martedì 24 luglio 2012

R. P. Matteo Liberatore S.J. Da: La Chiesa e lo Stato (2a ed.) Napoli 1872, cap. I, pag. 7-21. CONDIZIONE DELLA CHIESA RIMPETTO ALLO STATO (I).

 

L'emblema dell'ordine della Compagnia di Gesù : un disco raggiante e fiammeggiante caricato dalle lettere IHS, il monogramma di Cristo. La lettera H è sormontata da una croce; in punta, i tre chiodi della Passione

 

CAPO I.

ARTICOLO I.

Concetto liberalesco

I.

Triplice forma di un tal concetto.


 
La parola d'ordine, come suol dirsi, dell'odierno liberalismo è l'emancipazione dello Stato dalla Chiesa. Essa s'intende in due maniere, secondo che è promossa dal liberalismo assoluto, o dal liberalismo moderato; al quale si accostano, in buona o mala fede, molti ancora tra quei, che son cattolici, se non di mente, almeno di cuore, e assumono la denominazione di cattolici liberali. Il primo dei due liberalismi vuole l'anzidetta emancipazione per via di supremazia dello Stato; il secondo per via di piena indipendenza dalla Chiesa; i cattolici liberali sostengono la scambievole separazione non come verità specolativa, ma come metodo pratico.
Il liberalismo assoluto concepisce lo Stato come la più alta potenza, a cui il genere umano si eleva nel suo sociale progresso. Per lui lo Stato è dotato d'onnipotenza; non solo non ha alcun potere a sè superiore, ma neppure uguale o a sè non soggetto. Esso è potere sommo ed universale; a cui nulla può resistere, e tutto dee obbedire. Esso è il diritto per eccellenza; fonte di tutti gli altrii diritti, e regolatore supremo di tutte le relazioni tra gli uomini. In faccia a lui non si dà alcun diritto individuale o domestico, che sia inviolabile, e molto meno un diritto sacro, di cui un'altra società possa vantarsi. Tutti i diritti sono inchiusi nel diritto pubblico; e di questo è promulgatore e giudice unicamente lo Stato. Gli altri inferiori diritti derivano da lui in virtù della legge che egli sancisce; sicchè le sue leggi sono la regola ultima dell'umano operare. E perciocchè la società non è stazionaria, ma progressiva; ne segue che niuna legge, niun diritto e niuna istituzione sia immutabile, ma tutto dipenda dalla volontà sociale, obbediente al progresso; la quale volontà si manifesta per la pubblica opinione di quelli, in cui l'umanità progredisce, e viene eretta in legge dai rappresentanti del popolo nei Parlamenti.
Questa teorica, se ben si consideri, costituisce lo spirito che avviva, dove più dove meno, le moderne costituzioni d'Europa, foggiate sui famosi principii dell'89. In virtù di siffatta teorica la Chiesa non solo perde ogni sua preminenza a fronte dello Stato, ma scomparisce del tutto come società perfetta ed indipendente. Al più essa resta in qualità di semplice Collegio, come ogni altra minore associazione civile, sottoposta allo Stato, e derivante dallo Stato la sua morale esistenza. E come lo Stato concede alla Chiesa, per suo mero beneplacito, il godimento di vita pubblica; così egli stesso ne determina e misura i diritti, riserbandone a sè medesimo il sindacato. È una condizione della Chiesa, sotto qualche rispetto inferiore a quella, in che essa trovavasi sotto gl'Imperatori pagani, in tempo di tregua da sanguinose persecuzioni.
A tanta esorbitanza non giungono i liberali, che vanno sotto il nome di moderati. Costoro propugnano non la supremazia, ma l'autonomia e la piena indipendenza dello Stato; sia che ciò vogliano come transazione, sia, più veramente, che come transizione. Per essi la Chiesa e lo Stato formano due società del tutto libere e separate tra loro, nel giro della propria appartenenza. Il che essi esprimono colla formola: Libera Chiesa in libero Stato.
Il fine dello Stato, in loro sentenza, non è per niuna guisa ordinato al fine della Chiesa; e però il potere dell'uno non è in niun modo subordinato al potere dell'altra. Una tal subordinazione importerebbe confusione. Lo Stato è al tutto sui iuris e padrone degli atti suoi, senza alcun riguardo agl'interessi della religione de' sudditi. Egli fa le sue leggi, senza curarsi di altro, e ne esige l'osservanza, quale che sia la loro opposizione con le leggi canoniche. Il solo interesse politico lo guida nelle sue determinazioni, e la prosperità temporale dei popoli. Al più, per ragione di concordia, potrà sopra alcuni punti venire con la Chiesa a liberi patti e a libere convenzioni, trattando con lei da uguale con uguale; e questi stessi patti e queste convenzioni cessano col mutare de' tempi o delle circostanze sociali, di cui è giudice lo Stato. La Chiesa non ha diritti pubblici propriamente detti, nè di per sè si estende all'ordine materiale. Come società spirituale, essa è ristretta al solo giro dell'interna coscienza; quanto all'esterno non può godere che del diritto individuale, di libertà comune. Peraltro è còmpito dello Stato allargare il più che puossi, a beneficio di tutti, i confini di cotesta libertà, concedendola pienamente per ciò che riguarda culto, coscienza, stampa, insegnamento, associazione, tutto in somma il pensare e l'operare dell'uomo, tanto solo che non ne venga disturbata la quiete pubblica.
A questo sistema di liberalismo si accostano, come dicemmo, non pochi altresì tra gli stessi cattolici, di cuore schietto ma di mente magagnata. Essi rifuggono dal discutere le astratte ragioni, ma volgendosi al concreto de' fatti, reputano più prudente e più utile alla Chiesa la sua totale separazione dallo Stato. Essi ricordano gli aggravii da lei patiti, pel servaggio in che i Principi dei tempi scorsi si contendevano di tenerla, sotto colore di protezione. Essi le consigliano che da sè stessa rinunzii all'infausto connubio; e restringendosi alle sole morali sue forze, non richiegga nè aspetti alcun aiuto dal potere civile, nè pretenda di esercitare alcuna influenza in qualsiasi parte dell'ordinamento politico. Quanto poi alle libertà, menzionate di sopra, dicono che la Chiesa può e deve accettarle, senza impensierirsene gran fatto. Imperocchè esse non possono che giovare; niente essendo sì conforme alla natura dell'uomo, come il godere piena libertà politica e religiosa, scosso ogni giogo di servitù e di ristrinzione. Ad ogni modo esser questa l'universale tendenza della società moderna; e contrastarvi esser matto consiglio, che non può avere altro effetto, se non quello di alienare sempre più gli animi dalla religione, con danno irreparabile non solo del civile consorzio, ma altresì della Chiesa. Così questi valorosi apologisti; i quali con una semplicità, che innamora, si reputano i veri veggenti, i veri conoscitori del mondo, i prudenti per eccellenza, i veri zelatori degl'interessi cattolici; e si scagliano ferocemente contro chiunque lor contraddica senza omettere nondimeno il panegirico obbligato della carità e della moderazione.

II.

Assurdità del concetto, nel senso del liberalismo assoluto

Come ognun vede da sè medesimo, il liberalismo assoluto non riconosce la divinità della Chiesa; altrimenti non potrebbe disconoscere in lei quei diritti, che al divino Fondatore della medesima piacque di attribuirle. Esso nega l'ordine soprannaturale, nega Cristo; chiudendosi ne' cancelli del puro razionalismo. Di che segue che egli si dichiara reprobo da sè medesimo in virtù della sua stessa miscredenza; ed appartiene a quel mondo, già riprovato dal Redentore, ed escluso dalla sua preghiera al divin Padre [1]. Esso dunque, senz'altra discussione è non pure anticattolico, ma anticristiano; niun fedele può professarlo, o come che sia consentirvi. La quistione intorno a lui è finita: Qui non credit, iam iudicatus est [2].
Nondimeno, acciocchè s'intenda la sua turpitudine anche nel puro ordine della ragione, facciamo osservare che esso nega altresì la spiritualità ed immortalità dell'anima umana. E vaglia il vero; come potrebbe esso altrimenti concepire lo Stato qual associazione suprema, senza restringere le sorti dell'uomo al solo giro della vita organica e materiale? La società è specificata dal fine; e quella è suprema, che riguarda il fine supremo. Laonde supposto che la destinazione dell'uomo non si compia quaggiù, ma che di là dalla tomba lo attendano destini immortali; egli è chiaro, stando anche al solo lume della ragione, che associazione suprema non può essere se non l'associazione religiosa, quella cioè che scorge l'uomo e promuove al supremo ed imperituro suo bene. Per istabilire il contrario convien pensare l'uomo come sorto dalla pura materia e nella materia destinato a risolversi. Allora solamente potrà lo Stato giudicare che il fine, a cui veglia, della prosperità temporale, sia il massimo dei beni dell'uomo; e niente esca fuori i termini di questa sua cerchia. Ecco perchè non pure i razionalisti ma i materialisti ancora fan plauso al sistema del liberalismo assoluto.
Se non che in questo sistema, l'errore radicale da cui sgorgano tutti gli altri, è propriamente la negazione di Dio. Quindi è che gli atei e i panteisti ne sono i massimi promotori. Escluso Dio o (ciò che torna al medesimo) non distinguendolo dal mondo, s'intende benissimo che la più alta potenza nell'universo non è che l'uomo, e propriamente l'uomo ingrandito nello stato sociale, o vogliam dire l'uomo svolto in moltitudine ed ordinato in comunanza civile. Sì fatto uomo in sentenza dell'ateismo è l'ultimo perfezionamento, a cui si eleva l'improdotta materia. Esso per conseguenza sarà interamente padrone di sè medesimo e detterà a sè stesso ed ai suoi dipendenti le norme di ciò, che gli piacerà appellare bene o male, giusto od ingiusto. Per contrario riconosciuto Dio, Dio solo sarà, come il creatore, così l'assoluto Signore e legislatore dell'universo. L'uomo dunque, la società, il potere, non potranno pensarsi altrimenti che come fatture di Dio, le quali, per conseguente da lui ricevono come il fine, così la norma del retto operare. Non dunque lo Stato, la pubblica opinione, i placiti del progresso, ma gl'immutabili principii di moralità e di giustizia, da Dio dettati e scolpiti nell'animo della sua creatura, saranno la regola suprema dell'azione umana nel giro vuoi privato, vuoi pubblico. Lo Stato intenderà d'essere una sovranità subordinata; di esercitare ufficio di ministro d'una sovranità superiore; di aver a reggere i popoli, secondo la volontà del Signore, a cui esso stesso è soggetto.
«Udite, o Re, ed intendete; imparate, o giudici della terra. Prestate docile orecchio, o voi che frenate le moltitudini, e vi compiacete di aver soggette le nazioni. Imperocchè la potestà è stata data a voi dal Signore, e la forza dall'Altissimo; il quale interrogherà le vostre opere ed esaminerà le vostre intenzioni. Essendo voi ministri del regno suo, non avete giudicato con rettitudine, e non avete osservato le leggi della giustizia, nè siete proceduti secondo la volontà di Dio. Con orrore e presto vi accorgerete che giudizio severissimo sarà fatto di coloro, che sovrastanno. Imperocchè al debole sarà usata misericordia, ma i potenti patiranno tormenti potentemente [3].» Ecco l'idea della potestà, che ci porgono le divine Scritture. Altro che imperante supremo e fonte prima del diritto! Queste divine parole ci mostrano nel governante non più che un ufficiale, applicatore d'una legge, che egli riceve, e da cui dove discostisi, non obbedienza da' sudditi, ma per contrario gli si dee tremendo gastigo dal suo Signore. E poichè Iddio, libero ordinatore, non è legato a manifestarci la sua volontà per la sola via naturale del lume di ragione, ma può manifestarcela, e l'ha manifestata di fatto, anche per via soprannaturale di positiva rivelazione; lo Stato è obbligato di uniformarsi anche a questa nel reggimento dei popoli; e cercarla ivi appunto, dove Iddio l'ha collocata. Ora Iddio l'ha collocata nella sua Chiesa. Lo Stato dunque dalla Chiesa deve ricevere la suprema norma morale; e per conseguenza deve accettare essa Chiesa e riconoscerla, non quale a lui piace di considerarla, ma quale Iddio l'ha costituita, rispettando in lei per intero quei diritti e quelle prerogative, che il suo divin Fondatore volle impartirle. Tutto ciò è evidentissimo e secondo il rigore di strettissima logica, per chi ammette Dio. Onde il liberalismo assoluto non può negarlo, senza fondarsi nella negazione di Dio. Ma questo appunto costituisce la sua piena condanna, agli occhi non solo dei cattolici, ma di quanti non abbiano ancora perduto al tutto il bene dell'intelletto.

III.

Assurdità del concetto, nel senso del liberalismo moderato.

Il liberalismo moderato non pretende, almeno a parole, la supremazia dello Stato, ma la sua piena indipendenza dalla Chiesa. Non nega l'ordine soprannaturale, ma ne prescinde e lo esclude dall'ordinamento politico della società. Nondimeno, benchè meno orrido, tuttavia non è meno assurdo del liberalismo assoluto. Imperocchè dove quello fondavasi nell'ateismo, esso fondasi nel dualismo; esso nega l'unità di Dio, benchè non ne neghi l'esistenza. Ciò fu sapientemente notato da Papa Bonifazio VIII nella sua celebre bolla Unam Sanctam Ecclesiam, là dove egli rimprovera ai fautori dell'assoluta autonomia dello Stato, il supporre che due sieno i supremi Principii del mondo. Il perchè siffatta genia di liberali potrebbe acconciamente designarsi col nome di novelli Manichei.
Certamente se altri è il creatore della Chiesa, altri il creator dello Stato, e l'uomo dall'un Principio riceve l'ordinamento alla vita civile, dall'altro alla vita religiosa; niente di più naturale che i due fini siano disparati tra loro, e conseguentemente disparati i due poteri, che ad essi dirigono. Soltanto, poichè anche in tale ipotesi identico sarebbe il subbietto sottoposto all'una e all'altra direzione; per evitare il contrasto di due opposti impulsi, che rendessero impossibile il movimento, potrebbe introdursi un accordo, liberamente fatto, tra i due motori, per via di scambievoli concessioni; presso a poco in quel modo, che nel Manicheismo alcuni opinarono essere intervenuto tra il Principio buono ed il Principio cattivo una specie di trattato, acciocchè gli effetti dell'uno non distruggessero interamente gli effetti dell'altro. All'opposto se uno è il Principio di tutto il creato, come c'insegna la ragione e la fede, Unus est altissimus Creator omnipotens [4], la posizione liberalesca, comechè moderata, non può sussistere. Se uno è Dio, uno è l'ordinamento dell'universo, uno il fine supremo della creazione. Questo fine non può essere altro che il più sublime, rispetto all'ordinante, il più benefico, rispetto agli ordinati; il che non può essere altro se non la glorificazione di Dio, e la beatitudine eterna delle razionali creature. Questo appunto è il fine, a cui guida la Chiesa. La Chiesa dunque non solamente è società perfetta (non potendo non essere perfetta quella società che guida al perfettissimo dei beni); ma ancora è società tra tutte suprema, perchè il suo fine è supremo. Al detto fine convien che sia subordinato ogni altro fine inferiore; se è vero che i beni secondarii, rispetto al sommo, han ragione di mezzi, e che i mezzi son subordinati al fine. Da ciò segue con irrepugnabile evidenza che ogni altra società, quale che sia, dee sottostare alla Chiesa, e da lei ricevere norma ed indirizzo. Per quanto dunque voglia magnificarsi lo Stato, per quanto se ne esageri l'eccellenza; la sua subordinazione alla Chiesa non può schivarsi: se pur non vogliasi trasformare esso Stato in Chiesa, ed elevare a Pontefice il governante politico. Ma per fare ciò, bisognerebbe accettare la storpiatura dell'eresia anglicana o dello scisma russo, e mostrare che nel Vangelo non a Pietro ma a Tiberio furon dirette quelle parole di Cristo: Pasci le mie pecorelle; Te costituisco fondamento della mia Chiesa.
Nè vale il ricorrere alla diversità degli ordini: temporale e spirituale. Cotesta diversità non può importare altro per parte dello Stato, che un'indipendenza relativa; ma in niun modo un'indipendenza assoluta. Essa può far solamente che nelle cose di per sè e direttamente riferibili al solo benessere della vita presente (come la finanza, l'esercito, il commercio, la pace tra i cittadini, le relazioni con altri popoli) lo Stato operi di moto proprio e da potere supremo. Ma in niuna guisa l'anzidetta diversità può fare che nelle cose direttamente e di per sè riguardanti pietà, giustizia, costumi, lo Stato non debba conformarsi alle norme dettate dalla Chiesa; e che in quelle cose altresì, le quali dianzi dicemmo di sua mera pertinenza, non abbia l'obbligo negativo di nulla fare che nuoca alla moralità dei sudditi e all'ossequio dovuto a Dio. Dove avvenisse il contrario, egli è chiaro aver la Chiesa il diritto di correggere ed annullare quanto ingiustamente e immoralmente si fosse disposto nell'ordine eziandio temporale: essendo ciò assolutamente richiesto, acciocchè i due ordini armonizzino tra loro nel muovere l'uno ed identico corpo morale, l'una ed identica società, sottoposta ad entrambi.
Cotesta dipendenza, si dice, arrecherebbe confusione; è questo lo spauracchio, di cui si armano gli avversarii. Ma per mostrare quant'esso sia puerile, non è mestieri di lungo discorso. Si confonde forse la società domestica colla civile, perchè, quantunque autonoma e indipendente nel proprio giro, si fa nondimeno a quella subordinata? Eppure i due fini sono assai più propinqui tra loro, per essere ambidue contenuti nell'ordine naturale. La confusione tra due termini diversi non può aver luogo, senza snaturamento dell'uno e conversione nella natura dell'altro. Come appunto per confondere l'anima col corpo, bisogna rendere o materiale la prima, o spirituale il secondo. Di che apparisce che seguirebbe bensì confusione tra Stato e Chiesa, se la Chiesa si subordinasse allo Stato; non potendo ciò verificarsi, senza togliere alla Chiesa l'essere di soprannaturale, ed abbassarne il fine ai soli interessi della vita presente. Ma in nessun modo risulta confusione dal subordinar lo Stato alla Chiesa. La ragione si è perchè per tal subordinazione non si snatura l'essere di nessuno dei due termini, ma sol si rannodano insieme in virtù di debita relazione. Valga anche qui la similitudine dell'anima e del corpo. Si confonde forse il corpo coll'anima, perchè si subordina all'anima? Allora ciò avverrebbe, quando per tal subordinazione il corpo si trasformasse in una funzione dell'anima. E così lo Stato si confonderebbe colla Chiesa, quando la società civile rinunziando a ogni bene terreno si convertisse in un convento di frati, e al potere politico non si lasciasse altro ufficio, che di eseguire gli ordini del proprio Vescovo. Ma è questo ciò che da noi si propugna? Anzi, è questa un'ipotesi tra le possibili ad avverarsi? Lasciando stare che contro un tal pervertimento d'idee ed usurpazione di diritti è guarentigia la santità e la condizione stessa sociale della Chiesa, vi oppone un ostacolo insormontabile la natura stessa dell'uomo. Per quanto s'inculchi di far servire la vita presente al conseguimento dell'avvenire, non accadrà giammai che la società umana, non che peccare in ciò per eccesso, si costituisca generalmente nella debita proporzione; tanta è la tendenza della corrotta nostra natura verso i beni sensibili di quaggiù. Figuratevi se è da temere che tutti si trasformino in cenobiti! Il potere politico poi è d'indole talmente invasiva, che è miracolo se si giunge a contenerlo dall'usurpare l'altrui; tanto è lungi che egli si lasci spogliare del proprio. Ad ogni modo il pericolo dell'abuso non è mai buon argomento ad escludere l'uso, massimamente allorchè un tal uso è imposto dalla natura, e senza di esso il subbietto non può neppure compiere gli atti che gli appartengono.
E così appunto accade nel caso nostro. Lo Stato separato dalla Chiesa non può, come sarebbe suo debito, provvedere al fine stesso della comunanza civile. Egli è costretto a concedere quelle libertà, che noverammo di sopra, ed esse ripugnano grandemente all'idea di società umana e di governante umano. Lo Stato da sè non è giudice in ciò, che riguarda religione. Dunque, separato dalla Chiesa, che sola è costituita da Cristo banditrice infallibile di verità, non può fare altro che concedere libertà di culto. Lo Stato neppure è buon giudice della morale. Dunque, non assistito dalla Chiesa, dee concedere libertà di coscienza e facoltà di seguire qualsiasi dottrina, la quale non dica a prima giunta il contrario di ciò che dettano a ciascun uomo i primi principii della ragione. E a che si appoggerebbe lo Stato, per restringere ulteriormente una siffatta libertà? Forse al lume della scienza e al naturale discorso ? Ma dell'una e dell'altro espositori e maestri, più che i governanti, avrebbero ragione di essere i filosofi. Interrogheremo dunque i filosofi? Ma, oltrechè i filosofi stessi dissentono ben sovente tra loro, chi darebbe ad essi il diritto d'imporre il proprio pensiero alla intelligenza di tutti gli altri? Che a Dio competa di comandare alle menti delle sue creature, questo da niuno potrà negarsi. Che Dio eserciti siffatto diritto, mediante un visibile magistero, da lui stesso costituito ed a cui ha promesso la sua assistenza, acciocchè non cada mai in errore: questo altresì non ha nulla che non sia ragionevole e conformissimo al bisogno del genere umano. Ma che il medesimo diritto venga devoluto ad un semplice uomo, sol perchè è o si crede di essere più dotto degli altri; ciò non si ammetterà da veruno, e molto meno da quelli che a torto o a ragione son persuasi di poter competere con esso lui. Ammessa la separazione dello Stato dalla Chiesa, deve essere libero a ciascun cittadino il fare e dire tutto ciò che gli aggrada, fino al limite in che non si opponga ai primi veri dell'intelletto, e alle prime prescrizioni della sinderesi.
Ma sussiste più allora l'idea di società umana, e di governante umano? Chiunque non ha offesa la mente dai delirii del razionalismo moderno, dee rispondere di no. Imperocchè lo stato sociale è un aiuto dato all'uomo individuo per conseguire la sua destinazione sulla terra, e l'elemento precipuo ed essenziale di tal destinazione è senza dubbio la moralità de' costumi: Virtuosa vita est congregationis humanae finis, dice San Tommaso [5]. E ne assegna per ragione che il medesimo giudizio dee recarsi del fine della moltitudine e del fine di ciascun uomo; non essendo altro la moltitudine, che l'individuo ingrandito per l'unione con gli altri. Idem iudicium oportet esse de fine totius multitudinis et unius [6]. Se dunque il fine dell'uomo individuo è la virtù, non altro che la virtù può essere il fine precipuo della moltitudine associata. Or come provvede a un tal fine il governante, che tranne i primitivi principii del vero e dell'onestà naturale, in tutto il resto lascia libero il freno ad ogni capestreria di dottrina, ad ogni disordine di azione? Molto più poi cresce un tale inconveniente, accettando nella sua interezza il sistema liberalesco, nel quale si stabilisce che l'ordine morale è al tutto fuori la cura del governante; e che a questo non appartiene se non la cura dell'ordine materiale. Il governante in tal sistema dovrebbe dimenticar d'esser uomo, e di avere a reggere una comunanza di uomini; non essendo possibile segregare nell'uomo l'ordine materiale dal suo riferimento all'ordine morale, siccome è impossibile segregare in lui, finchè resta uomo, il corpo dall'anima ragionevole.
Lo stesso dicasi dell'idea di società. Essa importa congiungimento di sforzi, per l'asseguimento del comun fine. Or come l'azione esterna si esegue sotto l'impero della libera volontà, così la libera volontà è mossa dal bene che le propone l'intelletto. Onde l'unione tra gli uomini non è umana, se, oltre a quella de' corpi non ci sia quella altresì degli spiriti, e all'unità dell'azione non si accompagni l'unità altresì del volere e del sentire. Ma in qual modo è possibile così fatta unità, dove lo stesso sistema tende al disgregamento dei pensieri e degli amori, dando balìa a ciascuno di professare ed inculcare ogni dottrina, e seguire e promuovere ogni tendenza? E ben l'esperienza il dimostra con l'evidenza del fatto; perciocchè ognun vede come negli Stati, costituiti secondo la teorica liberalesca, i dispareri, le dissensioni, i partiti, gli odii, dividono talmente una stessa nazione, uno stesso popolo, che di loro ben può dirsi che
. . . . . . . . . . l'un l'altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra [7].
Basti guardare un Parlamento, dove pur si trova la crema del liberalismo, per vedere la concordia che quella teorica è capace di produrre. E dove ne' Parlamenti la manifestazione del disaccordo per lo più si limita alla sola violenza delle parole; nelle moltitudini, educate alla liberalesca, trascorre ad atti assai più deplorabili, che spesso convien frenare con sanguinosa repressione. È questa la pace, per cui principalmente è istituita la convivenza civile?
Dirassi che anche nei Governi non liberali si avvera la divisione degli animi. Certamente: ma in essi quella almeno non prorompe nell'esterno ad impigliare gli altri col suo contagio, e ad ogni modo non avviene in forza dello stesso sistema governativo, ma sol per fralezza dell'umana natura. Nei governi liberali è licenziata a diffondersi senza rattento, e nasce dal sistema medesimo, il quale, come vedemmo, è inevitabile sequela della separazione dalla Chiesa.

IV.

Assurdità del concetto, nel senso dei cattolici liberali.

Il vizio radicale dei cattolici liberali è l'incoerenza. Ciò apparisce di per sè stesso dal detto fin qui; giacchè se il liberalismo, inteso anche in senso moderato, si manifesta eterodosso; è certamente solenne contraddizione il volervi aderire, e fare al tempo stesso professione di ortodossia. I cattolici liberali rigettano il manicheismo nella specolazione, ma l'approvano nella pratica; lo rimuovono dalla cagione, ma l'inducono nell'effetto. Sarà bene chiarir la cosa un poco più distesamente.
Ed in prima apparisce la costoro incoerenza dal voler prescindere dai principii, che essi, quasi diremmo, per istrazio chiamano astratti. Ma questi principii sono veri, sì o no? Negare che sieno veri non possono, senza rinunziare ad essere cattolici; giacchè quelli al trar de' conti si riducono a verità di fede, quali sono che l'ordine naturale dee sottostare all'ordine soprannaturale, la natura alla grazia, la vita presente all'avvenire. E poichè queste verità non sono tali pel solo uomo individuo, ma per l'uomo in qualunque stato si ritrovi; ognun vede la conseguenza, che ne risulta, per ciò che riguarda l'ordine sociale. I liberali cattolici (almeno i più) concedono tal conseguenza, per sè riguardata; sol ne ricusano l'applicazione. Ma Dio buono! e non sono esse verità pratiche, cioè ordinate a dirigere l'operare? E una verità ordinata a dirigere l'operare, può, senza incoerenza, ammettersi, e non volere che scenda di fatto a dirigerlo?
Le circostanze, ripigliano, lo divietano. Questo è un altro discorso. Se tal considerazione è quella, che vi muove, tenetevi nei limiti della medesima. Distinguete, come fu detto con felice formola, la tesi dall'ipotesi. Dite altamente che la colleganza dello Stato colla Chiesa, e quindi l'armonia tra i due poteri, è di per sè necessaria ed imposta dall'ordinamento divino; ma per disgrazia il mondo presente non vuol saperne. Lodate dunque la prima, e deplorate la cecità e la malizia del secondo. Ma voi non fate così. Voi anzi consigliate alla Chiesa che da sè stessa rompa ogni legame collo Stato, non pretenda sopra di lui veruna ingerenza, si ritiri nella pura cerchia dell'ordine spirituale; recandone per ragione, che ciò è per riuscire più utile ad essa Chiesa.
Nel che noi scorgiamo nuova contraddizione. Imperocchè come può riuscire più utile il fare l'opposto di ciò, che importa l'ordinamento divino? O bisogna negare che l'accordo dello Stato colla Chiesa sia inteso da Dio (nel qual caso saremmo da capo alla negazion de' principii); o bisogna sostenere che l'attuazione appunto di un tale ordinamento riesce più utile, come allo Stato, così ancora alla Chiesa; e il non poterla in date congiunture ottenere, è un male, che bisogna compiangere, ma non mai lodare e molto meno consigliare.
Ma quante pressure e quanti aggravii non ha sofferto la Chiesa dai Principi protettori! Si ricordino le lotte cogl'Imperatori di Bisanzio, coi Cesari di Germania, coi Re di Francia, di Spagna, e va dicendo. Benissimo; è questo il luogo comune, a cui assiduamente si ricorre. Ma esso che prova? Prova soltanto che l'uomo colla sua perversità e malizia si sforza di corrompere l'opera di Dio: ma, non perchè l'uomo si attenta a corromperla, convien disconoscerla o abbandonarla. In primo luogo l'argomento obbiettato pecca per incompiuta enumerazione; giacchè esso guarda al solo lato cattivo e chiude l'occhio al lato buono; riferisce i soli mali, che si mescolavano al bene, ed omette i molti beni, che pure restavano e soprabbondavano al male. Se la protezione dei Principi tralignava talvolta in oppressione, il più sovente riusciva di presidio e di aiuto alla Chiesa. In secondo luogo l'argomento pecca per difetto di comparazione, imperocchè se si ragguagliano le angarie, che quei Principi fecero soffrire alla Chiesa, con quelle che le fanno ora soffrire i liberali, non sappiamo da qual parte propenderà la bilancia. Lasciando stare l'Italia, dove il sistema liberale non è il moderato ma l'assoluto; non ci ha forse qualche altro paese, dove il liberalismo, impiantato da una maggioranza cattolica, sembrava esser guernito di tutti que' temperamenti e di tutte quelle cautele, che ne dovessero assicurare i pretesi beneficii; e nondimeno la Chiesa ne sta riportando ferite sì gravi, che non sappiamo dove esse andranno a parare in un tempo più o meno lontano? Infine l'argomento pecca per falsa illazione. Conciossiachè dall'introdursi l'abuso dell'uomo in un sistema, di per sè necessario e prescritto da Dio, segue soltanto che dee con ogni studio darsi opera a sceverare il prezioso dal vile, non già a rigettarli entrambi, volgendosi a un altro sistema, di per sè reo e contrario agl'intendimenti divini.
Questo, dicono in fine, quand'anche fosse desiderabile, non è più possibile: il secolo vi ripugna; e l'ostinarsi a difenderlo non avrebbe altro effetto, che d'inasprire vie peggio gli animi, e nimicarli maggiormente alla Chiesa. Più prudente sarà fare, come suol dirsi, della necessità virtù; ed accettando uno stato di cose, che non è in nostro potere rimuovere, studiarci d'impedire che non precipiti a totale rovina. Ecco l'Achille degli avversarii. Senonchè ciò dicendo, i cattolici liberali incorrono, al veder nostro, la massima incoerenza, perchè escono al tutto fuori dello stato della quistione. Qui non si tratta, se posta la contumacia del mondo debbasi usar pazienza e procurar di cavarne il miglior partito possibile; ma trattasi se convenga approvare una tal condizione sociale, e promuoverla coi nostri sforzi. Anche nei tre primi secoli di persecuzione fu forza alla Chiesa accomodarsi come potè; ma era per questo da encomiare quello stato di cose, e dar opera a perpetuarlo? Sappiamo bene che il mondo è infermo e corre furiosamente alla propria rovina. Ma per questo appunto convien curarlo e colla persuasione e coll'opera indurlo a far senno. Secondarne in quella vece le voglie e palparne i matti intendimenti, è tradirlo. Che direste di un medico, il quale per non asperare il malato, ne lasciasse inciprignire le piaghe? Nol condannereste di pietà sconsigliata e crudele? E se l'anzidetto medico sostenesse per soprassello che un tal tenore benchè mortifero, secondo le regole dell'arte, è nondimeno salutar nella pratica, attesa la volontà del malato; nol riputereste degno d'esser chiuso in un manicomio?

NOTE:

[1] Non pro mundo rogo. Ioan. XVII, 9.
[2] Ioan. III, 18.
[3] Audite ergo, reges, et intelligite; discite, iudices finium terrae. Praebete aures, vos, qui continetis multitudines et placetis vobis in turbis nationum.
Quoniam data est a Domino potestas vobis, et virtus ab Altissimo; qui interrogabit opera vestra, et cogitationes scrutabitur.
Quoniam cum essetis ministri regni illius, non recte iudicastis, nec custodistis legem iustitiae, neque secundum voluntatem Dei ambulastis.
Horrende et cito apparebit vobis, quoniam iudicium durissimum his, qui praesunt, fiet.
Exiguo enim conceditur misericordia; potentes autent potenter tormenta patientur. Sap. c. VI.
[4] Eccl. I. 8.
[5] De Regimine Principum, XIV.
[6] Ivi, luogo citato.
[7] Dante, Purgatorio, VI.