venerdì 31 agosto 2012

Il Regno delle Due Sicilie era come la Germania oggi

 
 
SOLE 24ORE

30 giugno 2012



Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania

di

Giuseppe Chiellino





Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia.
Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa.
Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873.
Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio.
La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%).
Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali.
Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla.
Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.


Fonte:

Il Reale Albergo dei poveri






Napoli. Il Real Albergo dei Poveri,

il grande cuore della Città.



di

Tonia Ferraro





Il Real Albergo dei Poveri, chiamato tradizionalmente dai napoletani ‘o serraglio, è la costruzione monumentale più grande di Napoli ed una delle maggiori del ‘700 in tutta l'Europa. Carlo III di Borbone, nel 1751, diede incarico a Ferdinando Fuga di progettare un edificio che ospitasse tutti i poveri del Regno.



L’ingegnere Fuga, nativo di Firenze, ideò una fabbrica mastodontica, articolata in pianta rettangolare, con cinque cortili lineari e la chiesa al centro, con pianta radiale a sei bracci; l'opera rimase incompiuta, per cui l’attuale estensione, che si sviluppa su una superficie di 103mila m², con più di 9 km di corridoi, oltre 430 stanze, una facciata lunga 354 metri (all’incirca cento metri in più del prospetto della Reggia di Caserta), con 20.000 m² di spazi all'aperto, è solo una parte del progetto originale di Fuga che, invece, prevedeva dimensioni ben maggiori: il prospetto doveva estendersi per 600 metri, con una larghezza di 135 metri.



La facciata si presenta lineare, con una scalea all’ingresso principale; sul timpano centrale è posto un orologio e sul fronte è posta l’iscrizione: «Regium Totius Regni Pauperum Hospicium».

La fabbrica non venne mai completata, vuoi per i costi altissimi, vuoi perché Ferdinando IV aveva una visione più lungimirante rispetto al padre: era convinto che quest’immensa opera caritatevole rimanesse fine a se stessa, e preferì dare un taglio più pratico al progetto: come per San Leucio, decise di impiantare un produzione manifatturiera. C’era bisogno di locali grandi dove collocare le macchine tessili; quindi, incaricò della realizzazione l'architetto Francesco Maresca, che eliminò i due grandi cortili laterali, previsti nell’idea originaria, riducendo il numero delle stanze per creare ambienti più ampi; le più grandi misurano 40 metri di lunghezza, e sono larghe ed alte 8 metri.



Nel 1819, comunque, i lavori vennero nuovamente sospesi, questa volta definitivamente.

Nel corso degli anni la fabbrica del Real Albergo dei Poveri ha avuto molteplici destinazioni: nata come Istituzione di Carità, voleva assicurare la sopravvivenza a circa ottomila tra giovani e mendicanti del Regno che non avevano lavoro né fissa dimora: offrire, dunque, un’alternativa alla strada. A partire dal 1802, si volle dare ai diseredati non solo i mezzi di sussistenza ma anche l'insegnamento di un mestiere che li avrebbe potuti rendere autosufficienti.



Nella Napoli “città rinascimentale”, Il Real Albergo dei Poveri divenne, dunque, centro rieducativo per giovani che, recuperati alla vita sociale, ricevevano l’avviamento pratico ai mestieri.

L’Albergo dei Poveri ebbe anche altre funzioni, come scuola per sordomuti; nel 1830 fu scuola di musica con insegnanti di valore come Caravaglios, Tribunale dei Minori, vero e proprio carcere ed archivio. Non perse mai del tutto, comunque, la sua originaria funzione assistenziale.

Come centro di osservazione minorile, comprendeva due giardini, due palestre, l'infermeria, un refettorio con cucina, un'officina, un laboratorio artigianale, una scuola elementare e di psicotecnica, la direzione didattica e vaste camerate dove dormivano gli ospiti.



Gli ospiti venivano selezionati in questo modo: uomini, donne, ragazzi e ragazze, sistemati in settori rigorosamente separati. Le sale interne erano divise in“Pro Feminis et Puellis” e “Pro Viris et Pueris”, separando le ali in cui si svolgevano le attività: i maschi studiavano grammatica, matematica, musica, disegno o si dedicavano all’apprendimento di mestieri manuali come stampatore, sarto, meccanico, calzolaio o tessitore; le donne, invece, oltre che allo studio, erano rese pratiche nella tessitura e nella sartoria.

I cortili laterali, adibiti a giardini, avevano campetti di calcio, palla a volo, un cinema, delle officine meccaniche, una palestra, un distaccamento dei Vigili del fuoco e l'Archivio di Stato civile. Nel 1938 la struttura ospitò alcuni rappresentanti del Congresso internazionale di criminologia. Nel 1929 furono registrati i primi crolli; poi, un terremoto del '43 provocò il distacco di alcuni solai. Nuovo crollo col sisma del 1980, in cui persero la vita quattro persone.

Nel 1981, la proprietà dell'edificio, quindi, passò al Comune di Napoli; dopo anni di degrado e di usi impropri, finalmente poteva ripartire il recupero, ed i lavori iniziarono nel 1999.



Attualmente, l’Amministrazione Comunale sta procedendo con i lavori restauro critico e recupero filologico; in alcuni ambienti già terminati vengono ospitate manifestazioni e spettacoli, ed è in programma di farne sede della “Città dei Giovani”, una struttura a disposizione della popolazione minorile del quartiere.

Inoltre, il programma comunale prevede che "... Intorno alle grandi corti del Real Albergo dei Poveri sarà possibile frequentare corsi di studio universitari o di specializzazione, fare teatro, musica, andare al cinema, accedere ad alloggi e atelier a prezzo contenuto, imparare un lavoro, fare sport, avere informazioni e accedere a servizi di assistenza per lo studio e il lavoro, trovare chi ha voglia di ascoltare, incontrare altri giovani provenienti da altri paesi".



L'opera, dunque, si inserisce in un contesto non lontano dalle finalità per le quali fu creata

Sebbene sulla struttura attualmente gravino ancora vincoli giuridici, come quelli di destinazione socio-assistenziale e storico-artistica, l’opera di riqualificazione procede, nonostante i tagli al Bilancio comunale e la difficoltà oggettiva della ristrutturazione di un sito enorme come quello del Real Albergo, nato dal cuore caritatevole di Carlo III, valorizzato dalla mente pragmatica di Ferdinando IV e, purtroppo, mai terminata.





Fonte:
 

Per ricordare l'imperatrice Zita d'Austria




120 anni dalla nascita

dell’imperatrice Zita d’Austria



di

Cristina Siccardi



Quest’anno ricorrono 120 anni dalla nascita di Zita Borbone-Parma, imperatrice d’Austria e regina apostolica d’Ungheria. Nacque il 9 maggio 1892 a Villa delle Pianore (Lucca). Il padre era Roberto I, duca di Parma, Piacenza e Guastalla e sua madre Maria Antonia di Braganza, figlia di Michele, re del Portogallo. Era la diciassettesima figlia dei ventiquattro avuti dal duca: i primi dodici li ebbe dalla moglie Maria Pia delle Due Sicilie.

Zita frequentò la scuola inglese a Ryde, sull’isola di Wight, e il collegio di suore di Zamberg, nella Baviera Superiore. Imparò l’italiano, il francese, il tedesco, lo spagnolo, il portoghese, l’inglese. Giovane di fede e di carità, fu sensibile al servizio degli infelici, prendendosi cura dei bisognosi, visitando ammalati, anziani, poveri… pulendo le loro case e rammendando o confezionando i loro indumenti. Il 21 ottobre 1911 sposò Carlo d’Asburgo (1887-1922), beatificato il 3 ottobre 2004: il matrimonio fu benedetto da monsignor Camillo Bisleri, delegato di san Pio X. Entrambi possedevano un alto concetto dell’unione matrimoniale, unione che divenne strumento di perfezionamento reciproco.

Come prima tappa del loro viaggio di nozze scelsero il santuario di Mariazell, in Austria. In dieci anni di vita coniugale nacquero otto figli. Era il 28 giugno 1914 quando arrivò il telegramma che comunicava a Carlo e Zita la tragica notizia dell’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sophie, primo atto della Grande guerra. Per una serie di circostanze luttuose in Casa d’Austria, fu Carlo IV, il 30 dicembre 1916, ad essere consacrato, con la corona di santo Stefano, re apostolico d’Ungheria. Il primo a godere di questo titolo fu proprio Stefano I, che lo ricevette intorno all’anno 1000 da papa Silvestro II: il Sommo Pontefice volle ricompensarlo con tale atto per la sua strenua attività di diffusore e difensore del Cristianesimo.

Priorità assoluta della coppia imperiale fu sempre Dio: preghiera e Santa Messa erano loro pratiche quotidiane. Spesso Zita, donna forte e determinata, accompagnava il marito nelle varie province dell’Impero e anche sul fronte di guerra per occuparsi personalmente dei feriti ricoverati negli ospedali militari. Con la fine della prima guerra mondiale il plurisecolare Impero asburgico crollò. Carlo e Zita furono costretti a prendere la via dell’esilio, in un primo momento trovarono asilo in Svizzera e poi, dopo due tentativi di restaurazione a Budapest, ripararono a Funchal sull’isola di Madeira.

Il 1° aprile 1922 morì l’imperatore, lasciando vedova Zita a 29 anni. La sua compostezza al funerale, dove presenziarono 30.000 persone, fu memorabile e portò il lutto fino alla fine dei suoi giorni, ovvero per 67 anni. Crebbe i figli fra molte difficoltà finanziarie e nel 1929 la famiglia si trasferì in Belgio, nel villaggio di Steenokkerzeel, vicino a Bruxelles, al fine di agevolare gli studi universitari dei ragazzi. L’obiettivo della sua vita fu quello di educarli, come usava dire, per «farne degli uomini buoni che temono Dio».

Assisteva, quotidianamente, alla Messa dell’alba, poi ancora a quella celebrata nella cappella di casa ed era legatissima al rito antico, per tale ragione cercava sacerdoti che la celebrassero. L’ex imperatrice non si dimenticò del suo popolo: percorse gli USA tenendo conferenze per raccogliere fondi e accantonando la sua naturale riservatezza per sostenere la causa austriaca presso Roosevelt e le mogli dei senatori.

Dopo molteplici trasferimenti, a 70 anni scelse di ritirarsi in Svizzera, in una casa di riposo, gestita da suore francescane, precisamente a Zizers nei Grigioni. Ha affermato il postulatore della Causa di beatificazione (apertasi il 10 dicembre 2009 nella diocesi di Le Mans), l’abbé Cyrille Debris: «Conduceva una vita di tipo monastico, molto semplicemente, dimenticandosi di essere stata un’imperatrice. Aveva scelto quella casa anche perché accoglieva molti preti e aveva così la possibilità di assistere fino a tre Messe mattutine. Passava poi molto tempo in preghiera. Per il resto, si faceva leggere le notizie d’attualità, visto che era divenuta quasi cieca».

Nel 1982 ebbe la gioia di rivedere l’Austria e fra le sue tappe non poté non inserire il grande santuario mariano di Mariazell. Morì il 14 marzo 1989 all’età di 97 anni e il 1° aprile ricevette solenni onoranze funebri a Vienna, dove fu sepolta nella cripta dei Cappuccini.





FONTE:
 
Corrispondenza Romana/

Pio IX nella tempesta risorgimentale














 
 
Fonte:
 

giovedì 30 agosto 2012

I falsi Luigi XVII apparsi nel secolo XIX (1°): JEAN MARIE HERVAGAULT

Premessa:

Soltanto nei primi decenni del XIX secolo apparvero circa un centinaio di falsi Delfini: tutti pretendevano di essere il figlio legittimo di Sua Maestà Cristianissima Re Luigi XVI e rivendicavano quindi il diritto di salire sul trono di Francia. I più conosciuti tra questi pretendenti sono un tal Barone di Richemont e, soprattutto, un orologiaio di Spandau, vicino Berlino, Karl Wilhelm Naundorf, un prussiano i cui eredi continuano a rivendicare la propria discendenza dai Re di Francia e ai quali l’Olanda ha riconosciuto il diritto di fregiarsi del nome di Borbone.
Addirittura qualcuno sostenne che Louis Pierre Louvel, che nel 1820 assassinò il Duca di Berry, altro non sarebbe stato che il Delfino Luigi Carlo (Luigi XVII) in preda a una crisi di follia, nel vedersi privato della sua legittima aspirazione al trono.
A dar retta ad un’altra leggenda il Delfino sarebbe riuscito a fuggire ad Haiti, dove sarebbe morto nel 1803. Si è anche sostenuto che Luigi XVII sarebbe stato condotto in Auvergne: qui avrebbe fatto il carrettiere fino alla sua scomparsa, sopraggiunta nel 1873.
Tra i falsi Delfini alcuni raccontarono d’essere stati portati fuori dal Tempio nascosti dentro una cesta di biancheria, altri attraverso un numero tale di sostituzioni (con un fantoccio prima, con un sordomuto e con un malato di scrofolosi poi); altri perfino nascosti addirittura dentro un cavallo a dondolo. Né mancarono personaggi folcloristici o addirittura esibizionisti, come quel “gentiluomo” che, per provare di essere Luigi XVII, si abbassò i pantaloni per mostrare, documenti alla mano, i propri genitali di mole propriamente regale.


JEAN MARIE HERVAGAULT
 



Il primo falso Delfino in ordine di tempo fu Jean Marie Hervagault, più vecchio di Luigi XVII, essendo nato a Saint-Lô il 21 settembre 1781. Pare ch’egli fosse il figlio naturale di un Prìncipe della famiglia monegasca dei Grimaldi. La madre, la merlettaia Nicole Bigot (o Bigaud), rimastane incinta, andò in sposa a Jean François Hervagault, cameriere personale del Principe, che esercitò in seguito il mestiere di sarto a Saint-Lô. Di bell’aspetto, privo d’istruzione, ma di una rara audacia e sfrontatezza, Hervagault, dopo aver ingannato numerosi credenzoni in Normandia, in Borgogna e nella Champagne, il 3 aprile 1802 fu condannato dal Tribunale di Reims a tre anni di prigione. Dal 1806 soldato nel 4° Battaglione Coloniale di Belle-Isle en Mer, nella fanteria della marina, temuto dalle autorità, in particolare dal Ministro della Polizia Fouché, che lo fece sorvegliare e più volte incarcerare, non cercò mai l’appoggio della Duchessa d’Angoulême, né dei Conti di Provenza o di Artois, mostrando grande ignoranza della vita della Famiglia Reale al Tempio, da dove sosteneva di essere uscito, nascosto dentro una cesta di biancheria. Costruì un castello di esagerazioni e assurdità, come quella d’essere stato accolto e riconosciuto dal Papa e dai Re d’Inghilterra e del Portogallo e di avere addirittura sposato la cognata di quest’ultimo, l’Infanta Francesca Benedetta. Morì nel carcere di Bicêtre l’8 maggio 1812, impenitente sino alla fine.

La Civiltà Cattolica, anno XXIX, serie X, vol. VI (fasc. 671, 20 maggio 1878), Firenze 1878, pag. 524-536.R. P. Raffaele Ballerini S.J. IL CENTENARIO DELLA MORTE DI FRANCESCO VOLTAIRE

Voltaire, pseudonimo di François-Marie Arouet (Parigi, 21 novembre 1694Parigi, 30 maggio 1778)

 
 

 

I.

Satana, che in tutto e per tutto è scimmia di Cristo e da vile scimmia gli fa guerra, è giunto a stabilire pian piano nel mezzo del cristianesimo una specie di sua chiesa, la quale, in parecchie delle esterne forme ed usanze, ha modellata sopra la Chiesa di Cristo. Da alcuni anni in qua è venuta la volta dei martiri e dei santi suoi, che questa congrega pretende di onorare con culto pubblico di apoteosi, di monumenti e di feste: e noi vediamo come non solamente essa celebri, con idolatrica pompa, i funerali dei più tristi e malefici uomini che la morte miete nella nostra generazione; ma si affatichi a dissotterrare anche le memorie di quei più perduti e scellerati, i quali colle loro empietà e ribalderie scandalizzarono le generazioni passate; e sotto pretesto di ricordarne i secolari anniversarii, ne glorifichi strepitosamente il nome, le turpitudini e i misfatti; chè tali e non altri sono i meriti richiesti, per godere in quest'infernale Antichiesa l'aureola di santità.
Ora è il turno del Voltaire. Ai 30 di questo maggio, compiendosi l'anno centesimo della morte di costui, le sètte anticristiane della massoneria hanno divisato di commemorarla con grandi clamori, dei quali Parigi sarà il teatro primario. Per tal effetto anzi si dice che siasi voluta la sontuosa mostra d'arti e di manifatture apertasi in questa città; per rendere cioè più scandalosamente romorosa la festa del centenario volteriano.
Giusto è pertanto che ancor essi i cattolici traggano il loro frutto da questa diabolica solennità; e poichè la chiesa di Satana nella morte del Voltaire compendia tutti i pregi della sua vita, così noi riputiamo utile raccontarne semplicemente la storia, la quale per conseguenza aiuterà a ben conoscere chi fosse l'uomo, che morì accattandosi i plausi di tutto l'inferno. Se mai fu vero in alcuno il comun detto, che tal si muore qual si è vissuto, qualis vita finis ita, si toccherà con mano verissimo essere stato in questo mostro, idolo troppo degno degli adoratori che oggi lo profumano d'incenso.
Ma, per amore di brevità e di verità, noi narreremo quelle sole cose che sono certe e provate da documenti; e fonderemo la nostra narrazione sopra quanto ne riferisce il Maynard, che è lo storico del Voltaire più accurato, più spassionato e più veridico di tutti, giacchè nulla afferma che non confermi con irrefragabili testimonianze; ed è perciò in credito sin presso i liberi pensatori [1]. I quali non han potuto e non possono negare che il Maynard abbia formato un ritratto immortale e somigliantissimo dell'eroe loro; e quindi costui sia stato propriamente e realmente quell'uomo senza cuore, senza fede e senza legge, quel furfante, quel sozzo, quel falsario, quel codardo, quell'avaro, quell'ipocrita, quel mendace che in ogni pagina del classico lavoro del Maynard apparisce [2].

II.

Francesco Maria Arouet, detto di Voltaire, era nato in Parigi il 21 novembre 1694, da un onesto notaio. Aveva compiuto già l'ottantesimoterzo anno, quando il 5 febbraio del 1778 lasciò il castello di Ferney nella Svizzera, per entrare in Parigi, dond'era esiliato a cagione degl'immondissimi libri, con cui aveva appestata la Francia e l'Europa. Il decreto d'esilio non era abrogato: ma la grande autorità che i suoi aderenti godevano alla corte del buono e debole Luigi XVI, lo rassicurava che non avrebbe incontrate molestie.
Che andava egli, così vecchio e infermiccio, a fare in Parigi? Credea di andarvi non per altro, che per assaporare il dolce dei trionfi che i fautori suoi gli promettevano. La giustizia di Dio invece ve lo spingea, perchè si avverasse pubblicamente, in quella città, una profezia ch'egli avea fatta nel 1758, scrivendo all'amico suo d'Argental –– «Fra vent'anni l'infameavrà bel giuoco.» Ognuno sa che, in bocca e sotto la penna di costui, l'appellativo d'infame significava Gesù Cristo figliuolo di Dio e la sua Chiesa, che egli del continuo eccitava gli aderenti suoi ad abbattere, col famoso grido di guerra –– Écrasons l'Infâme; motto che si legge ripetuto più di centocinquanta volte nel suo epistolario e prese per nome, abbreviandolo e sottoscrivendosi Écr-l'-inf, quando più sacrilegamente non si sottoscriveva beffa-Cristo. Ora, in Parigi, venti anni dopo quel presagio, lo aspettava Gesù Cristo per dargli appunto al letto della morte una esemplarissima pena.
Il giorno 10 pose piede nella desiderata città ed ebbe alloggio in casa Villette, ove lo attendeva la celebre sua nipote Denis; e tosto vi ricevè gli omaggi di quanto colà era di più empio, di più voluttuoso, di più leggiero; omaggi che talora si mutarono in ovazioni.
Grande fu lo scandalo di questi festeggiamenti all'autore di tanti libri osceni e blasfemi. Il clero ne restò amareggiato. Ma la combriccola che circondava il Voltaire, tutta fiore di miscredenti e frammassoni, venuta in sospetto che qualche membro del clero tentasse di avvicinarsegli e ridurlo al bene, si mise in guardia. Questi così detti filosofi o enciclopedisti, che erano sottosopra quel che sono iliberali dei nostri tempi, non erano senza timore che il vecchio maestro d'incredulità, cadendo malato e vedendosi la morte in faccia, si ricredesse e cercasse di riconciliarsi con la Chiesa e con Dio. Per lo che erano fermi di escludere dalla casa Villette qualunque si fosse visita di persona ecclesiastica.
Senonchè ad un prete, non si sa come travestito, riuscì d'introdursi nella casa, di accostarsi al letto del Voltaire, e postosi in ginocchio di supplicarlo, colle lagrime agli occhi, che si arrendesse a Dio e si confessasse. Checchè ne abbiano scritto in contrario gli amici più intimi del Voltaire, certo è che questi n'ebbe nell'animo una forte impressione.
Al tempo stesso si fece innanzi un abbate Gaultier, già religioso della Compagnia di Gesù, allora estinta, e cappellano nello spedale degl'incurabili. Il 20 febbraio questo zelante ministro di Dio gli scrisse un biglietto, per rammentargli il giudizio divino e pregarlo di un abboccamento. Il Voltaire accettò la proposta: e fattolo venire se lo condusse per mano nella stanza, lo fece sedere accanto a sè e gli domandò che cosa avesse da dirgli. Il Gaultier francamente rispose di voler prendere a curarlo nell'anima, come testè aveva curato un impuro poeta; e per questo a lui si offeriva. Il Voltaire intese con piacere che il Gaultier era venuto di suo proprio motivo e non mandato dall'arcivescovo o dal curato di san Sulpizio, nella cui parrocchia era la casa Villette; quindi, con atto di scambievole civiltà, offerse al Gaultier la servitù sua. Ma il cappellano soggiungendo che desiderava un'offerta più corrispondente alla ragione della visita, –– Io amo Dio; rispose il Voltaire.
–– Può mai essere sincero l'amore che non opera? ripigliò il Gaultier.
Qui sopravvenne uno dei settarii che erano di guardia e, per tagliare il filo di un colloquio che temeva dovesse avere una conclusione salutare: –– Signor abate, esclamò, finitela dunque; non vedete che il signor di Voltaire gitta sangue e non è in istato di parlare?
–– Eh, signore! lo interruppe il vecchio con impazienza; lasciatemi col signor Gaultier, che è mio amico e non mi adula.
Ma entrò alla sua volta anche la signora Denis sua nipote; e tanto pregò, che il Gaultier dovè licenziarsi, dopo avuta promessa che sarebbe potuto tornare.
Partito il Gaultier, un tal Wagnière, che era l'anima dannata del Voltaire, gli domandò: –– Ebbene come vi è piaciuto l'abate? –– Gli è un buon imbecille; rispose il Voltaire.

III.

Il giorno seguente fece esercitare innanzi a sè i commedianti che avevano da rappresentare la sua Irene. Ma s'incollerì di molto, perchè non recitavano a modo; e il 25, mentre dal letto dettava al suo Wagnière, ebbe tosse e violenti sbocchi di sangue. Si corse testo pel medico e pel prete. Il signor Tronchin, protestante, ma non empio, benchè si fosse già prima guastato col Voltaire, nondimeno accettò di prenderlo in cura.
Intanto il Tronchin e l'abate Gaultier si erano accordati. Questi avendo informato l'Arcivescovo ed il curato di san Sulpizio della visita fatta al vecchio miscredente, si era provveduto dei consigli e delle facoltà necessarie, per governarsi con sicurezza e prudenza. D'altra parte il Voltaire aveva consultato il celebre Dalembert, gran capo e maestro ancor egli di filosofia:il quale gli avea risposto che in questa congiuntura facesse come gli altri filosofi che lo aveano preceduto, e ricevesse con rispetto quel che ricever dovea. Il che era un dirgli che si mostrasse ipocrita consumato.
–– Sono dello stesso parere; soggiunse il Voltaire; non bisogna farsi gittare in un letamaio: ed alludeva alla sepoltura comune, che gli sarebbe stata negata di ufficio, se avesse rifiutato il prete e i sacramenti. Ora egli, sopra ogni, cosa, aveva a cuore di essere onoratamente ed anche pomposamente seppellito in una chiesa.
Ordinò dunque che si chiamasse l'abate Gaultier: e perchè non si vide con sollecitudine obbedito, il 26 egli e la nipote scrissero all'abate medesimo, che il domani, condottosi alla casa Villette, non potè per altro essere ammesso nella stanza dell'infermo Il 28, prevedendo assai bene, che la ritrattazione di tante bestemmie e di tante lubricità, messe a stampa, gli sarebbe chiesta come necessaria condizione per ricevere i sacramenti, il Voltaire pensò di annullarne l'effetto prima di farla: quindi scrisse di suo pugno e sottoscrisse queste parole che confidò al Wagnière: Muoio adorando Dio, amando gli amici, non odiando i nemici e detestando la superstizione. Si sa che sotto il vocabolo di superstizione era intesa la fede e religione di Cristo: e con questo vile e codardo artifizio, di fingere per paura degl'increduli da un lato e della Chiesa dall'altro, il patriarca del moderno libero pensiero si apparecchiava alla morte. L'infelice pretendeva di burlare tutti e Dio stesso; e non si accorgeva ch'egli burlava solo sè medesimo.
Il 2 marzo, essendo peggiorato, il Gaultier corse presso l'infermo e fu introdotto. Poco innanzi ragionando col Dalembert, che lo esortava a tacere: –– Bisognerà bene, disse il Voltaire, che, buono o mal mio grado, parli. Oggi dovrò fare il salto mortale.
Appena entrato nella stanza il Gaultier fu preso per la mano dall'infermo, che lo pregò di ascoltarlo in confessione. –– Volentieri, disse l'abate; ho tutte le facoltà per assolvervi. Ma innanzi tutto è necessario che vi ritrattiate.
Il Voltaire si profferse di scrivere immediatamente una formola, che sarebbe di piena sodisfazione del Gaultier. Mandò fuori della stanza tutti i convenutivi per apportargli di che scrivere, e solo, alla presenza dell'abate, mise in carta queste parole:
«Io sottoscritto dichiaro, che da quattro giorni patendo vomito di sangue, all'età di ottantaquattr'anni, e non avendo potuto trascinarmi alla chiesa, il sig. curato di san Sulpizio avendo voluto alle altre sue buone opere, aggiunger quella d'inviarmi il sig. Gaultier sacerdote; io mi sono confessato con lui, e se Dio mi toglie di vita, muoio nella santa Chiesa cattolica, nella quale son nato; sperando dalla divina misericordia che si degnerà perdonarmi tutte le colpe. Se avessi mai scandalizzata la Chiesa, ne dimando perdono a Dio e ad essa. 2 marzo 1778.»
Il Voltaire sottoscrisse questa dichiarazione; fece introdurre nella stanza l'abate Mignot e il Villevieille; lesse loro l'atto e richiese che ambedue, quali testimonii, lo sottoscrivessero. Dopo ciò alla scrittura aggiunse queste altre parole:
«Il sig. abate Gaultier avendomi riferito, che alcune persone spacciavano che io protesterei contro tutto quello che fossi per fare in punto di morte, io dichiaro di non aver mai detto ciò, e che questa è una vecchia celia da molto tempo in qua apposta falsissimamente a parecchi dotti più illuminati di Voltaire[3]
L'infermo diede il foglio all'abate Gaultier, con una cambiale di seicento lire pei poveri della parrocchia di san Sulpizio, pagabile dopo la sua morte, e gli disse: –– Voi certamente pubblicherete subito questa ritrattazione nei giornali.
–– Non ci è fretta; rispose l'altro.
–– Ma ne siete almeno contento?
–– Non mi pare abbastanza esplicita. Del resto io ne conferirò con chi devo. E così il Gaultier si ritirò.

IV.

Ecco tutto quello che intervenne, nel corso di questo primo periodo della malattia del Voltaire. È falso che egli ricevesse il sacramento della penitenza: ma lo asserì nella dichiarazione, per furberia. L'abate Gaultier, stando agli ordini avuti, innanzi di confessarlo, richiese l'atto di ritrattazione: ma giudicato insufficiente quest'atto, qual era espresso di mano propria dell'infermo, lo accettò per mostrarlo ai superiori ecclesiastici, nè si ardi di procedere oltre nell'opera del ministero sacerdotale.
L'arcivescovo ed il parroco non approvarono punto la ritrattazione, che in sostanza era derisoria, giacchè metteva persino in dubbio, con una particella condizionata, lo scandalo dato alla Chiesa; quasi che si potesse credere che l'immondezzaio di tante bestemmie e di tante brutture, uscite dalla penna dell'empio scrittore, non avesse scandalizzato il mondo. Per questo l'abate tornò il giorno seguente alla casa Villette, domandando un atto meno ambiguo e più pieno. Ma gli fu tenuta porta; ed esso ne indovinò il perchè. I signori Diderot, Dalembert e Marmontel, tre visibili demonii custodi dell'impenitenza del vecchio, si erano sgomentati delle sue velleità di devozione. Ogni mattina però il buon abate seguitò a picchiare all'uscio, sebbene indarno. Nè stanco di ciò, il 15 ed il 30 marzo scrisse pietose lettere al malato, che nulla fruttarono. Stimò dunque meglio di non fare, per allora, più altro.
Il curato ancora si provò di penetrare in quella casa e d'indurre l'infermo a compir bene l'atto della ritrattazione. Se non che questi ricusò di ammetterlo, col pretesto di un'umiltà, che in bocca sua era scherno. I preti si ritirarono dunque da lui e lo abbandonarono alla sua ipocrisia. Non così i filosofie i settarii, che non cessarono di rinfacciargli l'onta della debolezzamostrata coll'abate Gaultier. Ma egli se ne discolpava ripetendo: ––Non voglio che il mio corpo sia buttato nel letamaio. E per questa ragione, mentendo sempre al suo solito, diceva a molti di quelli che lo visitavano, ch'egli si era confessato. Con questo dire sperava che la notizia della sua confessione giugnerebbe fino alla corte, e gli agevolerebbe, dopo morte, i funerali cristiani.
Avvistosi poi che i suoi infingimenti a nulla servivano, e che nessuno nella corte e nella città dava fede alle sue imposture, si adirò contro la prêtraille e risolvè, appena il potesse, di ripartire per Ferney, ove niun prete, diceva egli, lo avrebbe perseguitato.

V.

Ma non fu vero. La nipote, gli amici e i settarii seppero così bene pascere la senile sua vanità, col racconto degli applausi i quali la sua Irene riportava ogni sera al teatro, e colla promessa di quelli che vi otterrebbe, quand'egli potesse farvi comparsa in un palco, che a partirsi di Parigi non pensò più.
Il 21 marzo di fatto, riavutosi alquanto, uscì in carrozza a passo lento per le vie della città, ed ebbe un corteggio di curiosi che lo racconsolò tutto. Rientrato in casa, si trovò in faccia una deputazione di quaranta frammassoni della loggia delle Nove Sorelle, con a capo il venerabileLalande che, a nome di tutti, lo adulò con finissime lodi. Finalmente il dì 30, con grande solennità, dopo condottosi nell'Accademia che lo accolse tra onori da semidio, passò, accompagnato dagli evviva di tutta la marmaglia parigina che faceva ala e coda alla carrozza, nel teatro e vi ebbe trionfi senza fine. Colà fu coronato di fiori, tanto in persona come in figura; sì che tutto commosso ebbe a sclamare: –– Ah, voi mi volete far morire di gloria, soffocare fra le rose!
Inebriato dalle acclamazioni e dalle cortigianerie della setta, che intendeva glorificare in lui il nemico acerrimo di Gesù Cristo, il 7 aprile fece l'ingresso nella sopraddetta loggia massonica delle Nove Sorelle e vi fu, con tutte le forme rituali, ammesso come adepto. Secondochè attesta il Condorcet, egli era stato ricevuto nella massoneria fino dal 1728, al tempo del suo esiglio in Inghilterra: ma ora, cinquant'anni dopo, gli conveniva sancire, con una novella iniziazione, le riforme introdottesi nel rito. Così trascorse tutto il mese fra le agitazioni delle feste, i complimenti, le visite e le onorificenze che lo gonfiavano, lo stordivano, ma non lo tranquillavano. Il pensiero della morte, che sentiva appressarsegli, non gli dava pace nè tregua. Entrante il maggio, si era ingolfato nell'impresa di rifare il dizionario dell'Accademia sopra il modello della Crusca fiorentina; e questa enorme fatica lo inquietò e gli cagionò tante stizze, che in breve ne ricadde malato: sebbene l'abuso ch'egli fece del caffè, per tenersi desto, e l'errore di aver inghiottita una boccetta intera di elisire oppiato affrettassero la ricaduta, dalla quale non dovea più riaversi.
«Io morrò, se posso, ridendo» aveva scritto il Voltaire, nel giugno 1766, all'amico Dalembert. Ma s'ingannò. Il riso già non fioriva più in quel suo labbro beffardo, che avea proferiti sì orribili lazzi contro Dio e il suo Cristo.
Il suo medico Tronchin invece colse meglio nel segno, quando scrisse al fratello: «Voltaire è gravemente malato. S'egli muore gaiamente, come lo ha promesso, dovrò dire che mi sono ingannato. In presenza degli amici intimi si sbottonerà e farà vedere, col dispetto e la poltroneria, una gran paura di lasciare il certo per l'incerto. Il cielo della vita avvenire non è così sereno, come quello delle isole d'Hyères o di Montauban, per un ottuagenario codardo di natura e un pochino ritroso verso l'eternità. Io lo credo assai tristo pel fine che si approssima, e scommetto che non vi scherza sopra. La morte sarà un duro passo pel Voltaire. Se la testa gli regge sino all'ultimo, darà di sè uno spettacolo abbietto.»

VI.

Andando sempre l'infermo di male in peggio, il dottore Tronchin gli significò, fuor d'ambagi, la sentenza di morte.
–– Salvatemi! gli disse supplichevole il Voltaire.
–– È impossibile, bisogna morire! replicò il medico.
Il 30 maggio l'abate Gaultier, fatto inteso dello stato estremo dell'infelice, gli avea scritto ancora: e la sera l'abate Mignot andò a cercarlo da parte del moribondo, il quale sicuramente non lo avea chiesto e molto meno aveva letto il bigliettino suo. Il Gaultier portava seco una ritrattazione espressissima ed avea voluto che il curato di san Sulpizio ne fosse testimonio. La ritrattazione fu letta ed approvata dal Mignot, che s'impegnò di farla sottoscrivere, e dal marchese di Villette, che dichiarò di non opporsi alla sottoscrizione. Ambedue sapevano troppo, che il malato nè vorrebbe nè potrebbe firmarla. Introdotti i due sacerdoti nella camera del Voltaire, il curato parlò pel primo: ma non potè farsi riconoscere. scere. Il Gaultier parlò dopo, e sperò un momento, in sentirsi prender le mani dal Voltaire. Senonchè si avvide che questi propriamente o era o si fingeva in delirio. Uscirono pertanto premendo con vive istanze quei di casa che li avessero richiamati, subito che il delirio fosse cessato. Ma poche ore dopo il morente spirò.
Tal è la narrazione genuina dell'abate Gaultier. I circostanti aggiunsero a questo racconto altre particolarità che fanno ribrezzo; com'è verbigrazia questa, che il curato avendo interrogato il moribondo, se credesse nella divinità di Gesù Cristo, questi ributtando col braccio il ministro di Dio e voltandogli il dorso gridò: ––Lasciatemi morire in pace! Il Condorcet narra anzi che soggiunse l'atroce bestemmia: –– Nel nome di Dio, non mi parlate di quell'uomo!
Quel che accadde fra la partenza dei due sacerdoti e l'ultimo sospiro del Voltaire, si volle dapprima dissimulato e sepolto nel silenzio dai congiurati settarii, cui importava molto far credere che quest'uomo, empissimo fra gli empii e coll'anima rosa dall'odio di Gesù Cristo, si fosse addormentato in un placido sonno, senza inquietezze e senza turbamento. Ma la terribile verità di questa morte non potè a lungo nascondersi. Osserva giustamente l'autorevolissimo Barruel che, dopo ritiratisi i ministri di Dio da quella casa, tenuta in assedio dai fratelli massoni del disgraziato che agonizzava, i soli demonii ebbero libero accesso al suo letto: e gli assedianti, nei furori e nelle disperazioni del loro maestro, furon condannati a gustare l'amarezza delle lor proprie umiliazioni [4]. –– Io son abbandonato da Dio e dagli uomini! urlava egli con impeti di rabbia; andatevene! gridava a questi amici. Io potea fare senza di voi; ma voi non potevate fare senza di me! Ecco la bella gloria che mi avete procurata!
Nel colmo dei terrori e delle angosce che gli mettevano il cuore in tempesta, prorompeva ora in bestemmie ed ora in invocazioni di quel Dio, che egli per tanti anni e con tanto livore avea combattuto, maledetto, esecrato. Spesso, con voce di lamento, o con sospiri strappatigli dal rimorso, e più spesso con un rantolo furibondo, sclamava: –– Gesù Cristo! Gesù Cristo!
La scena era così spaventevole, che il famoso Richelieu, presente, non potè più reggervi; e fuggì inorridito, con dire come fuor di sè: –– In verità la cosa passa il segno; non è possibile restare più qui.

VII.

Colà, dentro quella vera anticamera dell'inferno, di orrore si passava in orrore. Lo sventurato Voltaire si contorceva nel letto e si stracciava colle unghie le carni. Implorava l'abate Gaultier: ma i guardiani spietati della setta tenean duro. Il patriarca dei filosofidoveva inesorabilmente morire da filosofo;senza Dio, senza prete, senza pace. All'avvicinarsi del momento supremo, il morente precipitò in un eccesso incredibile di disperazione. –– Sento, gridava con rantolosa voce, sento una mano che mi trascina al tribunale di Dio: e volgendosi con occhio da esterrefatto verso il muro di fianco; –– Il diavolo è là; mi vuole afferrare.... lo veggo... veggo l'inferno... toglietemelo dalla vista! E poco dopo, arso dalla sete e sovrapreso da uno sgorgo di sangue, diè di piglio al vaso da notte pieno di immondezze che gli stava accosto, se lo appressò alle labbra, lo votò e rivomitando dalla bocca lo sterco ed il sangue, esalò, fra gli artigli di Satana, l'anima scellerata.
Tutti questi ed altri terrifici particolari furono di poi riferiti da testimonii di vista: e il dottore Tronchin, tre settimane dopo il pauroso fatto di questa morte, e fu il 20 giugno 1778, così scriveva a Carlo Bonnet in una lettera, il cui originale si conserva tuttora in Ginevra. «Se avessi bisogno di stringere il nodo dei miei principii, l'uomo che ho veduto deperire, agonizzare e spirare sotto i miei occhi, ne avrebbe formato un nodo gordiano. Paragonando la morte dell'uomo virtuoso, la quale non è che il tramonto di un dì sereno, con quella del Voltaire, ho toccata con mano la differenza che corre fra un giorno bello e una tempesta. Non posso rammentarmene senza raccapriccio. Non appena si accorse, che tutto il fatto da lui per accrescer le forze era riuscito all'opposto, la morte gli fu sempre in faccia: e da quel momento la rabbia ne occupò l'anima. Ricordate le furie di Oreste: così è morto il Voltaire: Furiis agitatus obiit.
Più tardi i domestici di casa Villette ebbero la lingua sciolta, e conclusero i loro racconti con dire: –– Se il diavolo potesse morire, non morrebbe che come Voltaire.
Anzi la stessa marchesa de Villette, ravvedutasi in età più matura, tessè più di una volta la narrazione degli ultimi momenti del misero uomo, mortole in casa. Or tutto ella svelò, nulla tacque; e sopra tutto non tacque mai delle immondizie di cui egli si era empita la bocca, nell'atto di spirare.
Così, esclama il Maynard, così finì, verso le undici ore di sera del 30 maggio 1778, questo lungo festino di Baldassarre, durante il quale l'empio aveva contaminati tutti i vasi a Dio sacri. Ma il sacrilego era morto di terrore, vedendo una mano ultrice scrivere, nel muro della sua funebre stanza, e gittargli in isfida la formola stessa della sua bestemmia: –– Orsù, atterra dunque l'Infame!

VIII.

Terminando ancora noi questo racconto, inviteremo i cattolici a trarre dalla commemorazione del mostruoso centenario, che la setta di Satana nei presenti giorni festeggia, due buone conseguenze.
La prima è, che nel Voltaire esemplarmente e pienamente si avverò la più tremenda delle minacce, che Dio abbia fatte agli ostinati oltraggiatori del santo suo nome e della sovrana maestà del suo Cristo:–– Voi mi cercherete, quaeretis me, e morrete nel vostro peccato: et in peccato vestro moriemini [5]. Nell'estremo punto anche il Voltaire cercava Dio ed il suo ministro, che avea beffato e scornato, quand'era ancora in tempo di valersene, per ottenere il perdono: ma era tardi e morì nel suo peccato. Ed altrove il Signore Iddio così parla a chi si ride di lui e della sua pazienza nel sopportare le offese: –– Io pure nella perdizione vostra, in interitu vestro, riderò e vi schernirò, irridebo et subsannabo[6]. In quel punto, il disgraziatissimo Voltaire vide, sentì e confessò quanto formidabile sia lo scherno dell'Onnipotente, vendicatore delle beffe all'onor suo ed alla sua Chiesa fatte. Come Iddio ripagò l'empio colla stessa sua moneta! Come lo sottopose a una durissima pena di taglione! In cambio delle preghiere con cui la Chiesa santamente conforta i moribondi fedeli, ebbe i motteggi e gli spregi de' suoi compagni; ed in cambio del pane eucaristico, ch'egli avea profanato colle sue bestemmie e co' suoi sacrilegi, si ebbe ed inghiottì lo sterco. Oh, il bello e salutare frutto, che tanti possono ricavare dalla secolare memoria di questa eloquentissima manifestazione della giustizia di Dio!
L'altra conseguenza è, che dalla morte del gran corifeo e patriarca dellibero pensiero, s'impara a conoscere il valore della moderna incredulità. Ecco l'uomo che spese ben sessant'anni della sua lunga vita, a negare ed irridere Cristo, il giudizio divino e l'inferno, venuto al passo ultimo, invocare, nelle smanie della disperazione, questo Cristo così da lui rinnegato e vituperato, riconoscere che il divino giudizio è per lui imminente, e gridare e rigridare che l'inferno esiste, e lo vede e ne sperimenta anticipati gli ardori. Questa è la prova che si miscrede a fior di labbro, ma nel fondo del cuore si crede; benchè si creda a guisa dei demonii, che credunt et contremiscunt [7]. Ah, l'inferno predicato vero e descritto dal Voltaire nel letto di morte, quale convincente lezione è mai, per tanti che si vantano di non credere all'inferno! Si giovino costoro dell'odierno centenario, che tutta la massoneria celebra e solennizza.
Badino però gli adepti e i proseliti della religione del Voltaire, che essi, onorando la morte di quest'uomo e facendone insieme un idolo ed un simbolo della loro fede e delle loro speranze, non possono storicamente compendiar tutto in altro, che in quel vaso, il cui tracannamento fu l'atto finale della sua vita.
O frammassoni dei due emisferi, ecce quem colitis! Suvvia, piegate le ginocchia a terra e adorate Francesco Voltaire, che muore divorando il suo sterco!

NOTE:

[1]
Voltaire, sa vie et ses oeuvres parM. l'Abbé Maynard, chanoine honoraire de Poitiers, Vol. 2, Paris, Bray, 1868.

[2] A questo proposito, bello è l'acrostico pubblicatosi testè in Francia, per occasione del centenario di questo schifosissimo uomo.
Vulgariser l'erreur, et salir la vertu,
Oser mentir, mentir, et dans quelque impromptu,
Libelle, ode, poëme ou bien lettre badine,
Traîner jusqu'à l'égout sa muse libertine,
Aduler Fridéric, flatter la Pompadour,
Insulter Jeanne d'Arc en termes de pandour,
Rougir d'être Français, déshonorer son ère
Est-ce là mériter l'honneur d'un centenaire?

[3] Questa dichiarazione, copiata sul processo verbale, fu deposta presso il Momet, pubblico notaio di Parigi. V. Barruel, Mémoires pour servir à l'histoire du Jacobinisme. Vol. II, pag. 375, edizione di Londra 1797.
[4] Loc. cit. pag. 377.
[5] Ioan. VIII, 21.
[6] Prov. I, 26.
[7] Iac. II, 19.


[...] nel Voltaire esemplarmente e pienamente si avverò la più tremenda delle minacce, che Dio abbia fatte agli ostinati oltraggiatori del santo suo nome e della sovrana maestà del suo Cristo: –– Voi mi cercherete, quaeretis me, e morrete nel vostro peccato: et in peccato vestro moriemini. Nell'estremo punto anche il Voltaire cercava Dio ed il suo ministro, che avea beffato e scornato, quand'era ancora in tempo di valersene, per ottenere il perdono: ma era tardi e morì nel suo peccato. Ed altrove il Signore Iddio così parla a chi si ride di lui e della sua pazienza nel sopportare le offese: –– Io pure nella perdizione vostra, in interitu vestro, riderò e vi schernirò, irridebo et subsannabo. In quel punto, il disgraziatissimo Voltaire vide, sentì e confessò quanto formidabile sia lo scherno dell'Onnipotente, vendicatore delle beffe all'onor suo ed alla sua Chiesa fatte. Come Iddio ripagò l'empio colla stessa sua moneta! Come lo sottopose a una durissima pena di taglione! In cambio delle preghiere con cui la Chiesa santamente conforta i moribondi fedeli, ebbe i motteggi e gli spregi de' suoi compagni; ed in cambio del pane eucaristico, ch'egli avea profanato colle sue bestemmie e co' suoi sacrilegi, si ebbe ed inghiottì lo sterco. Oh, il bello e salutare frutto, che tanti possono ricavare dalla secolare memoria di questa eloquentissima manifestazione della giustizia di Dio!

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 43°): Iniziano l'assedio e il bombardamento di Gaeta

Il Re e la Regina delle Due Sicilie, Francesco II e Maria Sofia  ( sulla destra) al fianco dei loro fedeli Soldati  dentro le mura della Fortezza di Gaeta durante l'assedio .


Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.


Mentre in Gaeta abbiamo l'armistizio concesso a Cialdini per opera di Napoleone, affinchè con migliore comodità si preparassero le offese, noi volgeremo un ultimo sguardo al Reame delle Due Sicilie.
Pria di tutto è necessario ragionar brevemente della Cittadella di Messina, la quale avea in quel tempo 4155 soldati, 199 uffiziali, 28 artefici, 38 spedalieri e 26 galeotti; oltre delle famiglie che eransi rifugiate in quella Piazza.
La truppa occupava i forti S. Salvatore, Lanterna e Lazzaretto. Nulla avea di casermaggio; Clary pria di lasciare Messina avea dato tutto all'appaltatore. I soldati che aveano compiuto il tempo del servizio, rifiutarono il congedo; ed avendo il generale Fergola sospeso le paghe, il 26 novembre dichiarò che erano giunti i giorni di vera prova; tutti i soldati risposero col solito grido di viva il Re! e si sottomisero a tutte le privazioni. Mancava il tabacco, e Fergola lo comprò col suo danaro. Gli uffiziali della Cittadella pegnorarono gli ornamenti preziosi delle loro mogli, per comprare grano ed altre provvisioni necessarie.
Ogni sera i soldati si recavano in chiesa, e compivano tutti i doveri di buoni cattolici, e dando ne' rincontri attestati d'irrefragabile bravura.
Il 27 novembre, arrivava a Messina il generale sardo Chiabrera con due Reggimenti; e il 13 dicembre arrivava Negri sulla fregata Borbone, detta poi Garibaldi: Negri interrogò Fergola, se, caduta Gaeta, e' cederebbe: questi rispose risolutamente, NO. Il mio dovere, disse, è prescritto dalle Ordinanze, né questa Piazza dipende da Gaeta, ma dal Re nostro Signore.
Il 13 dicembre, il Re mandò a Fergola diecimila ducati, gliene mandò altri ventimila il 16 dello stesso mese per mezzo del benemerito e distinto Capitano Michele Bellucci, oltre una quantità di panni e vettovaglie.
La piccola fortezza di Civitella del Tronto negli estremi Abruzzi, comandata dal Capitano di gendarmeria Giovine, resisteva eroicamente all'assedio e bombardamento. Il feroce generale Pinelli, il fucilatore de' poveri villani, in novembre avea circondato quella fortezza con posti avanzati sino a mille metri distanti; però percosse le sentinelle piemontesi, da' soldati borbonici, diedero indietro. Il 25 e 29 di quel mese, gli assediati fecero due sortite, e fugarono gli assedianti.
Pinelli bombardò il paese per due giorni, cioè il 10 e 11 dicembre, e cagionò danni solamente alle case de' cittadini, nessuno ne arrecò alla fortezza.
Il 20 dicembre, i soldati borbonici uscirono fuori Civitella per far provvisioni di legna; essendosi incontrati co' Sardi, appiccarono zuffa e l'inseguirono; assaltarono la Gran guardia, saccheggiarono i posti militari, e trovando una Chiesa insozzata di tutte le abbominazioni, presero le statue de' Santi e le condussero dentro il paese collocandolo nella Chiesa Madre.
Pinelli, umiliato ed adirato, si vendicò con abbruciare tutte le case attorno Civitella; ed avendo ricevuto rinforzi con macchine di guerra e scale per salir le mura della fortezza; fu di nuovo respinto, lasciando macchine e scale in potere de' Borbonici. Allora chiede un armistizio di otto giorni, e gli accordato. Le ostilità si cominciarono il 17 gennaio. Il Capitano Giovine, per mezzo di Filippo Enea ardito paesano, diede al Re Francesco contezza di tutti i fatti d'armi di Civitella. Il Re lo ringraziò, lo promosse a Colonnello, e gli diede facoltà di promuovere i suoi dipendenti e rilasciar brevetti sino al grado di Capitano!
L'eccelso Farini, che pure avea preso gusto a far da Sovrano e far saccheggiare i reali palazzi, come avea fatto in Modena, saccheggiandone l'argenteria, il guardaroba e le cantine del duca regnante, pensò far lo stesso in Napoli. Già i mobili di Casa reale erano spariti, e la Città di Napoli fu costretta ammobigliare a proprie spese i Palazzi per gli alloggi del Luogotenente, e per ricevere convenevolmente il novello Sovrano. Era però sfuggito al saccheggio il mobilio di S.A.R. il Conte di Trapani per vendita fattane a tempo dell'onesto amministratore, comm. Giacinto Manera. Il Farini servendosi di un certo Vio Veneziano e Maggiore garibaldino, si fece presentare da costui una denunzia, nella quale si dicea, che Manera avea involato e venduto il mobilio del Conte di Trapani. Farini, avuto questo gran documento nelle sue mani, scatenò i poliziotti, e senza mandato di alcun giudice, o forme legali, fece invadere gli appartamenti del Conte di Trapani e quelli di Manera, sequestrando e suggellando tutto il bellissimo mobilio.
Manera protestò con le stampe, e reclamò presso i tribunali; conciosiachè dal decreto dittatoriale del 12 settembre 1860, chiaro appariva che i beni di acquisto privato, allodiali o patrimoniali, e specialmente quelli de' Principi reali secondogeniti, non erano inclusi nel suddetto decreto di spoliazione regia. Manera fu contradetto e vessato, specialmente da Talamo presidente del tribunale civile, e da Savelli procuratore generale, tutti e due che poco prima si mostravano sfegatati borbonici.
Manera però non si perdè d'animo, ad onta pure del chiasso che fecero i rivoluzionari, dichiarando ladri i Borboni ed i borbonici; egli intrepido difese i diritti del Principe reale a lui affidati. Quella lite si protrasse sino al 29 aprile 1861: Manera ottenne giustizia per quanto i tempi lo permettessero, e la Città di Napoli fu obbligata pagare tutti i danni, spese ed interessi a causa della prepotenza ed ingordigia di Farini. Ecco una delle ragioni per cui i municipii son ridotti alle ossa da 15 anni a questa parte!
Il debito pubblico napoletano era una spina negli occhi di Cavour; quel debito era salito al 120; dopo che Francesco II lasciò Napoli scese al 114, e più tardi all'80; mentre quello del Piemonte era al 76! Cosa strana ed ammirevole, il vinto spogliato avea più credito del vincitore fatto già ricco con le spoglie del vinto! Era questo uno scandalo come tutti gli altri e Cavour ne sentiva tutta l'onta, e ne prevedeva le brutte conseguenze finanziarie: quindi pensò uguagliare le miserie del Piemonte con le ricchezze del Regno di Napoli, il credito di quello col credito di questo.
Per raggiungere questo scopo, Cavour, aiutato da Farini, usò tutte le male arti, ricorse pure a vendere a basso prezzo la rendita sequestrata alla famiglia reale di Napoli; e non essendo riuscito neanche questo mezzo, ordinò a Farini di creare un nuovo debito, e costui decretò un prestito di venticinque milioni, e vendette seicentocinquantamila ducati di RENDITA napoletana, che comprò Rothschild al 74. E così a forza di astuzie, e far debiti, ch'è il gran forte finanziario dei rivoluzionarii, si uguagliarono le miserie del Piemonte con le ricchezze del Regno delle Due Sicilie. Il popolo redento e sovrano ne faceva le spese!
Sotto la Luogotenenza di Farini tutto andò a soqquadro, principalmente le finanze e la sicurezza pubblica. Quel Luogotenente, tra le altre manìe avea quella di snocciolare leggi piemontesi, non comprese e non accette nel Reame di Napoli.
I partiti si dilaniavano con furore spaventevole; ogni giorno si faceano dimostrazioni contro Farini e contro i consiglieri della Luogotenenza; si presentavano petizioni con migliaia di firme per essere Napoli liberata dall'eccelso e da' suoi consiglieri.
Trai garibaldini ed uffiziali piemontesi, in quel tempo furono duelli, zuffe e lotte. A 30 dicembre fu ferito di pugnale il liberalissimo duca S. Donato; e dopo pochi giorni si attentò alla vita del consigliere Scialoia.
Lo stato di Napoli raccomandava poco in Europa il nuovo ordine di cose. Il potente e magnanimo alleato, Napoleone III, che avea consigliato moderazione e clemenza a Francesco II verso i rivoluzionarii, consigliava poi all'amico Cavour rigore a qualunque costo. Costui senza farsi troppo spingere, avendo dichiarato a Persano, che il tempo delle grandi misure era giunto, mandò ordini all'eccelso Farini, di mettere in esecuzione delle leggi simili a quelle della Convenzione francese del 1792.
Farini conoscea che i rei erano tutti liberali, ma avea paura d'incrudelire contro gli antichi consettarii, e volendo far rumore e paura, incrudeliva illegalmente contro i soli Borbonici. Senza prove e senza mandato di autorità giudiziarie, in breve tempo riempì le carceri di sospetti di Borbonismo; tra gli altri più noti furono arrestati i Generali Barbalonga, de Liguori, Palmieri, d'Ambrosio, e i due fratelli Marra, tutti uomini d'onore e prodi militari. Altri uffiziali capitolati di Capua arrestò e gettò ne' castelli; ed arrestò pure i Gendarmi borbonici, ancorchè costoro avessero aderito alla rivoluzione, e si fossero fregiati della croce sabauda, servendo il nuovo Governo. Con tutti questi pretesi Catilina imprigionati, il Reame rimase nel medesimo stato in cui si trovava.
Farini per ultimo atto della sua eccelsa Luogotenenza, avendo fame di danaro, sequestrò le rendite de' Vescovi assenti dalle Diocesi, perchéerano assenti senza motivo canonico. Il motivo canonico dell'assenza de' Vescovi dalle proprie Diocesi era lo stesso Farini, il quale non dava loro riposo perseguitandoli in tutti i modi, e scatenando contro di loro la canaglia settaria. L'eccelso col suo motivo canonico, a proposito immaginato, fece un grosso boccone delle rendite vescovili; conciosiacchè in quel tempo si trovavano trentotto Vescovi fuggiti dalle proprie Diocesi.
Re V. Emmanuele poco contento del governo di Farini, il 26 dicembre partì da Napoli, e giunse il 29 a Torino: il 30 in consiglio di Ministri destituì Xeccelso Farini dalla Luogotenenza di Napoli, e vi sostituì il Principe di Carignano.
Farini, che era venuto a Napoli per restaurare l'ordine morale, depravò l'amministrazione e il popolo; e, simile a tutte le celebrità rivoluzionarie, cadde come corpo morto cade.
Farini, persecutore de' Vescovi del Regno, era lo storico-libellista, il saccheggiatore del Palazzo del Duca di Modena, l'amico e il protettore del rapitor di fanciulle, del ladro, del sicario Curletti! Era quello che avea ordinato a costui l'assassinio del colonnello Anviti di Parma. Farini dicea di voler morir povero, morì ricco di sostanze, e povero di ragione: divenuto pazzo giunse a cibarsi del proprio sterco, come l'ateo Voltaire! I cattolici, a cui fece tanto male, non lo maledirono, anzi pregheranno il Dio delle misericordie, che abbrevii le sue pene, se si trovi in luogo di purgazione. Però lo storico, qualunque siasi, è nell'obbligo di far conoscere qual fu la vita e la fine de' calunniatori e persecutori della Chiesa, perché ciò serva di salutare esempio a' presenti ed a' posteri.
Il principe di Carignano Luogotenente di Napoli, fu investito di poteri regi sino all'apertura del Parlamento italiano. Un decreto del 7 gennaio gli assegnò 20 milioni di lire annuali a peso dell'erario napoletano! Gli si diede a latere per segretario generale, superiore a tutti i consiglieri di Luogotenenza, Costantino Nigra, bellimbusto e paraninfo tra gl'intrighi napoleonici e cavourriani.
Giunto a Napoli il principe di Carignano fu ricevuto da Farini, e costui gli fece un discorso come un re che cede la corona ad un altro re.
Nigra sparse delle proclamazioni, promettendo, al solito, tutto il ben di Dio; e si augurava che i Napoletani avrebbero difeso in avvenire su' campi di battaglia il nuovo ordine di cose. A quelle proclamazioni fece eco, lo stesso giorno, l'infelice Vescovo Caputo, pubblicando una lettera sul Giornale Ufficiale, nella quale vomitava insulti e calunnie contro i Principi spodestati non escluso il Papa!
Il 17 gennaio, il nuovo Luogotenente costituì un novello consiglio di Luogotenenza: Spaventa fu creato consigliere di polizia, Mancini del culto, La Terza delle finanze, Oberty de' lavori pubblici, Imbriani dell'istruzione pubblica, Avossa della giustizia; e, il risuscitato da Nigra, D. Liborio Romano fu creato consigliere dell'interno! Costui, in meno di sei mesi, avea servito tre padroni che tra loro faceano a calci!
Questi consiglieri non piacquero ad alcun partito, e si fecero indirizzi al Luogotenente per cacciarli via. Anche la Guardia nazionale fece le sue lagnanze a Nigra contro que' consiglieri.
Nigra andava dicendo mirabilia contro l'amministrazione dell'eccelso Farini, e per provarlo co' fatti, un decreto del Luogotenente ordinò che si prestassero venti milioni di lire dall'erario di Torino; mentre Farini, il 9 dicembre, avea fatto un prestito di venticinque milioni di lire, ed avea venduto seicentocinquantamila ducati di rendita napoletana. Vicende della rivoluzione, Torino prestava danaro a Napoli!
Un decreto del 3 gennaio stabiliva l'elezioni al Parlamento italiano pel 27 dello stesso mese, poichè le Camere doveano riunirsi il 18 febbraio.
I cattolici del Piemonte e della Lombardia sin da allora emisero il celebre motto: né eletti né elettori. Que' cattolici dissero tre principali ragioni per legittimare il loro astenersi dalle urne elettorali, cioè: 1° perché mancava la libertà del voto, e se risultassero buoni deputati sarebbero cassati come accadde nel 1858 nel Parlamento subalpino; 2° eleggendo un Parlamento per tutta l'Italia, si sarebbe riconosciuta implicitamente la rivoluzione e la spoliazione del Papa; 3° perché i cattolici sarebbero sopraffatti dall'audacia e dagli intrighi degli stessi rivoluzionarii. L'astensione de' cattolici spiacque a Cavour, conciosiachè egli, conoscendo la loro moderazione, prometteasi di farsene egida contro i repubblicani. In Napoli si fece di tutto per far risultare deputati cavourriani, e non si premurarono i cattolici ad accorrere alle urne perché credeansi borbonici; anzi si scatenarono i camorristi, si fecero mettere a soqquadro le direzioni e le tipografie di tre giornali cattolici, e fu proibita la pubblicazione di que' giornali che aveano per titolo: La Croce rossa, L'Aurora e l'Equatore.Cavour in Napoli avea il celebre D. Liborio Romano; costui intrigava in tutti i modi per far eleggere deputati cavourriani; egli si fece nominare in otto collegi, ad onta che Dumas nel giornale l'Indipendente avesse rivelate tutte le vergogne di quel traditore.
Siccome alle urne elettorali accorsero molti camorristi e gente plebea, avvennero soprusi, ed in molti luoghi si versò sangue; questi fatti giustificano pure l'astenersi dei cattolici.
Tutto lo sforzo rivoluzionario in quel primo entusiasmo non potè riunire in tutta Italia più di centomila elettori, sebbene ne facessero comparire duecentoquarantaduemilacinquecento ottantuno. Basta dire che il redentore Garibaldi, nella popolosa Napoli, appena raggranellò trecento settantasei voti, e con questo scarso numero di votanti fu eletto deputato al Parlamento italiano. Nel Parmense uscì eletto un deputato con trentanove voti!
In Sicilia l'anarchia facea sempre progressi, e il decreto del 3 gennaio, che convocava i collegi elettorali, inasprì di più i partiti; chi volea la monarchia, chi la repubblica, chi il comunismo, ed erano questi ultimi i nullatenenti. I così detti comunisti in Mascalucia invasero le proprietà de' ricchi, dichiarandosi essi proprietarii pel diritto della ottenuta libertà ed indipendenza: fu necessario l'intervento di due battaglioni di bersaglieri per far ritornare alla ragione que' nuovi annessionisti.
I Consiglieri di Luogotenenza davansi al giuoco dello sgambetto, ed a guisa d'istrioni entravano ed uscivano dalla scena. Primo Torrearsa, poi Turrisi ed Amari si dimisero da' loro dicasteri, indi i consiglieri Marchesi ed Orlando. Il 26 febbraio il Consiglio rifecesi in questo modo: Amari all'interno e finanze, Santocanale alla giustizia culto ed istruzione pubblica, Carini alla sicurezza pubblica.
In que' tempi in cui ogni libero cittadino dovea eleggere il deputato al Parlamento italiano, furono mandati in Sicilia altri quindicimila soldati piemontesi; quell'Isola era in vero stato di assedio.
Gli Abruzzi erano in piena reazione, e supplicavano il Re Francesco in Gaeta a mandar soldati, perché si unissero a' paesani ed attaccassero alle spalle i Piemontesi in Mola. Il Re ridotto in Gaeta non potè soddisfare i desiderii degli Abruzzesi per assoluta mancanza di mezzi. I reazionarii si rivolsero a Roma ov'erano molti uffiziali e soldati napoletani, i quali si riunirono sotto il comando del noto legittimista Conte de Christen francese, e marciarono per gli Abruzzi, ove si riunirono a parecchie soldati sbandati. Il primo paese che assalirono fu Tagliacozzo; ivi si trovavano 400 Piemontesi, li fugarono, e ne fecero molti prigionieri. Un Giacomo Giorgi luogotenente di de Christen, con poca forza volle avanzarsi sino a Scurgola. Era egli guidato da un certo Piccione stato garibaldino, il quale diede avviso a' Piemontesi di tutto quello che i Borbonici aveano divisato di fare. Giorgi fugò i Piemontesi che trovavansi in Scurgola, bivaccò nel paese, e pose i feriti nella Caserma della Guardia nazionale, facendoli assistere dal Chirurgo Mauro, e dal Cappellano D. Gennaro Orsi. Nella notte sopraggiunse la cavalleria sarda e molti battaglioni; vi fu un vero massacro di Borbonici. Giorgi fuggì a stento, e parecchi soldati napoletani si salvarono sopra i monti. I Piemontesi entrarono nella Caserma della Guardia nazionale, e trucidarono que' miseri feriti! Indi presero il Chirurgo e il Cappellano, il primo lo fucilarono, il secondo, dopo avergli fatto soffrire tormenti da barbari, lo legarono ad un albero e lo finirono a colpi di baionetta! Fu così orribile e selvaggio il massacro di Scurgola che dovette giungere ordine dal Comando di Avezzano di tosto sospendersi. Intanto i prigionieri piemontesi fatti a Tagliacozzo furono trattati con cortesia, e mandati a' Francesi nello Stato pontificio.
Nel tempo che Gaeta era assediata, in tutti gli Abruzzi i paesani combatteano da disperati contro i Piemontesi, e costoro fucilavano, ardeano case e paesi. Tagliacozzo, perché occupato da' Borbonici, venne saccheggiato da' Sardi: lo stesso avvenne alla Badìa di Casamari, ove i monaci furono parte maltrattati e parte dovettero salvarsi con la fuga. Il bottino fatto aTagliacozzo e Casamari fu venduto a Sora, Castelluccio ed Isoletta.
De Christen che si era salvato dalle stragi di Scurgola, avea riparato a Bauco, paesetto in cima ad un Monte; egli avea raccolti tutti i soldati sfuggiti al massacro di Scurgola, ed altri ne avea raccolti che accorrevano da diversi paesi. Il Generale de Sonnaz, quello che avea insultato i Napoletani a Terracina, si partì da Sora con duemila soldati e due cannoni per isnidare de Christen da Bauco. Più volte assalì quel paesello, e sempre fu respinto con perdite. I soldati napoletani non avendo più munizioni, rotolavano grosse pietre sopra i Piemontesi, i quali aveano già perduti 180 uomini tra morti e feriti. De Sonnaz ignorando che i Borbonici non aveano più munizioni, offerse patti.
Fu convenuto che de Sonnaz si ritirasse il primo e poi de Christen. E quel Generale, che abbiamo veduto tanto superbo in Terracina, fu costretto ritirarsi di fronte a quelli ch'egli chiamava briganti, lasciando i proprii feriti a Casamari. Però costoro morirono quasi tutti, perché come ho detto, quella Badia era stata saccheggiata ed incendiata dagli stessi Piemontesi, ed i feriti non trovarono più né farmaci, né viveri, né utensili, né monaci per assisterli...
De Christen raccolse sotto Bauco 147 fucili, e parecchi soldati piemontesi semivivi, che soccorse e fece condurre a Veroli.
Il celebre generale Pinelli, memore sempre del colpo di pietra che avea ricevuto alle reni da' paesani di Pizzoli, si vendicava e si divertiva nell'Abruzzo superiore a fucilare tutte quelle persone che sospettava fossero reazionarie. I montanari di que' paesi usavano rappresaglie sopra tutti i soldati piemontesi che cadeano in poter loro. Ne teneano una compagnia assediata da più giorni ad Acquasanta: il Pinelli, il 28 gennaio, vi accorse, con quasi un esercito, e liberolla. Quel sanguinario Generale seguitò ad imbestialire contro i paesani; e sapendoli cattolici, per far loro dispetto lasciava saccheggiare ed abbruciare Cappelle e Chiese, facendo vestire i soldati degli arredi sacri, e li facea vedere a' paesani! Pinelli, non so se più feroce o pazzo, avendo perpetrate nell'Abruzzo azioni ridicole e nefande, il 3 febbraio diede il seguente ordine del giorno: «Un branco di quella progenie di ladroni ancor s'annidia su' monti; snidateli, siate inesorabile come il destino. Contro nemici tali la pietà è un delitto; sono prezzolati scherani del Vicario non di Cristo ma di Satana. Noi li annienteremo, schiacceremo il sacerdotal vampiro, che con le sue sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra. Purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infeste dall'immonda sua bava, da quelle ceneri sorgerà più rigogliosa la libertà.»
Sull'empietà di quest'ordine del giorno io mi taccio. Dirò solamente ch'è degno di un Pinelli che lo scrisse, uomo senza coltura, e con anima di fango. E pure fu lodato dal giornale Il Popolo d'Italia dichiarandolo un generoso proclama! Ohse l'avesse scritto un Generale borbonico...! Ma fu biasimato da tutta la stampa liberale estera, la quale dichiarò Pinelli uomo feroce e da trivio. Il Governo sardo fu costretto a decretare il ritiro di Pinelli (ed era il secondo finto ritiro!). Fu sostituito da un disertore dell'esercito napoletano, Luigi Mezzacapo, il quale senza pubblicare gli ordini del giorno del suo predecessore, ne seguì l'esempio. Nonpertanto Pinelli stette altri giorni al comando, poi si ritirò; ed a mezzo aprile, fu mandato di nuovo a far peggio. Egli parodiava Tito Augusto ma nel male; spesso alzandosi di desco mezzo ubbriaco esclamava: oggi, giornata perduta, non ho fucilato nessuno!Pinelli era nato da onesta famiglia, i suoi parenti furono tutti gente onorevolissima: suo fratello Pier Dionigi fu ministro in Piemonte, un suo nipote Procuratore sostituto alla Procura Regia di Napoli. Prima della guerra di Crimea, La Marmora, riformando l'esercito sardo, mandò via il Pinelli; ed interpellato in Parlamento disse tutte le vergogne che avea commesse costui. Bisogna leggere il liberalissimo giornale la Democrazia di Napoli del 1861 per conoscere quale uomo empio, scostumato e triviale era il Pinelli.

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).

mercoledì 29 agosto 2012

La Monarchia Sacra Parte terza : La Monarchia Sacra e la Teologia: Il rito dell’unzione dei Re dal punto di vista sacramentale


 
 

Il rito dell’unzione non è un vero e proprio sacramento, ma un sacramentale. Questa distinzione è fondamentale. I sette Sacramenti, istituiti direttamente da Cristo in ordine alla santificazione delle anime, producono il loro effetto soprannaturale ex opere operato. Sono, cioè, efficaci per se stessi, a prescindere sia dalle disposizioni di chi li conferisce, sia di chi li riceve.
«La santificazione è prodotta dal Sacramento stesso come tale, indipendentemente dalla santità del ministro, e anche senza che le disposizioni del ricevente vi concorrano come causa efficiente». Essi costituiscono chi li riceve nell’ordine soprannaturale.
Poiché la potestà temporale deriva da Dio in quanto autore dell’ordine di natura, e non avendo disposto il Divin Redentore l’elevazione di tale autorità all’ordine soprannaturale, è conseguente che il rito dell’unzione dei sovrani non sia mai stato inteso come vero e proprio sacramento, bensì come sacramentale.
Vero sacramento è invece quello che conferisce autorità nella Chiesa, società perfetta soprannaturale.
«L’Ordine è il Sacramento della potestà ecclesiastica. Esso infatti conferisce direttamente la potestà di santificare (potestà di Ordine) e dà insieme una particolare idoneità al governo e all’insegnamento sacro».
I Sacramentali, dice il Codice di Diritto Canonico Pio-Benedettino al can. 1144, “sono cose o azioni, che la Chiesa suole adoperare, imitando in qualche modo i Sacramenti, per ottenere mediante la sua impetrazione, effetti specialmente spirituali”.
Vi sono tre specie di sacramentali: 1) le consacrazioni; 2) le benedizioni; e 3) gli esorcismi.
«Le Consacrazioni sono riti con cui si costituiscono sacre, cioè dedicate a Dio, in modo irrevocabile e solenne, alcune persone o cose […] Uno di questi riti è vero sacramento, cioè la Cresima; gli altri riti consacratori sono sacramentali. Elemento essenziale è l’unzione con Olii sacri: l’olio penetrando profondamente l’oggetto unto, serve ad indicare molto bene la dedicazione completa dell’essere al servizio di Dio. Ministro della Consacrazione è per sé il Vescovo».
L’efficacia spirituale dei sacramentali si ottiene, parte ex opere operantis, ossia dalle disposizioni individuali di chi li riceve, parte mediante l’impetrazione della Chiesa:
«Non si applicano in essi i meriti di Cristo ex opere operato [come per i sacramenti veri e propri]; insieme però si esclude anche che tutta l’efficacia sia ex opere operantis: l’efficacia viene soprattutto dalle suppliche della Chiesa. Poiché Cristo ha promesso di esaudire le suppliche della sua Sposa, i Sacramentali hanno un’efficacia ben grande».
La Chiesa dal conferimento dei Sacramentali si ripromette principalmente dei benefici spirituali come «l’eccitamento ad atti di Fede, di Speranza, di Carità ecc., e conseguentemente, a seconda della perfezione di questi atti, condono di pene, remissione di colpe e infusione di Grazia santificante. L’infusione diretta della Grazia non vi è inclusa, essendo riservata ai Sacramenti».
Il sovrano, quindi, che s’accosta devotamente al rito consacratorio, riceve un Sacramentale, che non gli conferisce l’autorità, che detiene già per divina disposizione prima della cerimonia, ma, grazie ed in virtù dell’impetrazione della Chiesa, ottiene una serie di Grazie che gli saranno d’ausilio nel compimento dei suoi doveri di sovrano.

Pio IX e la Rivoluzione italiana

libro
 
 
 

Come maturò l’appellativo di «Papa liberale» assegnato al beato Pio IX, in realtà strenuo difensore della Tradizione? A questo quesito risponde il Professor Roberto de Mattei nel suo esaustivo studio storiografico Pio IX e la Rivoluzione italiana (Cantagalli 2012, € 16.00, pp. 207).

Il primo atto del lungo pontificato di Pio IX (1792-1878), durato 32 anni, fu la concessione (16 luglio 1846) dell’amnistia ad oltre 400 detenuti ed esuli politici. Il gesto di clemenza era privo di connotazioni politiche, ma esso si trasformò nella propizia occasione, per le menti giacobine, di far divampare l’incendio ideologico rivoluzionario in tutta Italia e in buona parte dell’Europa, incendio che ebbe il suo apogeo nell’anno 1848. Fu un edificio politico artificiosamente costruito. Afferma de Mattei: «È in quell’ “artificiosamente montato” che non è difficile trovare le vere cause del “delirio collettivo dell’opinione pubblica” che, dal luglio del 1846 all’aprile del 1848, creerà, attorno al nome di Pio IX, il mito del Papa “liberale”, frutto in realtà […] di un “sistematico sfruttamento” delle iniziative del pontefice, per realizzare lo storico “abbraccio” tra la Chiesa e i principi della rivoluzione francese» (1).

Il giorno della pubblicazione dell’amnistia, una grande folla, con bandiere e torce al vento percorse le principali vie di Roma inneggiando a Pio IX e altre manifestazioni si tennero nei giorni successivi, così eclatanti da turbare lo stesso Pontefice, che invitò il popolo alla moderazione. Nel primo anno di governo il Papa concesse la libertà di stampa: era il 15 marzo 1847. Con questo provvedimento sperava di evitare altre concessioni e di risolvere così il problema della stampa clandestina. Tuttavia il risultato fu ben diverso: la stampa clandestina e radicale proliferò ancor più e aumentarono le proteste contro il governo pontificio. Intanto, da Londra, il rivoluzionario Mazzini (1805-1872) esortava a gridare «Viva l’Italia e Pio IX» (2).

L’intera Penisola era disseminata di società segrete che volevano destabilizzare gli ordini costituiti. Le piazze furono messe a ferro e fuoco e si inneggiava alla Costituzione. Il 10 febbraio 1848 il Papa pronunciò un’allocuzione che si concludeva con queste parole: «Benedite, dunque, o grande Iddio, l’Italia, e conservatele questo dono, il più prezioso di tutti, la fede!» (3). Ma di quella invocazione si utilizzò soltanto il termine «Italia» e si strumentalizzò il Papa per metterlo in contrapposizione con Metternich (1773-1859) che aveva definito lo stivale una semplice «espressione geografica».

Gli eventi incalzarono in maniera sempre più violenta e tumultuosa. I repubblicani anticlericali misero in atto il loro piano di odio e il legittimo governo romano fu rovesciato. Il 16 novembre 1848 migliaia di persone si mossero da piazza del Popolo verso il Quirinale, residenza del Pontefice. Le grida erano: «Tenete duro, giovanotti, oggi è l’ultimo giorno dei preti» (4) e «Abbasso Pio IX! Viva la Repubblica!» (5). La folla arrivò dunque al Quirinale, aprendo il fuoco sul cortile e sulle finestre, ad una di esse si trovava uno dei segretari del Papa, Monsignor Giandomenico Palma, che venne colpito a morte. Furono approntati due cannoni per sfondare il portone. A difendere il Pio IX, che non perderà la santa calma, c’erano una settantina di Guardie svizzere, una ventina di carabinieri e sei ufficiali della Guardia Nobile. Per fargli scudo si aggiunsero quasi tutti gli ambasciatori stranieri, ma non i rappresentanti degli Stati italiani. Il Sommo Pontefice per evitare lo spargimento di sangue cedette alla richiesta di costituire un governo provvisorio, ma dichiarò: «io non prendo nemmeno di nome parte alcuna agli atti del nuovo governo, al quale mi considero assolutamente estraneo» (6). Il Papa era prigioniero ormai dei rivoluzionari. Fu così che il 24 novembre Pio IX fuggì da Roma per raggiungere Gaeta.

La Repubblica romana del 1949 era l’espressione concreta di ciò che l’ideologia liberale, nata sotto la Rivoluzione francese, si era proposta di realizzare: la distruzione del cristianesimo e della Chiesa. Davvero significative sono le parole di Juan Francesco Maria de la Salud Donoso Cortés, primo marchese di Valdegamas (1809-1853) pronunciate al Parlamento spagnolo, tratte dal prezioso testo di de Mattei:

«Io mi proposi di parlar francamente, e così parlerò. Io affermo necessario, o che il Sovrano di Roma ritorni a Roma, o che più non vi rimanga pietra su pietra. Il mondo cattolico non può consentire, e non consentirà giammai, alla distruzione virtuale del cristianesimo, per una sola città in balia di pazzi frenetici. L’Europa civile non può consentire, e non consentirà mai che crolli il culmine della Civiltà europea. Il mondo non può consentire, e non consentirà mai, che nella insensata città di Roma si compia l’avvenimento al trono di una nuova e strana dinastia, la dinastia del delitto. (…) Le Assemblee costituenti, che possono esistere ovunque, non lo possono in Roma; a Roma non può esservi potere costituente, al di fuori del potere costituito. Roma e gli Stati Pontifici non appartengono a Roma, non appartengono al Papa; appartengono al mondo cattolico» (7).

Pio IX farà ritorno a Roma il 12 aprile del 1850, accolto dal tripudio popolare. Intanto, però, procedevano nei loro disegni le menti carbonare, i massoni inglesi, gli spiriti volterriani… e si compì l’usurpazione del potere temporale della Chiesa. Purtuttavia l’opera di restaurazione di Pio IX fu eccezionale. Risanò le finanze lasciate in stato fallimentare dal governo repubblicano e avviò una serie di importanti riforme amministrative. L’immagine di uno Stato della Chiesa arretrata è ben menzognera di fronte alle opere che vennero eseguite e che de Mattei riporta passo passo: vengono risanate le paludi di Ostia e dell’Agro Pontino; arginati i corsi d’acqua in tutto lo Stato pontificio; intrapresi i lavori portuali e costruiti moderni fari ad Ancona, Civitavecchia, Anzio, Terracina; realizzate migliorie nelle linee ferroviarie e nelle strade nazionali; costruiti o ristabiliti una ventina di viadotti, come quello monumentale fra Albano ed Ariccia; ampliate le linee del servizio telegrafico…. Progressi si riscontano anche nel settore industriale. Enorme poi l’opera assistenziale e ospedaliera; splendida la rinascita culturale, basti ricordare il sostegno morale ed economico che Pio IX diede per lo svolgimento delle ricerche archeologiche. Ma fra tutte le meritorie azioni avviate e portate a termine sotto il suo Pontificato c’è senza dubbio la valorosa battaglia che il Papa intraprese contro il perverso processo di secolarizzazione della società. Per un trentennio il marchigiano (8) e terziario francescano Papa Mastai Ferretti si batté senza posa per difendere i diritti della Chiesa in Europa, in America e in Asia.

Importantissimo risulta essere, poco dopo il suo ritorno da Gaeta, il ristabilimento della gerarchia episcopale in Inghilterra con la bolla Universalis Ecclesiae del 29 settembre 1850: vennero stabilite, per la prima volta, dopo la rivoluzione protestante iniziata da Enrico VIII, tredici diocesi governate dal nuovo arcivescovo di Westminster, Nicholas Wiseman (1802-1865). «A questo primo atto di sfida di Pio IX all’Inghilterra protestante e massonica che sotto la guida del “trio” Palmerston, Russel, Gladstone, avrebbe rappresentato uno dei suoi principali nemici, si possono ricollegare i tre grandi gesti pubblici del suo pontificato: la definizione dell’Immacolata (1854), la proclamazione del Sillabo (1864) e l’apertura del Concilio Vaticano I (1870)» (9). Tre punti fermi che vanno inquadrati non nel loro tempo, ma nell’eternità della Chiesa. Il Sillabo compendia, in dieci paragrafi, i principali errori di allora, errori che mantengono tutta la loro degenerante perfidia in ogni epoca della storia. L’enciclica Quanta cura, alla quale fu allegato il Sillabo, risulta la chiave di lettura di quest’ultimo. Veniva esposta la critica alla Rivoluzione francese e al Risorgimento italiano, facendo cenno alla libertà di pensiero illuminista come «libertà di perdere se stessi». L’enciclica affermava anche la forte critica del voler porre uno Stato aconfessionale rompendo il legame tra altare e trono fino ad allora vigente.

Il Papa condannava nel Sillabo, senza esitazioni o ambiguità, la filosofia del XIX secolo, che deifica la natura umana trasferendo ad essa gli attributi che nega a Dio; tale filosofia ha il suo nucleo nell’affermazione secondo cui «la ragione umana è l’unico arbitro del vero e del falso, del bene e del male” (III) e da essa “scaturiscono tutte le verità religiose” (IV)» (10). Vengono dunque banditi: panteismo, naturalismo, razionalismo, indifferentismo, latitudinarismo. Il Papa afferma categoricamente che la Chiesa non può e non deve ammettere che «ogni uomo è libero di abbracciare e professare quella religione, che, col lume della ragione, reputi vera” (XV) e “Gli uomini nel culto di qualsiasi religione possono trovare la via dell’eterna salute e l’eterna salute conseguire” (XVI)» (11). Ecco che viene condannato il relativismo religioso, contro il quale anche il beato Cardinale John Henry Newman (1801-1890) si scagliò. Relativismo religioso che penetrerà invece nelle maglie del Concilio Vaticano II attraverso il concetto di libertà religiosa, che riconosce in capo ad ogni persona il diritto soggettivo, nascente dalla stessa dignità dell’uomo, a non essere in alcun modo disturbato dalle azioni e dalle leggi statuali nell’osservanza del proprio culto; unico limite riconosciuto è l’ordine pubblico, vale a dire il fondamento politico ed ideologico che sta alla base di ogni singolo ordinamento giuridico: è trasferire dall’oggettivo diritto naturale, legge posta da Dio nella coscienza di ogni uomo, non incrostata da ideologie o false religioni, all’ideologia politica sottostante ad ogni ordinamento giuridico che non abbia alla sua base il suddetto diritto naturale: è il riconoscimento del più importante portato politico della riforma protestante, vale a dire la soggezione della verità metafisica e religiosa all’ideologia del detentore del potere politico. L’ironia involontaria del definire libertà ciò che, di fatto, è soggezione all’invadenza statuale, è la nota dominante di tutti gli aspetti politici del Modernismo.

Da questa viziata concezione di libertà, che, inevitabilmente, porta al totalitarismo, discende in maniera implicita, ma ineludibile, il principio secondo cui in ogni credo esiste un pezzo di verità e, quindi, anche attraverso le false religioni è possibile trovare la salvezza, vanificando in tal modo l’assoluto cattolico «Extra Ecclesiam nulla salus». Proprio contro il relativismo religioso Pio IX afferma che il Salvatore ha fondato una sola Chiesa con una unità di dottrina e di costituzione, a cui è necessario appartenere per trovare la Salvezza.

Inoltre con il Sillabo il Pontefice condannò categoricamente il socialismo, il comunismo, la massoneria, il liberalismo cattolico e il separatismo liberale, ovvero la separazione assoluta fra Stato e Chiesa. Fu il primo Pontefice a dichiarare erronei, dottrinalmente incompatibili con la dottrina cattolica e moralmente inaccettabili sotto ogni forma il socialismo e il comunismo e lo fece a partire dal 9 novembre del 1846 con l’enciclica Qui pluribus, denunciando «quella dottrina funesta e più che mai contraria al diritto naturale che chiamano “comunismo”, una volta ammessa la quale, sarebbero sconvolti i diritti, i patrimoni e le proprietà e persino la società umana» (12).

Significativa, inoltre, la constatazione che gli architetti rivoluzionari idolatrano lo Stato non anteponendo nessun diritto naturale ad esso. E dagli errori filosofici maturano e si sviluppano gli errori e i peccati. Da qui l’utilitarismo come norma di vita, ossia il servirsi di ogni strumento per raggiungere i propri scopi (machiavellismo), la distruzione del reale e vero concetto di diritto e di autorità, la corruzione, il principio di non intervento. Poi il Papa, nell’ottavo paragrafo, si sofferma sulla sacramentalità e indissolubilità del matrimonio contro gli scardinatori della famiglia, che sostenendo il divorzio, di fatto, scompaginano l’ordine sociale presente nel diritto naturale. Infine, nel decimo gruppo, vengono condannate la aconfessionalità dello Stato, la libertà di culto, la libertà di pensiero e di stampa. L’ultimo errore denunciato è quello secondo cui «Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e a conciliazione» (13).

Ebbene, Pio IX, il Papa della più ampia ed articolata condanna di ogni compromesso con il cosiddetto «pensiero moderno» è stato beatificato da Giovanni Paolo II (1920-2005) il 3 settembre del 2000, insieme a Giovanni XXIII, che aprì il Concilio Vaticano II, per portare la Chiesa ad avere una «simpatia immensa» verso «la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio» (14), come detto in quella significativa sintesi di tutta l’Assise che fu l’omelia di chiusura del medesimo pronunciata da Paolo VI (1897-1978).

Afferma il professor Roberto de Mattei: «Pio IX è stato beatificato innanzitutto per la virtù eroica dimostrata nello svolgere le funzioni caratteristiche del Papa, che sono quelle di pascere, reggere e governare la Chiesa universale» (15). Postulatore della causa di beatificazione è stato Monsignor Brunero Gherardini, succeduto nell’incarico a monsignor Antonio Piolanti (1911-2001). Pare quasi che il beato Pio IX assista monsignor Gherardini nella sua ardua, ma salutare impresa teologica: quella di far finalmente chiarezza, con i suoi illuminati e illuminanti libri, sugli errori che sono divenuti presunto patrimonio comune della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II.

Cristina Siccardi



NOTE



(1) R. de Mattei, Pio IX e la Rivoluzione italiana, Cantagalli, Siena, p. 31.

(2) Ivi, p. 36.

(3) Ivi, p. 43.

(4) Ivi, p. 50.

(5) Ibidem.

(6) Ivi, p. 51.

(7) Ivi, p. 60.

(8) Era nato a Senigallia, in provincia di Ancona.

(9) R. de Mattei, Pio IX e la Rivoluzione italiana, Cantagalli, Siena, p. 66.

(10) Ivi, p. 148.

(11) Ivi, pp. 148-149.

(12) Ivi, p.149.

(13) Ivi, p.159.

(14) Paolo VI, Discorso di chiusura del Concilio Vaticano II, 7 dicembre 1965.

(15) Ivi, p. 190.



Fonte: FSSPX