martedì 31 luglio 2012

Sovrani del Granducato di Toscana : Dai dè Medici agli Asburgo-Lorena

Il Granducato di Toscana è la forma statuale legittima situata nell'Italia Centrale e che è occupata da un Governo illegittimo dal 27 Aprile 1859 e, in modo "ufficiale",  dalla nefasta Unità d'Italia.
Dopo la fondazione dell'illegittimo Regno d'Italia, la Toscana, ripartita in più province, non ha più conosciuto una dimensione istituzionale unitaria fino all'attuazione, nel 1970, del blando istituto regionale creato dalla liberale  Costituzione repubblicana del 1948 che - fra le altre - ha istituito anche la Regione Toscana che rispecchia solo in parte, e in modo direi abbozzato, la sua vera conformazione storica.


Quelli che seguono sono i legittimi Granduchi di Toscana dal 1569 ad oggi:


I dè Medici




Cosimo I de' Medici
Cosimo I de' Medici (Firenze, 12 giugno 1519Villa di Castello, 21 aprile 1574) primo Granduca di Toscana dal 1569 al 1574


File:Francesco I de' Medici Allori.jpg



Ferdinando I de' Medici
Ferdinando I de' Medici (Firenze, 30 luglio 1549Firenze, 7 febbraio 1609) Cardinale (1562-1587) e successivamente Granduca di Toscana (1587-1609).



Cosimo II de' Medici
Cosimo II de' Medici (Firenze, 12 maggio 1590Firenze, 28 febbraio 1621Granduca di Toscana dal 1609 al 1621.


Ferdinando II de' Medici
Ferdinando II de' Medici (Firenze, 14 luglio 1610Firenze, 23 maggio 1670Granduca di Toscana dal 1621 al 1670.


Cosimo III de' Medici
Cosimo III de' Medici (Firenze, 14 agosto 1642Firenze, 31 ottobre 1723Granduca di Toscana dal 1670 al 1723.



Giovanni Gastone de' Medici, meglio noto come Gian Gastone o Giangastone (Firenze, 24 maggio 1671Firenze, 9 luglio 1737), ultimo Granduca di Toscana appartenente alla dinastia de' Medici, dal 1723 al 1737.

 Asburgo-Lorena

Con la morte di Gian Gastone , il 9 Luglio 1737 , e in assenza di eredi legittimi , il Granducato di Toscana passo legittimamente a Francesco Stefano di Lorena e successivamente alla sua discendenza maschile , Asburgo-Lorena.

 


Francesco I
Francesco Stefano di Lorena (Nancy, 8 dicembre 1708Innsbruck, 18 agosto 1765). Duca di Lorena dal 1728 al 1737  ; perse questo titolo quando cedette la Lorena alla Francia per  acquisire legittimamente quello di Granduca di Toscana dal 1737 al 1765. Con sua moglie Maria Teresa fu il fondatore della dinastia degli Asburgo-Lorena.



 
Pietro Leopoldo (Vienna, 5 maggio 1747Vienna, 1º marzo 1792Granduca di Toscana dal 1765 al 1790 .



Ferdinando III
Ferdinando III d'Asburgo-Lorena (Firenze, 6 maggio 1769Firenze, 18 giugno 1824Granduca di Toscana dal 1790 al 1824.*




Leopoldo II di Toscana
Leopoldo II d' Asburgo-Lorena (Firenze, 3 ottobre 1797Roma, 28 gennaio 1870) Granduca di Toscana dal 1824 al 1859.*



Ferdinando IV di Toscana
Ferdinando IV  d' Asburgo-Lorena (Firenze, 10 giugno 1835Salisburgo, 17 gennaio 1908Granduca di Toscana dal 1859 al 1908.


Ferdinando V d'Asburgo-Lorena (Salisburgo, 24 maggio 1872Vienna, 28 febbraio 1942) Granduca di Toscana dal 1908 al 1942.



Arciduca Pietro Ferdinando
Ferdinando VI d'Asburgo-Lorena (nome completo: Peter Ferdinand Salvator Karl Ludwig Maria Joseph Leopold Anton Rupert Pius Pancraz von Habsburg-Lothringen; Salisburgo, 12 maggio 1874Sankt Gilgen, 8 novembre 1948) Granduca di Toscana dal 1942 al 1948.



Goffredo I d'Asburgo-Lorena (in tedesco: Gottfried Maria Joseph Peter Ferdinand Hubert Anton Rupert Leopold Heinrich Ignaz Alfons, Erzherzog von Österreich, Prinz von Toskana; Linz, 14 marzo 1902Bad Ischl, 21 gennaio 1984 Granduca di Toscana dal 8 novembre 1948 al 21 gennaio 1984.


Leopoldo III d’Asburgo-Lorena (nato il 25 ottobre 1942), Granduca  di Toscana dal  1984-1993.


Sigismondo I d’Asburgo-Lorena (Losanna, 21 aprile 1966), Granduca di Toscana dal 1993.


Nota:

* Nonostante i periodi di transizione ,e cioè , il periodo Napoleonico e l'occupazione da parte del Governo Unitario , il periodo in cui ogni Granduca è stato legittimamente insignito di questa carica è stato preso per intero.

Scritto da:

Redaziona A.L.T.A.

lunedì 30 luglio 2012

Attualità di Gregorio XVI



GREGORIO XVI: UN PAPA BELLUNESE CONTRO LA RIVOLUZIONE

Tratto da “Il Cinghiale corazzato” numero 20, settembre-ottobre 2007
Fonte: http://issuu.com/capcattolica/docs/cinghialecorazzato20
Dopo aver trattato della figura di Pio IX, riprendo in questo articolo il tema del liberalismo fuori e dentro la Chiesa parlando di un altro grande Papa nemico di questa ideologia: Gregorio XVI.
Bartolomeo Alberto Cappellari nacque a Belluno il 18 settembre 1765 e nel 1783 entrò nel monastero dei camaldolesi di San Michele a Murano (Venezia). Fu ordinato sacerdote nel 1787 col nome di frà Mauro e solamente due anni dopo scrisse un’opera importantissima che gli procurò una certa fama nell’ambiente ecclesiastico:”Il trionfo della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori”, nella quale difendeva il potere temporale e l’infallibilità del Papa contro gli eretici febroniani (propugnavano per la Chiesa il governo collegiale dei Vescovi contro il centralismo papale) e giansenisti (oltre a ritenere che Dio conceda solo ad alcuni la grazia per salvarsi, erano anche per l’equiparazione del Papa con i successori degli apostoli). Grazie alla fama conquistata venne chiamato a Roma nel 1814 come abate del monastero di S. Gregorio al Celio e nel 1823 fu eletto vicario generale dei camaldolesi. Molto apprezzato da Leone XII, fu da lui creato Cardinale nel 1826 col titolo di San Callisto, rimanendo però solo frate, e nominato Prefetto di Propaganda Fide (dicastero per le attività missionarie nel mondo). Nel 1829 fu candidato al Conclave seguito alla morte di Leone XII, ma gli venne preferito il Cardinale Castiglioni (Pio VIII). Papa Castiglioni però era afflitto da molti mali, che ne provocarono la morte dopo soli venti mesi di pontificato. Nel nuovo Conclave i Cardinali si divisero in due fazioni: gli “zelanti” e i “moderati o politici”. Dopo 50 giorni di contrasti e 100 scrutini, il 2 febbraio 1831 venne eletto il Cardinale frà Mauro Cappellari, che accettò solo dopo essere stato convinto dal Cardinale Vicario Zurla (camaldolese) che, a nome del Padre Generale dell’Ordine fondato da San Romualdo nel 1012, gli disse di accettare per la santa obbedienza. Prese il nome di Gregorio XVI, in onore di San Gregorio Magno a cui era dedicato il monastero del quale era stato abate, e il 6 febbraio fu prima consacrato Vescovo e poi incoronato. Per lui cominciarono subito i problemi: il 4 febbraio a Bologna scoppiò un vasto moto rivoluzionario, nel quale vennero abbattute le insegne pontificie al grido di “Viva la libertà”. Nonostante alcune concessioni fatte dal prolegato Mons. Paraccini, i disordini dilagarono in Romagna, Umbria e Marche. Anche a Roma i liberali tentarono di provocare un’insurrezione, ma il nuovo Papa li fermò. A luglio, poi, scoppiò una rivoluzione in Francia le cui idee si propagarono immediatamente, provocando nuove rivolte a Bologna, Pesaro, Urbino, Fano, Fossombrone, Senigallia e Osimo, durante le quali venne proclamata la fine del potere temporale dei Papi e a Bologna fu proclamato lo Statuto costituzionale provvisorio delle province italiane. Gregorio XVI però si rivolse subito all’Imperatore austriaco. L’esercito che egli inviò, aiutato dalle truppe dei sanfedisti, ristabilì in breve tempo il potere pontificio. La Curia romana era convinta che le idee liberali mettevano in dubbio la Chiesa, la religione e l’autorità: perciò il Papa, conscio di questi pericoli, rifiutò le sollecitazioni dei sovrani d’Austria, Francia, Inghilterra, Prussia e Russia che lo invitavano a fare concessioni e riforme profonde e condannò, con l’Enciclica “Mirari vos” del 15 agosto 1832, il razionalismo, il gallicanesimo (dottrina che rivendicava alla chiesa di Francia autonomia rispetto al Papa, concedendo al re un esteso intervento in materia ecclesiastica) e l’indifferentismo, ma anche la libertà di coscienza (che definì “pestilentissimo errore”) la cui strada era stata aperta dalla crescita della libertà d’opinione, ugualmente pericolosa per la Chiesa e per lo Stato. Respinse come “somma impudenza” l’ipotesi che da questo tipo di libertà potesse derivare qualche utilità per la religione e condannò la separazione tra Stato e Chiesa, nonché la diffusione dei libri critici, attaccando con fermezza e durezza ogni forma di sollevazione contro le autorità legittime. Prese diversi provvedimenti al fine di controllare l’insegnamento in genere e la formazione dei futuri sacerdoti in seminari strettamente dipendenti dall’autorità ecclesiale. Condannò il cattolicesimo liberale di Lamennais, le dottrine di Hermes (sostenitore di un indirizzo teologico a base razionalista) e le tesi di Bautain. Gregorio XVI ebbe anche gravi contrasti con alcune potenze europee: rottura delle relazioni diplomatiche con Spagna e Portogallo per la legislazione anticlericale dei governi di Maria Cristina e Maria da Gloria; frizione con la Prussia per la questione dei matrimoni misti; scontro col governo russo che voleva riportare nella “chiesa” ortodossa la chiesa rutena greco-uniate (cattolici slavi di rito bizantino). Durante tutto il suo pontificato Gregorio XVI dovette affrontare frequenti moti, provocati dai liberali per ottenere la libertà d’espressione e uno Stato moderno esente dal potere della Chiesa, con relative operazioni di polizia ed esercito, condanne ed esilii. In campo prettamente religioso questo grande Papa, tanto vituperato ed odiato per la sua completa aderenza ai dettami di Cristo e della Sua Chiesa, incentivò fortemente l’azione missionaria cattolica, soprattutto in Nord-America e in Inghilterra; istituì molte diocesi con Vescovi in Asia, America, Africa e Oceania; proclamò Santi: Alfonso Maria de’Liguori, Francesco de Geronimo, Giovan Giuseppe della Croce, Pacifico di San Severino, Veronica Giuliani. Ricostruì la Basilica di San Paolo fuori le Mura, fondò l’orto botanico a Roma, il museo etrusco e quello egizio e una scuola d’agricoltura. Favorì la ricostituzione degli ordini religiosi, soprattutto della Compagnia di Gesù. Dopo 15 anni di pontificato, Gregorio XVI morì il 1° giugno 1846. Pochi giorni prima aveva detto con santa umiltà:” Voglio morir da frate, non da sovrano”. Fu sepolto in San Pietro. I nemici liberali, gongolanti per la sua morte, composero numerose “pasquinate” per prendersi vigliaccamente gioco di lui.
Da questo breve resoconto della vita e della figura di Gregorio XVI ben si comprende quanto egli fosse distante dal liberalismo oggi dilagante, anche nella Chiesa cattolica.
Gli Hussiti invero, tendendo imboscate e traendo segretamente dalla faretra i dardi per saettare furtivamente i fedeli, non si peritano di far passare per restauratore della religione e della gloria nazionale quell’uomo scellerato che a causa dei suoi pestiferi errori fu condannato non solo dai Romani Pontefici Nostri Predecessori, ma anche dal Concilio generale di Costanza, e che per le gravissime sedizioni, con cui operava per sconvolgere la società civile, fu mandato a morte dall’autorità laica. (Lettera “Cum maxima”, 31 marzo 1844)
“Tra le principali macchinazioni, con cui in questa nostra età gli acattolici di vario nome si sforzano di insidiare i seguaci della verità cattolica e di allontanarne gli animi dalla santità della Fede, non tengono l’ultimo luogo le Società Bibliche: le quali dapprima in Inghilterra istituite, poi largamente diffuse in ogni parte, vediamo cospirare tutte a un fine, di dar fuori in grandissimo numero di esemplari le Divine Scritture tradotte nelle diverse lingue volgari, e senza alcuna scelta disseminarle fra i cristiani e gli infedeli, allettando ogni sorta di persone a leggerle senza guida nessuna. Talché fanno, come già nel suo tempo deplorava San Gerolamo, comune a tutti l’arte di intendere senza maestro le Scritture, sian pure donnicciole, o vecchi rimbambiti, o verbosi sofisti, purché sappiano leggere; anzi (che è più assurdo e quasi inaudito) pretendono non essere esclusi da si fatta intelligenza neppure i popoli infedeli.
(Enciclica “Tra le principali macchinazioni” 8 maggio 1844)”
[Va condannata] altamente la detestabile insolenza e slealtà di coloro che, accesi dall’insana e sfrenata brama di una libertà senza ritegno, sono totalmente rivolti a manomettere, anzi a svellere qualunque diritto del Principato, onde poscia recare ai popoli, sotto colore di libertà, il più duro servaggio. A questo scopo per verità cospirarono gli scellerati deliri e i disegni dei Valdesi, dei Beguardi, dei Wiclefiti e di altri simili figli di Belial, che furono l’ignominia e la feccia dell’uman genere, meritamente perciò tante volte colpiti dagli anatemi di questa Sede Apostolica”
(Enciclica “Mirari Vos”, 15 agosto 1832)
Roberto Marcante

Gabriel Garcia Moreno: la politica al servizio di Cristo Re

Gabriel Garcia Moreno

Di antica e illustre famiglia spagnola, ultimo di otto figli, Garcia Moreno nacque a Guayaquil il 24 dicembre 1821. Venuto a mancare il padre, proprio nel periodo d’inizio scuola, Gabriele ricevette lezioni di grammatica dal religioso di un vicino convento, che in seguito, lo aiutò a frequentare l’università di Quito. Compiuti gli studi liceali, prese la decisione di ricevere la tonsura e gli Ordini minori; ma il suo carattere, le sue attitudini, i suoi presentimenti lo spinsero ad una vita più militante. Orientò i suoi studi di specializzazione verso il diritto e ottenne la laurea, con voti brillanti, nel 1845.
L’Ecuador era sorto nel 1830, dallo smembramento della Colombia di Bolivar. Il presidente, il Generale Flores, fedele di Bolivar, aveva imposto al paese una costituzione ultra-liberale e anticattolica (come sempre la tolleranza di tutti i culti venne decretata insieme all’intolleranza nei confronti della religione di Cristo e del clero cattolico). Legato alla massoneria della Nuova Granada tentò invano, con il pretesto della beneficenza, di istituire delle logge di confratelli nel paese. Nel 1845, con un paese in preda alla corruzione e alla violenza sulla popolazione, si scatenò una guerra civile che, nel giro di due mesi si concluse con la schiacciante sconfitta di Flores. Sotto il nuovo presidente Roca la situazione economica e sociale non dava alcun cenno di miglioramento e nell’aprile 1846 nacque “La frusta”, un settimanale satirico fondato da Garcia Moreno che contribuì notevolmente a screditare il nuovo incapace e governo. Mentre la crisi nel paese si accentuava, giunsero notizie del tentativo da parte di Flores di voler riprendere il potere con la forza. Moreno allora mise da parte la propria ostilità nei confronti di Roca e fondò il “vendicatore” che contribuì, con la proposta d’interdizione dei rapporti commerciali con le nazioni europee che avessero sostenuto il tentativo di invasione, a far fallire il bellicoso progetto di Flores (progetto che non verrà mai abbandonato ed anzi, negli anni successivi assisteremo ancora a vari tentativi del generale di riconquistare il potere, fortunatamente tutti falliti). Scongiurato il pericolo, la fondazione del nuovo giornale “El diablo” turbò alquanto la dolce quiete del presidente Roca, dei suoi ministri e dei suoi funzionari, ma senza impedire tuttavia le loro speculazioni a danno del paese. Fino alla conclusione del mandato essi continuarono a sfruttare l’Ecuador, condannando alla deportazione chiunque osasse lamentarsi e protestare. Con l’elezione del nuovo presidente Naboa, a cui la massoneria non aveva perdonato il fallito allontanamento dei gesuiti dall’Ecuador, Gabriel Garcia Moreno continuò la sua campagna politica contro i liberali corrotti, pubblicando anche un libello in difesa dei gesuiti (“Defensa de los Jesuitsas”). Nel 1851, il colpo di stato del generale Urbina, liberale radicale vicino alla massoneria, scacciò Noboa dalla presidenza e lo esiliò in Perù. Urbina inaugurò un vero e proprio regno del terrore; per soddisfare il suo odio si accanì contro i Gesuiti e votò la loro deportazione nonostante le proteste del popolo. Garcia Moreno, in mezzo ad un popolo terrorizzato, quando la stampa era proibita e la tribuna rimaneva muta, non esitò ad inchiodare alla gogna l’onnipotente dittatore sulle colonne del suo nuovo giornale “La Nacion”. Impossibile da eliminare fisicamente a causa della sua notorietà tra il popolo, Garcia Moreno fu esiliato a Parigi nel 1853.
L’incontro con l’Europa fu l’occasione per approfondire gli studi sul diritto cristiano, leggere la famosa opera dell’abate Rohrbacher “La storia universale della Chiesa Cattolica” e riscoprire una fede autenticamente vissuta (riscoperta resa necessaria da anni di politica militante che ne avevano parzialmente ostacolato la pratica). L’esilio così, lo aveva reso grande e maturo, pronto all’imminente rivincita cattolica e sociale dell’Ecuador.
Nel 1856, grazie ad una proposta parlamentare di amnistia, gli amici di Garcia Moreno chiesero un salvacondotto per questo grande e famoso cittadino e per accattivarsi le simpatie della popolazione, il nuovo presidente Roblez acconsentì. Riaccolto in patria Moreno fu eletto al senato nel 1857 e si distinse per interventi a favore della riduzione delle imposte, per il miglioramento dell’istruzione pubblica e tentò di far approvare invano una legge che richiedeva la chiusura di tutte le logge massoniche del paese. Negli anni tra il 1959 e il 1860 l’ennesimo colpo di stato militare portò a capo del governo il generale Franco che, dopo aver soppiantato gli avversari Roblez e Urbina, deteneva tutto il potere nelle sue mani e meditava di cedere parte del territorio nazionale al Perù che lo aveva aiutato nella conquista del potere. Anche questa ennesima minaccia fu sventata da Garcia Moreno che presiedeva un governo provvisorio a cui aderivano tutte le province dell’interno: la vittoria riportata sul traditore fu un trionfo non solo per la nazione ma anche per tutti i buoni cattolici che ebbero così in pugno l’occasione di forgiare un nuovo stato secondo i principi della regalità sociale di Cristo. Il progetto di costituzione, discusso nei mesi dopo la vittoria e promosso in prima linea da Garcia Moreno (nel frattempo eletto presidente dell’Ecuador), oltre a importanti riforme sul piano elettorale e amministrativo proponeva la religione cattolica come unica religione dello stato, escludendone ogni altra e si decise di stipulare al più presto un concordato con la Chiesa. Furono questi anni fondamentali in cui tutto il paese fu investito da una grande riforma sociale, politica ed economica che non si esaurì solo sul piano materiale ma fu saggiamente accompagnata da una più lodevole riforma spirituale che grazie al concordato, permetteva alla Chiesa di proseguire la propria missione evangelizzatrice in Ecuador, solo pochi anni prima osteggiata dai massoni liberali. Sola, circondata da stati ormai caduti vittime del virus della rivoluzione, questa piccola nazione del sud america riconobbe quale fosse lo stato normale della società e la vera libertà restituendosi al “governo di Dio”. Di pari passo con queste importanti riforme cresceva l’odio settario dei liberali, che non si lasciavano sfuggire occasione per insultare Moreno dalle colonne dei propri giornali, accusandolo di connivenza con la Chiesa e di essere cieco innanzi al nuovo spirito della libertà e dei diritti umani, che da Parigi ormai aveva invaso tutto il mondo. Dopo essere sfuggito ad un attentato nel 1864, ordito dai massoni innanzi ad un rivale impossibile da sconfiggere con le armi della politica, il 15 maggio 1865 Garcia Moreno fece eleggere alla presidenza Carron, un suo sodale (la costituzione vietava di candidarsi per due mandati consecutivi). Il nuovo presidente iniziò la sua carriera con un solenne messaggio di completa adesione alla politica sino ad allora adottata da Garcia Moreno, ma circondatosi di uomini d’estrazione liberale, finì ben presto col governare in modo opposto al programma dichiarato. Inviato nel 1866 in Cile per negoziare un trattato commerciale, Garcia Moreno sfuggì all’ennesimo attentato massonico e riuscì a ritornare in patria. Sbarazzatisi di Carron, i liberali promossero a presidente Espinosa, un uomo timido e scrupoloso che divenne ben presto schiavo delle funzioni parlamentari e legali con grave danno del partito conservatore. Espinosa era dunque troppo debole per poter rappresentare una valida alternativa a Garcia Moreno, candidato e nuovamente eletto presidente nel 1869. Il suo secondo mandato rimane caratterizzato ancora una volta dalla forte carica cristiana e sociale, che gli permise non solo di ristabilire pienamente il concordato, ma anche di varare una costituzione veramente cattolica, che comprendeva anche la consacrazione della nazione al Sacro Cuore di Gesù. Non solo, Garcia Moreno si adoperò anche per riformare l’istruzione, risollevare economicamente le casse dello stato, ristrutturare carceri e ospedali e donare al paese una rete infrastrutturale moderna. In questa apoteosi dello stato cristiano c’erano però ancora alcune zone d’ombra dove i liberali e i massoni covavano la loro vendetta nei confronti del presidente cattolico. Fu deciso che Garcia Moreno doveva morire. Il 6 agosto 1875 il presidente, mentre usciva dalla cattedrale di Quito, dove era andato ad adorare il Santissimo Sacramento, fu accoltellato da un gruppo di facinorosi, giovani e debosciati liberali prestati al gioco massonico. Il capo del gruppo, un certo Rayo, colpendolo ferocemente gli gridò «Muori, carnefice della libertà!» e Garcia Moreno ebbe ancora qualche istante per pronunciare una breve ma significativa frase: «Dio non muore!». Era la fine dell’Ecuador simbolo per eccellenza del moderno stato cattolico, senza la guida singolarmente illuminante del proprio presidente il paese ripiombò nel giogo del liberalismo e della rivoluzione nel giro di pochi anni. La storia di Garcia Moreno, il più grande presidente cattolico della storia moderna, è la storia di una delle molte sconfitte che hanno caratterizzato la Chiesa negli ultimi due secoli. Distrutto, dilaniato e consunto il mondo cattolico sembra essere indirizzato sul proverbiale viale del tramonto. Innanzi a questi anni ferrigni è facile lasciarci scoraggiare, ma proprio la voce del grande presidente dell’Ecuador si eleva a monito per ricordarci che comunque andrà noi non perderemo mai perché, anche se noi mortali possiamo essere sconfitti, Dio non muore!
Luca Fumagalli
Fonte: Il Cinghiale Corazzato, foglio di informazione e cultura a cura della CAP dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, numero 29, agosto 2009

Elogio della Milano spagnola: contro gli spettri di manzoniana memoria

Filippo II d'Asburgo-Spagna (in spagnolo Felipe II de España; Valladolid, 21 maggio 1527San Lorenzo de El Escorial, 13 settembre 1598)



Tipica ossessione del nazionalista italiota è l’assoluta e incondizionata ripugnanza per tutto ciò che, nella storia degli stati italiani preunitari, rappresenta la dominazione di una nazione o di un impero straniero nella penisola. Naturalmente tale valutazione ideologica si capovolge invece acriticamente non appena s’intraveda il minimo accenno d’italianità, vera o, più spesso, presunta. L’errore storiografico alla base di queste considerazioni sta evidentemente nella proiezione del sentimento nazionalista ottocentesco in un’epoca in cui il concetto di nazione moderna non esisteva neppure. In secondo luogo queste prese di posizione non tengono minimamente conto del reale stato della popolazione e di tutti gli altri parametri che servirebbero a definire la bontà di un governo: i milanesi stavano meglio sotto gli Asburgo “austriaci” o sotto i Savoia “italiani”? A memoria non ricordo che durante la dominazione asburgica i milanesi fossero mai scesi in piazza, mossi da quella disperazione che solo la fame può dare, come fecero nel maggio del 1898 contro il governo italiano!
Forse ancor più che il periodo della dominazione austriaca, apprezzato per aver accolto in parte gli ideali illuministi, quello del governo spagnolo sul Ducato di Milano è stata uno più vilipesi della storia della nostra terra. Il paragone tra i due, peraltro, non è certo una mia invenzione dato che il noster Lisander Manzoni, com’è ben noto, nei Promessi sposi giocò proprio su questo parallelismo per esprimere la sua critica alla dominazione austriaca, senza rischiare d’incorrere nella censura. Nonostante l’evidente gioco di specchi, non c’è dubbio che il Manzoni avesse un’idea piuttosto negativa del periodo spagnolo, in quanto epoca di decadenza sociale e letteraria, visione che sarebbe giunta pressoché invariata fino a noi a causa della sostanziale incomprensione della cultura barocca da parte dell’illuminismo prima e dell’idealismo poi.
Il Seicento lombardo per Manzoni fu un universo caotico che tanto assomigliava, parlando per metafore, allo “scartafaccio” da cui finse di aver tratto il suo racconto: “declamazioni ampollose, […] solecismi pedestri, […] goffaggine ambiziosa”, insomma una società malata nascosta dietro gli apparati della pompa magna barocca. Ecco quindi che dietro le magniloquenti grida contro i bravi non c’erano che vuote parole dei governatori spagnoli, troppo impegnati, come il famigerato Fuentes, a “ordire cabale” per amministrare onestamente la giustizia. Questa giustizia d’altra parte, dalla dotta penna del Manzoni, emerge come una cortina ingannatoria di leggi prolisse e pene “pazzamente esorbitanti”, oltre cui si celava un mondo di sopraffazioni dei potenti, affratellati contro coloro i quali, come Renzo, “non avessero mezzi di far paura altrui”. La morale cui il debole doveva uniformarsi per sopravvivere era quella di don Abbondio, d’altra parte cosa poteva fare, nella latitanza dello Stato, “un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”? Neanche la cultura esce immune dagli strali della critica manzoniana. L’inutile e pomposa cultura barocca, quando non serviva strumentalmente ai potenti (come il latinorum dell’Azzeccagarbugli), era un vuota astrazione che si rifiutava di fare i conti con i dati dell’esistenza reale: don Ferrante morì di quella peste che, secondo i suoi sillogismi, non poteva esistere!
Insomma dal riquadro storico tracciato dal Manzoni, che pur non manca di tratti d’indiscustibile storicità (soprattutto per quanto riguarda le guerre e la peste), non si salva proprio nulla e solo la maestria artistica e la fede permisero allo scrittore milanese di sublimare la vasta materia in una visione più alta: non è la giustizia dell’uomo a tirare in definitiva le somme e, al di sopra del “guazzabuglio del cuore umano”, domina quella divina Provvidenza capace di dirigere con sapienza il destino degli uomini!
La visione eccessivamente negativa che Manzoni aveva del Seicento lombardo fu ereditata dalla lettura di alcune fonti non certo imparziali: l’opera Economia e statistica del giacobino Gioia, la Storia di Milano di Pietro Verri e, soprattutto, la Storia delle repubbliche italiane del ginevrino Sismondi. Quest’opera in particolare, vituperando la tirannide spagnola contrapposta alla libertà veneziana (e ciò venne ripreso da Manzoni nella sorte di Renzo, perseguitato e infelice a Milano, felice e prospero nel bergamasco), diede vita allo stereotipo del “secolo senza politica” spagnolo, che per molti anni ha fatto il paio nella storiografia italiana con “la messa in vendita dello stato” di Braudel.
Certamente il Manzoni ritrasse gli anni più infelici del periodo spagnolo di Milano (funestati da guerre, invasioni, carestie e dalla terribile peste del 1630) ma la condanna senza appello da lui espressa non poté che trascinare con sé l’intero periodo che va dalla fine del dominio sforzesco, con la caduta del debole Francesco II Sforza nel 1535, sino al 1706 quando, durante la guerra di successione spagnola, Eugenio di Savoia occupò Milano. Certo ogni buon milanese dovrebbe rattristarsi per la scomparsa di una dinastia autoctona come gli Sforza ma, a onor del vero, bisogna dire che l’autonomia milanese era, dallo scoppiò del confronto tra gli Asburgo e i francesi Valois, del tutto un’utopia dato che fu Fernando d’Avalos, luogotenente di Carlo v, a vendicare nel 1525 a Pavia la sconfitta di Marignano (1515) e a rimettere sul trono gli Sforza.
Basterebbe anche solo menzionare la tranquillità che la pax hispanica seppe garantire a Milano per circa un secolo e mezzo, di contro alle continue guerre a cui fu partecipe nel Settecento, per ribaltare il giudizio del Manzoni, ma le motivazioni per rivedere criticamente le pagine dei Promessi sposi sono ben di più. Innanzitutto bisogna evidenziare come il dominio spagnolo sul Ducato di Milano, come sugli altri stati della penisola che la pace di Cateau Cambrésis (1559) aveva attribuito a Filippo II Asburgo, fu ben lungi dall’essere una tirannide spietata, votata solo al fiscalismo oppressivo tanto da lasciare il territorio all’anarchia dei signorotti alla don Rodrigo. In realtà i sovrani spagnoli applicarono sin da subito la prassi dell’accordo coi ceti dirigenti, cioè col patriziato cittadino, e, in secondo luogo, gli interessi di tutti i territori italiani avevano una giusta rappresentanza a Madrid attraverso il Consiglio d’Italia. Le garanzie d’autonomia del patriziato milanese s’avvalsero anche di una contingenza particolarmente favorevole: Pio IV Medici (1559-64), primo e unico papa milanese, con una bolla del 1560 garantì, riservando ai patrizi milanesi alcune cariche che gli spagnoli avrebbero potuto assoggettare, il controllo del Collegio dei Nobili giureconsulti, il cui palazzo s’affaccia ancora su piazza Mercanti. Grazie a ciò il Senato di Milano, supremo tribunale del ducato, divenne la roccaforte dell’autonomia patrizia insieme al Magistrato Ordinario, organo fiscale. Peraltro l’esser inserita nell’impero spagnolo non significò per il ducato perder la sua dimensione internazionale, dato che lo Stato di Milano, di concerto col governatore, aveva diritto d’inviare rappresentanti diplomatici a Madrid e alle altre corti europee. Come tornasole della saggezza della politica spagnola di compromesso con i notabili locali, si può osservare come anche le riforme del duca Olivares del 1647, che suscitarono il celebre tumulto di Masaniello a Napoli, trovarono pacifica accoglienza nella popolazione milanese.
Lasciando il campo della politica lo splendore della Milano barocca può sfuggire solo a chi ha gli occhi offuscati dalla cataratta del razionalismo illuminista. Lo splendore delle chiese e delle cappelle costruite durante la controriforma (di cui mirabile esempio sono S.Alessandro in Zebedia, il macabro ossario di S.Bernardino e la S. Fedele del celebre Pellegrino Tibaldi) sono l’immagine di una città nella quale la fede cattolica tornò a rivivere, scongiurando il pericolo del protestantesimo, soprattutto grazie all’operato di San Carlo Borromeo, nipote del già menzionato Pio IV (non sempre il nepotismo ha effetti deleteri!) e arcivescovo di Milano dal 1564 al 1584. I nuovi ordini religiosi dei gesuiti e dei barnabiti importarono a Milano la fede genuina e semplice della Controriforma, fatta di devozioni ma anche di confraternite e congregazioni, in cui l’intimo perfezionamento religioso non andava a scapito della dimensione sociale del cattolicesimo. Insieme alla religiosità barocca questi ordini portarono ai meneghini una ventata di freschezza culturale assicurata dalle scuole, il collegio di Brera e le scuole arcimbolde di S.Alessandro soprattutto, che avrebbero formato generazioni di nobili milanesi. Sempre ad un ecclesiastico, il cardinal Federigo Borromeo, figura che rifulge per generosità e magnanimità anche dalle righe del Manzoni, dobbiamo la nascita della Biblioteca Ambrosiana, istituto che, nei secoli, ha conservato la memoria ed accresciuto la conoscenza della storia meneghina. Manifesto di un’epoca in cui religione, politica e cultura non andavano disgiunte, ma procedevano insieme per lo scopo duplice della salvezza delle anime e la felicità sulla terra è il teatro morale in dialetto del grande poeta Carlo Maria Maggi (1630-99), inventore della figura del Meneghin, maschera del milanese schietto e cont el coeur in man.
La Milano spagnola era ancora quella in cui il lavoratore, anziché essere lasciato in balia del padrone, trovava accoglienza e riparo nelle corporazioni e nelle botteghe, dove il padrone era una maestro e un padre anziché un oppressore. Alla crisi dell’economia seicentesca Milano seppe rispondere inoltre con la conversione: abbandonò la grande tradizione metallurgica, legata alla produzione di armi e corazze, per investire sulla lana e sulla seta, che permisero anche al contado di lavorare e sviluppare, di conseguenza, l’agricoltura.
Vero è che la peste (la cui diffusione è peraltro irrelata, contrariamente a quanto si crede, con la denutrizione) periodicamente si presentava alle porte dello Stato di Milano mietendo vittime in campagna e, in particolar modo, nelle affollate città. Le epidemie e le carestie però non risvegliavano solo gli istinti turpi dell’uomo, ben descritti dal Manzoni per la peste del 1630, ma anche quelli più magnanimi, visibili, sia per quanto riguarda l’opera d’assistenza che per la preghiera, nel comportamento di San Carlo Borromeo durante l’epidemia del 1576. Questi inoltre, a peste finita, andò in pellegrinaggio a Torino per pregare sulla Sindone; monumento ancora visibile del ringraziamento all’Altissimo da parte del Borromeo è il Tempio civico di San Sebastiano.
Non vi ho ancora convinto: osservate allora l’esuberante palazzo Litta in corso Magenta, la maestosa severità del Collegio elvetico in via Senato, la facciata della Ca’ Granda oppure, ancor meglio, uno qualsiasi dei ritratti dei nobili milanesi del periodo spagnolo. Anzi prendete quest’ultimo e accostatelo alla foto di Berlusconi che fa le corna: forse Manzoni ai nostri giorni avrebbe trovato tempi più turpi di cui parlare!
Davide Canavesi
Fonte: Cinghiale Corazzato numero 25, settembre-ottobre 2008

La Monarchia Tradizionale applicata al XXI Secolo (Parte 3°) : La Carta dello Stato (Costituzione) (Parte 7°)


-CAPO VI -
- DEL CONSIGLIO DI STATO-

Art. 75. - Vi sarà un consiglio di stato che non supererà il numero di ventiquattro individui nominati dal Sovrano. Gli stranieri non ne verranno esclusi.
Art. 76. - Il consiglio di stato e presieduto dal ministro segretario di stato di grazia e giustizia di nomina del Sovrano.
Art. 77. – Il  Sovrano nomina i consiglieri di stato.
Art. 78. – Il consiglio di stato e istituito per dare il suo ragionato consiglio su tutti gli affari dei quali potrà essergli delegato l'esame in nome del Re .

Scritto da:
Il Principe dei Reazionari

domenica 29 luglio 2012

La Battaglia del Cratere, 30 Luglio 1864 : I Confederati vincono l'"astuzia" Yankee



Nota dell'autore:

Ho voluto scrivere un'articolo sulla Battaglia del Cratere per un motivo molto importante, rappresenta una delle più grandi vittorie contro lo strapotere Rivoluzionario , e in questo caso Statunitense, del conservatorismo Contro-Rivoluzionario d'oltre Oceano.

Introduzione

La battaglia del cratere (in inglese Battle of the Crater), è stato un combattimento della guerra di secessione americana, che costituiva una delle operazioni dell'assedio di Petersburg. Venne combattuta il 30 luglio del 1864, tra l'Armata Confederata della Virginia Settentrionale, guidata dal generale Robert E. Lee e l'Armata del Potomac, diretta dal Mag. Gen. George G. Meade (sotto la supervisione diretta del generale-in-capo, Ten. Gen. Ulysses S. Grant).

Preludio alla battaglia 

Durante l'assedio di Petersburg (Virginia), le armate erano allineate lungo una serie di posizioni fortificate e trincee, per una distanza superiore ai 32 km, che si estendeva dal vecchio campo di battaglia di Cold Harbor, nei pressi di Richmond fino ad aree a sud di Petersburg.
Dopo che il generale Lee aveva messo in scacco Grant nel suo tentativo di conquistare Petersburg il 15 giugno, la battaglia andò incontro ad una stasi. Grant aveva imparato una dura lezione nella battaglia di Cold Harbor, dove Lee aveva dimostrato la sua grande capacità di dirigere la resistenza in posizioni fortificate e si stava facendo portare alla completa inattività per via delle trincee e fortini in cui Lee l'aveva confinato.

Per chiudere ho deciso di inserire questa foto di un Soldato Confederato per rammentare che gli eroi di questa battaglia, come di tante altre, non sono tanto i Generali che l'hanno  "studiata a tavolino" o diretta , ma il Soldato semplice Sudista , lacero nella divisa ma non negli ideali,  che muore per la causa.





Fonte:

Wikipedia

Dalla parte di Lee

Scritto da:

Il Principe dei Reazionari

File:RobertELeephoto1863.jpg
Foto del Generale Sudista Robert Edward Lee, (Stratford Hall Plantation, 19 gennaio 1807Lexington, 12 ottobre 1870), nel 1863 circa.



Occorre , prima di continuare, rammentare la situazione generale: La situazione nelle fila dell'Esercito Confederato non era delle migliori. I soldati combattevano il "Nord aggressore" come lo avevano fatto nei trascorsi tre anni, e lo facevano fedeli al proprio Stato d'appartenenza , ma la situazione dal Luglio 1863 era precipitata. L'Unione aveva messo in ginocchio l'economia della Confederazione con il blocco dei principali porti sulla costa Atlantica e immettendo dollari confederati falsi . Inoltre, l'Esercito dell'Unione aveva un ricambio di uomini assai maggiore rispetto all'Esercito Sudista e con la leva obbligatoria e il reclutamento di soldati di colore e le differenze tra i due schieramenti  divento enorme . Gli Unionisti avevano un ricambio regolare delle uniformi, delle calzature e degli armamenti; lo Yankee aveva da mangiare mentre i "ribelli" non avevano di che vestirsi. Nonostante ciò i soldati Confederati rimanevano combattivi e motivati, anche se furono parecchie le diserzioni causate dalle notizie che giungevano dalle loro case saccheggiate dai Federali. Era un' Esercito affamato e con gli stivali consumati da tre anni di guerra che attendeva l'attacco a Petersburg.


Le fasi decisive e la Battaglia del Cratere

Con gli assalti del 17 e del 18 Giugno 1864, il IX Corpo del generale Burnside riuscì a conquistare una posizione a 120 metri dalle linee sudiste. Dietro questa posizione il terreno si infossava e il tenente-colonnello Henry Pleasants, un ingegnere del 48th Pennsilvanya (reggimento composto da molti minatori), propose al suo comandante di divisione di scavare una galleria di mina che partisse da quel punto e arrivasse fino alla linea sudista. Il generale Burnside approvò il piano e il 25 Giugno iniziarono i lavori. Circa un mese dopo, il 23 Luglio, il tunnel era pronto per essere riempito di polvere. I minatori di Pleasants avevano impiegato più tempo del dovuto, furono rallentati dalla mancanza di strumenti appropriati e dai tentativi di tenere il più nascosto possibile lo scavo.



Ambrose Everett Burnside.jpg
Ambrose Everett Burnside (23 maggio 182413 settembre 1881)





Il disegno del progetto del tunnel.
L'entrata del tunnel come ancora oggi si presenta


Il 26 Luglio il generale Meade richiese un piano per l’assalto alle posizioni confederate al generale Burnside. Il piano di Burnside prevedeva di fare esplodere le mine all’alba o alle 5 del pomeriggio, scagliare due brigate di colore all’assalto, la loro "carne da macello", arrivati sulle posizioni dei ribelli i due reggimenti di testa avrebbero dovuto procedere rapidamente e perpendicolarmente alle linee difensive sudiste cacciando il nemico dalle trincee ed evitare possibili attacchi sul fianco. Infine con l’intervento di altre divisioni, i nordisti avrebbero dovuto conquistare una collina alle spalle del cratere creato dall’esplosione, la collina del cimitero.
Il generale Meade obbiettò sull’intenzione di usare la divisione di colore come unità per lo sfondamento, aggiungendo che erano sì truppe ben addestrate ma senza alcuna esperienza pratica, e soprattutto non si fidava  . Sarebbe stato meglio mandare le altre divisioni di soldati bianchi che avevano molta esperienza. Il 29 Luglio Grant inviò un dispaccio nel quale sosteneva l’idea di Meade, fu quindi ordinato di sostituire la divisione di colore con una bianca. Burnside fu contrariato dalla decisione presa dall’alto comando, mancavano 20 ore all’assalto e le truppe ora scelte per il difficile compito di aprire la strada non avrebbero avuto il tempo per familiarizzare col piano. Il generale si recò allora dai suoi comandati di divisione per determinare a chi sarebbe toccato il compito di condurre l’assalto. Fu fatto un sorteggio dal quale uscì il generale Ledlie con la sua 1st Division che comandava solo da sei settimane. Burnside, Lidlie e i comandanti di brigata della prima divisione si riunirono per organizzare la manovra, terminando la riunione solo in tarda serata, poche ore prima dell’esplosione della mina. A questo punto Meade decise di apportare altri cambiamenti al piano di Burnside. Invece di muoversi ai lati del cratere e cacciare i ribelli dalle fortificazioni, gli unionisti lo avrebbero dovuto superare e raggiungere direttamente la collina del cimitero. Nel frattempo Meade aveva ordinato anche di ridurre della metà la carica esplosiva posizionata nella galleria di mina.
 
 Foto del Generale Unionista Ulysses Simpson Grant , (Point Pleasant, 27 aprile 1822Mount McGregor, 23 luglio 1885), nel 1864.



A mezzanotte dello stesso giorno la divisione di Ledlie cominciò a muoversi verso le sue posizioni. Era quasi l’alba del 30 Luglio, ormai il piano non si poteva più cambiare: la divisione di Ledlie doveva superare il cratere, spostarsi di quasi 400 metri a destra e assaltare la collina del cimitero, caricando per un pendio quasi libero da ostacoli. Quasi contemporaneamente alla prima divisione si sarebbe dovuta muovere anche quella del generale Wilcox, il cui obbiettivo era la sinistra della collina del cimitero dove avrebbe protetto il fianco sinistro di Ledlie. Era poi il turno della divisione del generale Potter che doveva proteggere la destra. Il V e il XVIII Corpo avrebbero poi rincalzato le divisioni del IX Corpo. Alle 3 e 30 del mattino le forze erano pronte ma alle 4 la mina non era ancora esplosa. C’erano dei problemi con la miccia, ma dei minatori erano entrati nella galleria e stavano rapidamente risolvendo il problema.


I minatori piazzano la mina all'interno del tunnel sotto le posizioni Sudiste



Il nervosismo tra i nordisti pronti all’assalto e in piedi da più di 4 ore era altissimo quando, alle 4.44 esatte del 30 Luglio 1864,  3600 kg di polvere da sparo esplosero, trascinando in aria terra, carri, tronchi, uomini e cannoni. I detriti cominciarono a piovere sulle truppe federali in attesa dell’assalto che spaventati arretrarono. Un testimone annoto: <<Dalla terra divampò all'improvviso un bagliore di fiamma seguito da fumo nero,con un terribile fragore che si prolungò con un soffocato ruggito; si sollevò alta una nuvola di fumo e polvere che si trascinò in aria grossi blocchi di argilla e molti oggetti scuri che avrebbero benissimo potuto essere uomini e cannoni; e quando tutto questo materiale di detriti ricadde giù ,fu di nuovo un altro shock uguale a quello di prima! >>
Nel punto dello scoppio c'erano circa 300 soldati sudisti del Sud Carolina e una trentina di artiglieri della batteria di quattro cannoni di Pegram : quasi tutti (278) morirono o furono feriti.


Illustrazione raffigurante l'esplosione della mina vista dalle linee dell'Unione




Dopo dieci minuti i ranghi furono riformati e l’ordine di avanzare fu dato. Tuttavia i nordisti dovettero scavalcare i loro trinceramenti rompendo i ranghi, che non vennero più riformati. Una massa di uomini in blu si lanciò di corsa nei 120 metri che li separavano dai sudisti. Raggiunsero un cratere profondo 10 metri e cosparso di ogni sorta di materiale bellico. In mezzo ai rottami vi erano cadaveri semi-sepolti, altri sudisti vagavano in mezzo alla polvere senza capire cosa era successo. Rallentate dal terreno e dal terribile spettacolo che gli appariva di fronte, la prima e la seconda brigata della prima divisione rallentarono. I soldati si fermarono impossibilitati a proseguire perchè le pareti del cratere erano molto ripide, i reggimenti si mescolarono creando una gran confusione. Il colonnello Marshall, della seconda brigata, fu seguito dai suoi uomini che si buttarono dentro al cratere. Alcuni uomini risalirono dall’altro lato del cratere ma iniziarono ad essere bersagliati dai confederati, trincerati a destra e a sinistra del cratere, che nel frattempo si erano  ripresi dallo shock. I nordisti presi da una reazione inaspettata si rigettarono nel cratere tentando di organizzarsi in formazione, ma quel terribile buco era affollato di soldati disorientati e bersagliati, vi erano ostacoli, feriti e morti. Sul posto arrivò anche una batteria d’artiglieria sudista che cominciò a sparare a mitraglia sui federali, un vero "buongiorno del Sud".
Dei Soldati Confederati al termine della battaglia riferirono che era "come sparare a dei pesci in un barile".

File:Waud-Petersburg-Crater.jpeg
Illustrazione raffigurante la Battaglia del Cratere


Ledlie, al sicuro dietro ai trinceramenti unionisti, ordinò di muovere in avanti ma ciò era impossibile per i suoi uomini, devastati da un incessante fuoco. Poco dopo una brigata della divisione Potter tentò un attacco sulla destra ma finì dentro al cratere. Nessun alto ufficiale si trovava sul posto e gli ordini che questi inviavano erano di attaccare. I nordisti nel cratere e i rinforzi continuarono a cercare di superare la tremenda fossa, creando anche dei diversivi sulla destra. Quando la divisione del generale Wilcox arrivò sul posto, trovò il cratere completamente pieno di soldati nordisti e decise di assaltare le trincee sulla sinistra. Per un po’ le trincee rimasero nelle mani degli unionisti ma vennero riconquistate. Toccò poi alla divisione di colore del generale Edward Ferrero. In un primo momento le fu ordinato di rimanere al riparo delle trincee nordiste ma successivamente Burnside ordinò di attaccare. Le due brigate superarono il cratere e si scontrarono con i confederati che nel frattempo vi si erano schierati attorno. Dopo un feroce scontro corpo a corpo anche la divisione di colore fu respinta. Parte dei soldati finì nel cratere, altri insieme agli uomini delle divisioni bianche si ritirarono verso le linee nordiste.

Mentre i comandanti pianificavano varie soluzioni, come aspettare la notte per evacuare i reparti rimasti intrappolati nel cratere, i confederati lanciarono il loro contrattacco che ebbe un effetto devastante sulle scompigliate truppe nordiste. L’assalto sudista fu facilitato dalla lenta risposta dell’artiglieria nordista, che iniziò a fare fuoco  troppo tardi. Nel cratere i nordisti furono travolti e annientati dalla pronta reazione sudista.

Il 30 Luglio era stata una giornata calda, i feriti nel cratere morirono schiacciati e soffocati, ai soldati mancava l’acqua, la giornata era stata terribile. Il IX Corpo ebbe più di 400 morti, 1600 feriti e 1700 prigionieri, per un totale di circa 3800 uomini, mentre le perdite Sudiste furono di 1.032 . Gli altri due corpi d’armata rimasero quasi completamente inattivi per tutta la durata dell’attacco. Ciò che destò lo sdegno della truppa e di alcuni ufficiali fu la totale assenza di generali superiori nel cratere, eccetto il generale Potter. Non venne quindi fatta nessuna manovra per salvare l’assalto, per tutta la giornata gli unici ordini inviati ai comandanti nel cratere furono quelli di proseguire l’attacco.


 
La terribile immagine di un caduto sudista nei pressi di una trincea.





Conclusioni


Gli Unionisti ordirono il loro macchiavellico piano pensando che sarebbe stato sufficiente ad annientare le difese di quelli che loro in modo dispregiativo chiamavano "ribelli". Il risultato fu tutt'altro, non solo perchè i piani Nordisti non andarono come progettato ma soprattutto per la vittoria di un esercito inferiore di numero e di mezzi ma nettamente superiore negli ideali e nelle motivazioni. Il 30 Luglio 1864 i "ribelli" sconfissero per l'ennesima volta l'"aquilaccia" dell'Unione.