Bologna 1859
di Vittorio
Messori
tratto da Le cose
della vita, San Paolo, Milano 1995, p. 322.
Scorro una di quelle
pubblicazioni presentate come di "incontro" tra cristianesimo ed ebraismo,
mentre spesso si risolvono in un affannarsi di cristiani di oggi per attribuire
ai cristiani di ieri tutte le infamie antisemite della storia. Già l'osservammo,
qui: proprio quelli che più dicono di avere a cuore la giustizia si preoccupano
solo dei loro contemporanei, dimenticando che c'è un dovere di giustizia anche
verso coloro che ci hanno preceduti. Occorre essere giusti non solo verso i
vivi, ma anche verso i morti: anzi, più che mai verso questi, perché non possono
difendersi; e soprattutto se si tratta di fratelli in una fede della quale non
solo noi (checché ne pensi la nostra risibile superbia di moderni) abbiamo
capito da poco le esigenze. Nella pubblicazione cui mi riferisco, dei cattolici
inveiscono tra l'altro contro la Chiesa ottocentesca che avrebbe compiuto
scelleratezze come, testualmente, "il sequestro del figlio agli sventurati
coniugi Mortara". Si dice che si tratta di una ignominia, per la quale si chiede
perdono, promettendo che questo non potrà più avvenire. Ma allora, proprio per
amore di verità e, dunque di giustizia, andiamo a vedere che cosa fu esattamente
questo "caso Mortara" che riempì le gazzette ottocentesche di mezzo mondo e
provocò addirittura passi diplomatici e interventi infiammati nei parlamenti
d'Europa e delle Americhe. Ora l'episodio sembra dimenticato, ma di tanto in
tanto càpita di ritrovarlo evocato. Non sarà dunque inutile informare i lettori
dei dati corretti di un "caso" doloroso e drammatico, ma con un finale a
sorpresa che - guarda caso - non è mai citato dagli accusatori.
Girolamo Mortara
Levi, ricco mercante ebreo di Bologna (allora negli Stati pontifici) ebbe
nel 1851 dalla moglie, anch'essa ebrea, un figlio cui fu dato il nome di
Edgardo. A undici mesi il bambino fu colpito da una gravissima malattia, per cui
fu dato per ormai spacciato. Credendo che la morte fosse questione di ore, una
domestica cattolica al servizio dei Mortara amministrò di nascosto (e di sua
iniziativa, senza consultare alcuno) il battesimo al piccolo. Il quale ebbe però
una sorprendente ripresa e tornò alla salute. Nel 1858 - quando Edgardo aveva 7
anni - una donna si presentò spontaneamente all'autorità ecclesiastica di
Bologna per informare del caso. L'arcivescovo fece svolgere un'inchiesta
minuziosa che constatò che il battesimo era sì illecito perché
amministrato senza il consenso dei genitori, ma era valido, secondo la
teologia e il diritto canonico. Dunque, con quel "segno oggettivo" che è il
battesimo, il piccolo Edgardo era stato inserito - mistericamente ma realmente -
nella comunità cristiana. Così, il bambino fu tolto ai genitori (cui fu data
peraltro ogni facoltà di visitarlo quando volessero) e, a spese del papa stesso
Pio IX, fu ospitato in un collegio romano. Gli ebrei piemontesi denunciarono il
caso all'opinione pubblica prima interna e poi internazionale. La protesta,
violentissima, partì dal Regno di Sardegna, perché il caso faceva molto comodo
alla polemica contro il potere temporale dei papi: "Fino a quando i preti
avranno responsabilità di governo saranno possibili barbarie del
genere".
Anche fuori d'Italia
il caso, come accennammo, ebbe risonanze immense e gli ambasciatori facevano
pressione su Pio IX, il quale, pur confessando la sua sofferenza, rispondeva di
non poter agire diversamente, rimarcando tra l'altro che il caso increscioso
aveva avuto origine da una illegalità dei Mortara. In effetti, le leggi dello
Stato pontificio proibivano agli ebrei di assumere personale di servizio
cattolico: e non certo (come sarà per nazisti e fascisti) per questioni
"razziali", ma perché l'esperienza aveva dimostrato che in simili casi potevano
nascere non solo pericoli per la fede dei domestici cristiani, ma anche
situazioni drammatiche come quella verificatasi appunto a Bologna. Conformandosi
al pensiero dei Padri, e poi dì san Tommaso, la Chiesa aveva sempre proibito che
i figli minorenni di ebrei fossero battezzati senza il consenso dei genitori:
l'autorità paterna (quale che sia la fede dei genitori) è un principio del
diritto naturale che è tra i capisaldi del sistema cattolico. Ma il caso Mortara
investiva il diritto soprannaturale: il battesimo validamente amministrato rende
"cristiani" ex opere operato, imprime il carattere indelebile di "figlio
della Chiesa". Non è la fede dei genitori, è la fede della Chiesa che - nel
battesimo - è imputata al bambino. Dunque, poiché valida anche se
illecita, l'azione di quella domestica (convinta che il piccolo stesse
per morire) rendeva la Chiesa stessa come prigioniera del suo dovere di non
respingere quel suo figlio inaspettato e di assicurargli un'educazione
cristiana. Proprio per evitare questi casi, i papi avevano moltiplicato le
condanne contro "battezzatori" irresponsabili e avevano preso
cautele.
Nel 1860, Bologna
era annessa al Piemonte con un colpo di mano e il colonnello della
gendarmeria pontificia che aveva materialmente tolto Edgardo ai genitori veniva
arrestato e tratto in giudizio. Ma il piccolo era ormai a Roma e non sì poteva
dunque liberarlo. L'occasione venne dieci anni dopo, con la breccia del venti
settembre. Il giovane Mortara aveva ormai 19 anni, ma ai "piemontesi"
precipitatisi nel convento dove pensavano fosse prigioniero, toccava la
delusione dì sentirlo affermare che non solo non intendeva rinunciare alla sua
vita cristiana, ma aveva deciso di farsi religioso nei Canonici Regolari
Lateranensi. Risultò anche che due anni prima le autorità pontificie intendevano
rimandarlo presso la sua famiglia, avendo ormai conosciuto bene il cristianesimo
e potendo dunque scegliere liberamente. Ma era stato lui stesso a rifiutare.
Anzi, proprio nella Roma dove i "liberali" che volevano prendere le sue difese
sopprimevano le congregazioni religiose e i monasteri erano trasformati in
stalle, caserme, prigioni, Edgardo Mortara (che aveva aggiunto al suo nome
quello di Pio, in omaggio al papa che lo aveva fatto allevare nella Chiesa)
sceglieva liberamente la via del sacerdozio. Ancor più: la sua insofferenza
verso i "liberatori" fu tale che rifiutò ostinatamente di rispondere alla
chiamata di leva nell'esercito italiano. I superiori dovettero farlo riparare
all'estero, dove divenne apprezzato insegnante dì teologia e famoso predicatore.
In grado di parlare in nove lingue moderne, fu instancabile annunciatore del
vangelo in molti Paesi, tanto che alla sua morte qualcuno propose il processo di
beatificazione. In particolare, dedicò i suoi sforzi alla conversione degli
ebrei. In occasione del cinquantesimo anniversario della sua ordinazione
sacerdotale, nel 1933, indirizzò proprio al popolo nel quale era nato un appello
perché riconoscesse la verità del vangelo, dove diceva di avere trovato ciò che
la sua anima religiosa di ebreo andava cercando. Morì a quasi novant'anni, nel
1940, in un monastero del Belgio. Sin sul letto di morte ebbe espressioni di
tenerezza per i fratelli in Abramo e di ansia perché tardava il loro ingresso
nella Chiesa.
Storia drammatica e
singolare, dunque, ma con un lieto fine, malgrado tutto. Una di quelle
vicende in cui sembra di vedere all'opera un Dio che "sa scrivere dritto anche
su righe storte". Non sarà inutile, per finire, ricordare le parole di Giacomo
Martina, storico attento e pacato: "Mentre alcuni cattolici e quasi tutti i
protestanti si stracciavano le vesti per la ferma volontà di Pio IX di educare
nella religione cattolica chi vi era stato battezzato, nessuno protestava per
l'aperta e violenta coazione nei territori polacchi soggetti alla Russia (ma
anche in Inghilterra e nei Paesi scandinavi) a danno della libertà religiosa dei
cattolici".