venerdì 27 luglio 2012

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 39°): Scontri durante la ritirata verso il Garigliano blocco navale francese e sua fine l'esercito borbonico ripiega a Mola di Gaeta

Fortezza di Gaeta

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura



Da Mola al Borgo di Gaeta

Dopo tanti ordini e contrordini de' duci napoletani, che erano più micidiali de' cannoni di Persano, meno qualche Battaglione, gli altri fecero quella via che meglio lor convenisse: di modo che delle due brigate di Mola, buon numero marciò per Itri, il resto pel Borgo di Gaeta, e quando si giunse a Montesecco, ch'è un piano al di là del Borgo, proprio sotto la Piazza, cessarono le offese della flotta sarda. Persano divenne prudente e prese il largo. La flotta francese impediva il blocco di Gaeta.
Re Francesco volea ripigliar Mola con doppio assalto, cioè dalla parte del Borgo e d'Itri, però considerando che dopo la vittoria non avrebbe potuto sostenersi in quella posizione per mancanza di flotta, pensò mandare il resto dell'esercito ad Itri.
Nelle vicinanze di Gaeta erano dieci battaglioni ed i cacciatori a cavallo, due batterie, e la brigata estera di Mortillet. Tutta quella gente era ruinosa per la difesa della Piazza; tante bocche oltre di quelle della guarnigione della fortezza, avrebbero accelerata una capitolazione.
I generali facevano in apparenza disegni di guerra, ma in realtà non aveano volontà di battersi; e quindi si accordavano facilmente quando si ragionava di finirla. Il Re risolvette mandare ad Itri quanti soldati si potessero per la via di Sperlonga che costeggia il mare. Mortillet con la sua brigata fu il primo ad andarvi, e giunse al luogo destinato senza ostacoli. Doveano seguirlo altri Battaglioni, ed anche gli animali della batteria di campo ritratta sotto Gaeta: ma i capi non vollero far più nulla; partirono e si ritirarono immediatamente, dicendo che le vie erano impraticabili, mentre quelle strade aveale percorse Mortillet ore prima.
La truppa che si ritirò ad Itri, e quella che ivi si trovava pria del bombardamento di Mola, era di 16686 soldati, 641 uffiziali, e 3551 animali da tiro e da sella. Per ragione di anzianità il comando di que' soldati se l'ebbe il brigadiere Marchese Ruggiero, uomo devotissimo al Re, ma senza energia e talenti militari quanti se ne richiedevano in quelle difficili circostanze. Egli trovavasi al ritiro, ed è gran lode per lui che alle prime minacce di guerra si offerse servire il Re e la patria. Il Re aveagli spedito ad Itri il seguente ordine: «Se sarete assalito dal nemico, resistete, se no 7potete, ripiegate per Fondi sopra Terracina.Ruggiero era uno di que' generali che si negò marciare per gli Abruzzi, onde dar di rovescio a' piemontesi in Mola; ed invece, avuto la notte del 4 novembre un ordine del ministro della guerra scritto con la matita, col quale gli si ingiungeva marciare con la truppa a' suoi ordini per Terracina, l'indomani per la via di Fondi eseguì
l'ordine ministeriale, senza che ancora avesse veduto il nemico in que' luoghi.
Bisogna dire che Ruggiero si cooperò a restaurare la disciplina de' suoi dipendenti, per quanto le circostanze glielo permettessero. La brigata che era ad Isoletta inchiodò i cannoni del castello, gittò le munizioni nel fiume, ed entrò in Ceprano nello Stato Pontificio.
La Grange a S. Germano comandava una brigata, e si preparava a combatterne un'altra piemontese che si avanzava da Mignano. Per ordine di Ruggiero fu costretto a retrocedere, e passare anch'egli ed i suoi volontarii nello Stato del Papa il 6 novembre. La Grange scrisse al Re una lettera dolendosi della mala condotta militare de' Generali napoletani, che aveano rovinato l'esercito senza che avessero saputo tentare l'ultima prova: era questa la convinzione di tutti coloro che avessero mente e cuore.
Francesco II, quando seppe la ritirata intempestiva di Ruggiero negli Stati Pontificii, fece delle pratiche presso il Papa e presso Goyon generale in capo colà de' soldati francesi, per ottenere che la truppa napoletana rimanesse in Terracina di guarnigione sino a che si decidesse quello che fosse necessario e conveniente. né il Papa né Goyon trovarono ostacoli a quella domanda! Ma Goyon non potea risolversi senza permesso di Napoleone III, ed avendolo interpellato, quel sovrano, che si era atteggiato a protettore di Francesco II, rispose subito, ed ordinò a Goyon: «Di non permettere che l'esercito napoletano entrasse nello Stato Pontificio, e, se vi fosse entrato, fargli depositare le armi, e non pensar mai più a restituirle.»
La mattina del 6 novembre comparvero sotto Terracina sette legni da guerra sardi con truppa da sbarco. La fregata Borbone (detta poi Garibaldi), postasi col fianco verso quella città, stava con le altre navi pronta a fulminare i soldati napoletani, ed i cittadini, ove quelli non depositassero le armi e si dessero prigionieri. Gli abitanti di Terracina pregarono i soldati e i duci napoletani che andassero via, e ripassassero la vicina frontiera del Regno.
Già si sapea che dodici mila piemontesi comandati da de Sonnaz erano per giungere, e quindi lo stato de' Napoletani essere molto compromesso; ciò nulla meno varii distinti uffiziali e quasi tutti i soldati erano determinati combattere una lotta disperata contro i Piemontesi, o per lo meno gittarsi ne' vicini Abruzzi. In quella giunge a Ruggiero una manifestazione del console di Terracina che si trovava a Roma, con la quale gli dicea che i soldati napoletani avrebbero messo in grande imbarazzo il Governo del Papa se rimanessero ancora armati negli Stati Pontificii. Quel console fece pure noto a Ruggiero, che ove mai non si depositassero le armi sino a quattro ore dopo mezzodì del sei, i Francesi marcerebbero contro i Napoletani. Poveri Napoletani, messi tra Erode e Pilato per causa de' futuri fratelli!
Goyon desiderava che la armi napoletane si depositassero nelle mani dei Francesi, ed a tale scopo mandò un suo capitano di Stato Maggiore, il quale tra le altre cose disse a Ruggiero che i Francesi rappresentavano il Governo Pontificio, e che a tempo opportuno avrebbero potuto restituire quelle armi: ed ove mai i Napoletani avessero voluto
consegnarle a' Piemontesi era necessario venire ad una capitolazione.
Ruggiero mandò a bordo della flotta sarda, comandata dal conte Albini, due parlamentarii, cioè il tenentecolonnello Armenio e il capitano Rosenheim per conchiudere la capitolazione sulle seguenti basi:«Armistizio di poche ore affinchè un uffiziale si recasse a Gaeta e prendesse gli ordini del Re. Cessione a' Piemontesi di tutto il materiale di guerra ed armi, eccetto quelle degli uffiziali. Facoltà ai soldati di ritornar liberi alle loro case, dando loro due mesi di paga. Gli uffiziali liberi di manifestare in due mesi se volessero servire sotto la bandiera sabauda, o ritirarsi con la pensione a loro dovuta secondo le leggi del Regno.»
Il comandante la squadra, Albini, inclinava a quella capitolazione, e disse che andava a prendere gli ordini del generale in capo Cialdini. Nel frattempo però giunse il borioso e poco cortese de Sonnaz col suo aiutante di campo, ed avendo osservato che Ruggiero era disposto a capitolare, rigettò superbamente l'eque pretensioni degli sventurati Napoletani.
Fu allora che successero fatti che avrebbero potuto degenerare in massacri. De Sonnaz trovavasi in una locanda di Terracina, circondato da molti uffiziali napoletani. Fatto chiamare a terra il Conte Albini comandante la flotta sarda, cominciò a parlare di bombe e di esterminio contro i Napolitani, additando la flotta che era vicinissima alla spiaggia. De Sonnaz è savoiardo, e mentre si pavoneggiava da italianissimo non sapea parlare l'italiano! ma invece parlava una lingua bastarda che facea ridere gli astanti. Dopo che minacciò e vituperò i duci e gli uffiziali napoletani, conchiuse: avete a consegnar le armi ad ogni modo, o a' francesi o a noi; e credo che nessuno italiano vorrà cederle piuttosto allo straniero che a' fratelli.
Quel savoiardo chiamava fratelli coloro che già avea vituperati...! De Sonnaz pretendea pure che la brigata esterna di Mortillet restasse prigioniera. Il generale di cavalleria de Liguori fece di tutto per fargli sentire la convenienza e la necessità di capitolare sulle basi presentate ad Albini; ma de Sonnaz sbizzarriva ed insultava superbamente. Fu allora che il capitano dello Stato Maggiore Cesare Salerni risposegli: i Napoletani cedono le armi ad una grande nazione qual'è la Francia, dal
Piemonte non abbiamo avuto che inganni e bombe Queste parole accesero di più l'ira di de Sonnaz, il quale sapendosi inviolabile per dritto delle genti, dimenticandosi di essere italianissimo, cominciò a minacciare ed insultare veri italiani in lingua francese, e tra gli altri insulti osò dire: «Lâches! vous n'étes pas italiens: je vous cracherais sur la figure!.. ." (vili! voi non siete italiani: io vi sputerò sul viso!) Non proseguì, perché un grido di minaccia terribile si alzò in tutta quella sala, e Salerno sfidollo, ma la sua voce andò confusa tra le imprecazioni di rabbia e di minacce di coloro che avrebbero voluto buttarlo da una finestra. Il generale de Liguori lo salvò traendolo in una stanza ove si chiuse pure col comandante Albini. Dopo alcune spiegazioni, de Sonnaz uscì dalla camera calmo abbastanza per annunziare che gli uffiziali avrebbero gradi uguali e paga maggiore nell'esercito italiano se avessero voluto capitolare; ma tutti risposero che non voleano cosa alcuna da chi li avea sì bassamente insultati. In un attimo furono tutti in mezzo a' soldati, fecero suonare le trombe,
e tutti chi a piedi chi a cavallo presero la via di Roma. Il de Sonnaz, com'è sempre costui,e di simile gente, vedendo che i Napoletani non erano abbat tuti dall'immeritata loro sventura, cercò con modeste e melate parole trattenerne qualcuno. Il tenente degli usseri Raffaele Echanizt gli rispose parole dignitose ed amare, che valsero una eloquente profezia
Quella scena poco prudente e decorosa, alla presenza del capitano francese Mammony, che avea intesi gl'insulti di de Sonnaz, si sarebbe potuta evitare, se i duci napoletani non avessero avuta sempre la manìa di capitolare. Invece di mandar parlamentari, avrebbero dovuto fare quello che poi fecero ad unanimità; cioè non avendo voluto marciare verso i vicini Abruzzi, secondo il desiderio del Re, poteano determinarsi sin da principio a prendere la via di Roma, e consegnare le armi colà a' francesi, come dipoi avvenne. I duci napoletani, avendo conosciuto qual'uomo era il de Sonnaz, per averne avute altre prove, doveano aspettarsi da costui ogni ingenerosa azione.
Intanto il de Sonnaz, a causa della sua burbanza e scortesia, fece perdere all'esercito piemontese tutto il materiale da guerra dell'esercito napoletano, le armi e gli animali, che tra muli e cavalli erano 3551!
I Napoletani che marciarono verso Velletri erano tutti affamati e stanchi per le patite fatiche e gravi sventure; lontani dalla patria, con l'animo affranto s'inoltravano in paese amico sì, ma dominato da Napoleone III, vile e traditore, causa principale di tutti que' rovesci ed immeritate umiliazioni.
Essi andavano a depositare le armi nelle mani del principale nemico del Re e del Regno di Napoli, né sapeano qual sarebbe stata la propria sorte, quella delle loro famiglie, del Re e della patria!
Giunti a Velletri, ebbero buona accoglienza dal generale francese Riduel: i Francesi perché prodi sono sempre sensibili al valore disgraziato. I Napoletani si ebbero vitto per satollarsi e fuoco per riscaldarsi; essi modello di fedeltà, di coraggio, e di abnegazione, depositarono le armi l'8 novembre, e furono divisi in diversi paesi dello Stato Romano. I duci francesi lasciarono a que' soldati dodici fucili per ciascun corpo, affinchè custodissero quella bandiera che da prodi aveano tanto bene difesa. Eppure que' valorosi disarmati, umiliati da' vili settarii, stettero fermi ai loro posti, e si contennero più moderati e più ubbidienti a' loro superiori. Quantunque senz'armi, faceano regolarmente la guardia, rispondendo puntualmente all'appello, alla rassegna, e non mancarono mai alla Messa festiva, come in tempo di regolare guarnigione.
Però, dopo tanti strapazzi e sventure, non pochi di que' soldati furono assaliti da febbri micidiali, e sarebbero tutti morti, se la carità del S. Padre e di tanti privati non l'avesse soccorsi. Di tanti fatti di simili genere mi è caro rammentare un solo. Quella truppa che trovavasi in Albano era la più vessata dalle febbri, ed era stata bene accolta ed ospitata da que' buoni Albanesi.
Trovavasi allora in Albano il Principe Scotti, Milanese, con la moglie, era costei nipote al generale Giulay; essi trovavansi colà a causa delle persecuzioni rivoluzionarie scatenate contro quella illustre coppia.
Il Principe, cattolico fervente, e quindi buono e caritatevole, volle soccorrere in tutti i modi i soldati ammalati. E non contento di dar biancheria, danaro, e duecento zuppe al giorno, fondò un ospedaletto con sessanta letti, mettendovi direttore il chirurgo Achille Corcione del 13° Cacciatori. Ogni mattina quell'ottimo Principe milanese assisteva alla visita degli ammalati.
Che dir poi della Principessa Scotti? Ben disse l'Astigiano: «E tu non sai che in cor di donna la pietà si desta? «E quando questa pietà è sorretta ed informata dalla religione cattolica, tocca il sublime! La Principessa Scotti era il vero tipo di quelle donne cattoliche tanto maravigliosamente descritte dall'illustre Siciliano, Padre Gioacchino Ventura, Teatino.
Quell'ammirabile signora, oltre ai soccorsi in danaro che somministrava del suo particolare peculio agli ammalati, serviva costoro da vera sorella di carità, sprezzando il contagio, e sottoponendosi ad ogni umile servizio, fosse anco di nausea e di disgusto! Non volea essere supplita; e quando le si facea osservare che non convenivano certi servizii ad una gran dama, essa umilmente rispondea:
Il danaro che spendo per questi miei fratelli infelici in nulla m'incomoda, e niente mi costa; si è per ciò che voglio sottomettermi a questi servizii, pe' quali spero misericordia dal sommo Iddio, e qualche merito per l'altra vita.
Siccome il principe e la consorte aveano data tutta la loro biancheria agli ammalati, era commovente, ed insieme ridevole, vedere soldati ammalati con camicie di tela battista e da donna!
Illustre coppia prediletta dal Signore, anche voi soffriste allora l'esilio! Gli uomini, pur volendolo, non potrebbero ricompensare la vostra carità e le vostre non comuni virtù: ma vi è Colui lassù, che tutto compensa! A voi il supremo giudice, nel giorno del tremendo universale giudizio non farà certo il terribile rimprovero: Era nudo e non mi deste un abito per coprire la mia nudità - Era affamato e non mi deste da mangiare - Era ammalato e non mi soccorreste ecc.- Oh siate benedetti in eterno!
La carità dei coniugi Scotti è un amaro rimprovero per parecchie famiglie napoletane allora emigrate in Roma; e certune, benchè ricche, non soccorsero i connazionali soldati: esse invece pensavano i a divertirsi per togliersi alla noia dell'esilio: e solo perché dimoranti in Roma han creduto e credono ancora, che abbiano acquistati grandi meriti verso il Re, ed anche verso Dio!
Il Re fece vendere tutti gli animali che servivano all'artiglieria e alla cavalleria di quella disgraziata truppa che passò nello Stato pontificio; della somma ricavata fece ultimo dono a que' fedeli e prodi soldati; e il 26 dicembre li congedò definitivamente. Essi rientrarono nel Regno fiduciosi, ma li aspettavano altre sventure!
Il colonnello Zattera conservò la bandiera del 14° di linea, e la consegnò poi al Re in Roma.
Molti uffiziali di artiglieria che faceano parte della truppa che passò nello Stato romano, vollero recarsi in Gaeta per partecipare ai pericoli e alle glorie di quel memorando assedio.
Ecco i nomi di que' valorosi che in tutta la campagna si distinsero, sfidando tutti i pericoli di una guerra estraordinaria, e che poi in Gaeta furono di potente aiuto alla difesa di quella Piazza. Capitani Carlo Corsi, Enrico Afan de Rivera, Giovanni Trombetta, Luigi Palumbo, Enrico Guida, Teofilo Galluppi, Lodovico Quandel, Francesco Lamorgese. Primitenenti Francesco Giardina, Alfonso Timpano, Antonio Lastrucci, Francesco Tedesco, Donato Bruno, Luigi Zara, Pasquale Massarelli, Francesco Paolo Corsi, Luigi Candilea, e l'alfiere Raffaele Alessandro; ed altri uffiziali di diversi corpi vollero pure recarsi a Gaeta.
Molti altri uffiziali, de' quali non pochi bene accetti in Corte, rimasero in Roma a far bella vita; mentre i loro compagni d'armi e il proprio sovrano combatteano gloriosamente le ultime battaglie della patria agonizzante. Oggi quegli uffiziali, che nulla fecero in tutta la campagna, si atteggiano a fedelissimi, ed a gradassi, volendo far credere che di ognuno di essi possa ripetersi: molto egli oprò col senno e colla mano.I piemontesi, inorgogliti della protezione e delle compiacenza napoleoniche, il 14 novembre invasero Velletri. Però non trattandosi più di un Borbone, ma del Papa, il Sire di Francia, che temea qualche commozione tra' cattolici, e perché non credea ancora opportuno il tempo, fu sollecito ordinare a' suoi protetti che uscissero da Velletri; e costoro tanto burbanzosi con gli sventurati Napoletani, ubbidirono immediatamente, restituendo pure settecento scudi presi nelle pubbliche casse di quel comune.
Cavour interpellò umilmente Napoleone III per sapere quali confini si doveano rispettare riguardo agli Stati del Papa, e il Sire francese li segnò da vero padrone, cioè al Sud Velletri, al nord Civitavecchia, ed all'est Castellammare. E così Napoleone III moveva i Piemontesi come marionette, mentre costoro si atteggiavano ad affrancar l'Italia dallo straniero!

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).