. XXV.
[10] Exod. c. XX, v. 2, 3, 6.