LA MIA PERSONA È TUTTO, IL MIO PRINCIPIO È NULLA
Gli
Orléans sono sempre stati dinastia, tuttavia, le Leggi Fondamentali
del Regno li pongono
molto indietro rispetto al ramo primogenito d'Angiò.
Un principe d’Orléans che voglia tuttavia soddisfare un'ambizione reale deve comunque rinunciare al principio di legittimità per non sottolineare la sua unica pretesa . Il fu Conte di Parigi è l'esempio estremo di questa strategia sostenuta da suo nonno, l'usurpatore Luigi Filippo. L’abbandono della trascendenza - sebbene inerente alla monarchia – lo condannò a volte a fare una corte servile al potere in carica, a volte prostituendosi all’opinione del giorno, abdicando di fatto ad ogni coraggio ed onore.
Un principe d’Orléans che voglia tuttavia soddisfare un'ambizione reale deve comunque rinunciare al principio di legittimità per non sottolineare la sua unica pretesa . Il fu Conte di Parigi è l'esempio estremo di questa strategia sostenuta da suo nonno, l'usurpatore Luigi Filippo. L’abbandono della trascendenza - sebbene inerente alla monarchia – lo condannò a volte a fare una corte servile al potere in carica, a volte prostituendosi all’opinione del giorno, abdicando di fatto ad ogni coraggio ed onore.
Chi è quindi il Conte de Parigi?
Nell'aprile
1956, in un articolo apparso su Ecrits
de Paris , René Johannet,
cercando di discernere " il
futuro del Conte di Parigi ",
si espresse in questi termini:
La posizione del Conte di Parigi è una delle più strane che si
possa immaginare. Di tutti i
pretendenti al trono di Francia, che si sono succeduti da più di un secolo, egli
è certamente il più zelante, il più attivo, il più ambizioso.
Non è
poco di meno riuscito a far abrogare la legge d'esilio contro di lui. Meglio
ancora: fa cuginanza con la sinistra estrema, fa comunella con Mendès, Edgar
Faure, collabora con Monde,
si vede citato da un ministro in piena Camera.
Che la Repubblica stia scomparendo, ne sarà l'ultimo testimone, il testimone dei suoi dubbi più segreti.
Che la Repubblica stia scomparendo, ne sarà l'ultimo testimone, il testimone dei suoi dubbi più segreti.
Per ritrovare
una simile anomalia, dobbiamo tornare al periodo di massimo splendore del
partito radicale, quando si spedivano d’ufficio a Bruxelles le nuove reclute di
riguarda da presentare al principe Vittorio Napoleone. Detto tra noi, questo non ha portato
molto lontano il principe Vittorio.
Questo
non ha affatto portato molto lontano il Conte di Parigi, dal momento che, dopo
un mezzo secolo di vita politica, ha pubblicato un libro disincantato [le sue Memorie], e fornisce alcune dichiarazioni
che non promette nulla di buono sul destino della sua Casa. Ma può essere grave
per l’attaccamento alla monarchia francese, e da cui converrebbe prendere le distanze.
Un Pretendente moderno liberato dal realismo
Liberarsi dall’attaccamento alla monarchia dell’orleanismo di Maurras
Il
principe Henry, a cui non possiamo senza ingiustizia contestare il gusto al
mestiere politico, la tenacia, il desiderio di servire il suo paese, e
l'ambizione agli affari ad ogni costo, violenza a parte, è partendo da questo presupposto che il
movimento monarchico, ridotto alle sue proprie forze, non fu in grado di
ottenere la restaurazione.
Ha
quindi cercato di "liberarsi dal realismo", rompendo
radicalmente con l'Action Française. Egli
lo spiega all'inizio del suo libro, raccontando la sua presa di coscienza, la
sua mancanza di entusiasmo per le idee e la personalità di Maurras, di cui ne
riconosce "l'intelligenza luminosa", ma rifiuta il carattere cavilloso
e l’"intransigente certezza". Ne dipinge un quadro
inquietante:
Tutto in lui trasudava autorità: il torace curvo, i baffi e la barba
irti, e quel naso, brufoloso, enorme, vinoso, che dava all'aspetto generale la
fisionomia di qualcosa di vecchio, patetico e spaventoso.
Le
sue simpatie erano piuttosto per i dissidenti dell’AF, Georges Valoise e
Bernanos specialmente che gli "portavano una ventata meravigliosa, un pensiero
nuovo e forte, pieno di luce".
Seppellire la vecchia legittimità
Significativamente,
manifesta la propria innata ostilità, molto orleanista, al Comte
de Chambord , -
"quella della bandiera bianca", come la chiama con disprezzo,
dimenticando la responsabilità schiacciante dei suoi antenati per la mancata
restaurazione! Non è solo qui, fate attenzione,
un'avversione ad hominem , ma il ripudio cosciente del principio di legittimità
tradizionale, senza il quale, appunto, il Comte de Chambord diceva essere nessuno.
All'estremo
opposto di questo atteggiamento, il Conte di Parigi vorrebbe essere qualcuno "facendosi perdonare di essere un principe",
seguendo il consiglio di Luigi Filippo ai propri figli.
Il
Pretendente si compiace di avere scritto (p. 362) che " l’antica legittimità, distrutto nel
sangue e nella collera, non è mai stato veramente restaurata", e fa
suo questo proposito di Berdiaeff:
... Il vecchio legittimista
è morto, apparteneva ad un'altra storia, ed è come inseguire un fantasma perseguire
la sua restaurazione.
Aggiunge,
calcando la mano di modo che nessuno lo ignori:
In un momento in cui l'effetto della legge religiosa è sempre
più ridotto per estensione e profondità, dove la famiglia, dove esiste ancora,
si restringe ad una cellula solitaria, in cui l’eredità è divisa tra i costumi
e le leggi, in cui l'esercizio della gestione dei beni acquisiti per
successione è sempre più contestato e sempre meno praticato quando questi bene
sono di una certa importanza, sarebbe ragionevole considerare di fare rinascere
una legittimità che fondava le credenze religiose, la durata di una famiglia ed
il diritto ereditario?
Il salvatore degli ideali della Repubblica
Quindi,
si penserà, che il Conte di Parigi non è più monarchico? – La realtà è meno chiara. Il principe, in questo molto Orléans,
ha voluto recuperare la contro-tradizione della sua stirpe, l'immagine del
"pretendente moderno". Ascoltatelo
spiegare se stesso (p. 118):
Il mio ambiente sociologico era contro di me: mi considerava un
principe rivoluzionario e non mancava mai Maurras, ero, decisamente, il principe rosso. – La qualità non mi dispiaceva. Arrivando dall’ambiente dell’estrema
destra, segnava la distanza tra me e il conservatorismo, e la mia volontà di aprire
nuove soluzioni politiche e sociali.
Abbiamo
scelto, tra l'altro, l'assimilazione della estrema
destra al conservatorismo , che, anzi, dimostra la scarsa
familiarità del Pretendente con questa famiglia, e la compiacenza demagogica
dell’intenzione.
Il
conte di Parigi rimane un monarchico, ma in un modo molto personale, e il suo
sogno è sempre stato di rifare una monarchia dai repubblicani in quanto i
monarchici sono impotenti e in quanto la realtà è diventata repubblicana.
Si
unisce al tema della «monarchia elettiva», riesumato da alcuni «nuovi
filosofi» recentemente per fare la corte all’ospite dell'Eliseo con grande
indignazione dei monarchici veri. "Il
principio che incarno può essere molto prezioso anche nella Repubblica",
ha confidato, nel 1956, al suo biografo ufficiale.
In
un'illuminante intervista con il settimanale italiano Espresso , nel settembre 1957, ha aggiunto: «So
bene che se dovessi la mia posizione solo al caso di una lunga storia, questa
posizione sarebbe quasi nulla». Ma ha anche detto:
Credo dir essere l'uomo più adatto per salvare gli ideali della
Repubblica.
Il
conte di Parigi si è sforzato a rendersi simpatico alla classe politica
dirigente, al fine di essere accettato come l'ultima risorsa della democrazia
in caso di un disastro nazionale. Per raggiungere questo
obiettivo ha fatto quasi ogni concessione possibile e immaginabile: la
monarchia non sarebbe che un perfezionamento della Repubblica.
Questa
monarchia non brilla per originalità: nel 1948, proponendo lo «schema di una
Costituzione democratica e monarchica», spiegò che quella del 1946 «resterebbe
in vigore», salvo alcune modifiche di dettaglio, timidamente referendarie:
in una «relazione sul futuro della Francia al generale De Gaulle», nell’agosto
1966, accanto alle basse piaggerie al capo di Stato in carica («Nessun uomo
ha mai raggiunto e non raggiungerà mai , dal mero impulso del proprio
patriottismo e la forza della propria volontà, l'altezza suprema dove si trova
il generale de Gaulle che, per tutti i francesi e il mondo, è a pura 'immagine della
patria.»), precisava:
La Costituzione del 1958, riformata nel 1962, deve essere
mantenuta integralmente. [...] Non
dimentichiamo che questa Costituzione è stata voluta da una grande maggioranza
di uomini e donne francesi, quindi non abbiamo bisogno di cambiare nulla né
alla lettera, né allo spirito delle nostre istituzioni, vale a dire alla
pratica che ne viene fatta dal generale de Gaulle.
Nelle
sue Memorie, ammette
candidamente (p. 314): «Durante nessuna delle tre repubbliche mi sarei mai
schierato con l'opposizione.»
Ricorrendo
alla Repubblica, il Conte di Parigi vuole ormai, ricorrere alla democrazia:
Vorrei, dichiara a Royaliste
(n. 293, pag. 8-9), che la
forma più democratica possibile sia instaurata con la monarchia . Il
principio che incarno è una caratteristica di sicurezza, garantisce che la
Francia si trasformerà in un regime democratico. Inoltre è ovvio che non dobbiamo
rompere le istituzioni politiche, ma aggiungere strutture di dialogo .
Esattamente,
per chi sa capire, il Conte di Parigi non possiede più principi propri da
rappresentare e colpisce sterilmente ogni azione monarchica.
Michel
HERSON, ex vice segretario generale della U.D.R., uno dei (rari) gaullisti ad
autentificare la tesi del Principe, abbondò nella stessa direzione, dando la
sua testimonianza al Monde l’11 maggio 1979:
Ciò che è in questione, in definitiva, è quello di salvare la
democrazia così come appare - non è forse ovvio? – meglio preservata dalle monarchie,
sempre più numerose nell’Europa occidentale, che nelle repubbliche già consegnate
al totalitarismo ad Est come in America Latina, o minacciate con la violenza e
arbitrariamente laddove, ancora parlamentari, lasciano le divisioni nazionali nell’impotenza.
Tutto
questo costituisce ciò che si può giustamente chiamare un neo-orleanismo, ma ha
ben poco a che fare con la legittimità monarchica e la storica tradizione reale
della Francia.
Il Conte di Parigi e il regime di Vichy
Sebbene
il suo atteggiamento sia stato discreto durante l'Occupazione – mentre una
buona metà del suo libro è un'apologia del gollismo –, avrebbe potuto
aggiungere che non fu affatto un accanito oppositore di Vichy. L'ex (e futuro) «delfino della
Repubblica» avrebbe acconsentito a diventare quello del Maresciallo.
Il 1°
luglio 1941, scrisse ai suoi amici una circolare oggi introvabile, ma di cui Jean
Bourdier ha restituito alcuni passaggi:
Un anno fa, la Francia deponeva le armi, sconfitta e sconvolta
al punto che ci si potrebbe chiedere se avrebbe salvato la sua indipendenza e la
sua unità secolare. Un grande
soldato, il maresciallo Pétain, si dedicò a questo compito sacro.
Ai
francesi ingannati, feriti, ha dato le prime parole di sostegno e di speranza. La Francia ha ripreso a rinascere poco
a poco... Indubbiamente, la Francia vive, recupera, si ricostruisce nel
pensiero e nell'azione del Maresciallo.
Nonostante
le rovine, nonostante le difficoltà materiali, nonostante gli ostacoli e le
inerzie, questo uomo della Provvidenza è stato in grado di compiere questo triplo
miracolo per evitare la completa scomparsa della nostra patria, per permettere
al paese, con la sua sola presenza, di continuare a vivere, quindi di impegnare
la Francia sulle vie del suo grande destino tradizionale, rompendo con i
principi del deposto regime.
Si
offrì di perpetuare tramite la monarchia l’opera del Maresciallo:
I pensieri del Maresciallo vanno di pari passo con le nostre
ispirazioni. Dovrebbero
essere aiutati nella loro diffusione e nella loro difesa... La propaganda monarchica dove
sostenere ed prolungare gli insegnamenti del Maresciallo.
O
forse meglio ancora: Henri d'Orleans ha ammesso di essere andato a incontrare
Pierre Laval, il giorno dopo il suo colloquio con il Maresciallo a Vichy, e su
richiesta di quest'ultimo. Ma questo
accadde il 7 agosto 1942: tuttavia, il 13 dicembre 1942, in una conferenza
stampa tenutasi presso l'Hotel du Parc, Pierre Laval, maliziosamente, trasse di
tasca una lettera del Pretendente datata 16 novembre e ne diede lettura ai giornalisti
attoniti, quelli di Action
française compresi. Laval derideva la “lealtà”del Principe
che gli scriveva:
Conto su di voi, signor Presidente, per darci la certezza che non
attendiamo più nessuno qui.
Il Conte di Parigi e Hitler
Se dobbiamo
credere a Martin Bormann, il Conte di Parigi avrebbe preso tutte le precauzioni
su Hitler, che testimonia come segue:
Ricordando probabilmente che i principi elettori tedeschi si
facevano incoronare dai francesi, il pretendente al trono francese si rivolge a
me dopo l'armistizio, facendomi sapere che rispetterà in ogni momento le leggi
tedesche. Che mancanza di
carattere!
Per
quanto ne sappiamo, la testimonianza non è mai stata smentita quando è stato
pubblicata in Germania, poi in Inghilterra ed in Francia.
Rendendosi
conto recentemente dell’accoglienza riscontrata dalla stampa dalle sue Mémoires d’exil et de combat, l’organo
della N.A.R., Royaliste, nel suo n° 292 (p. 7) menziona
un'allusione del signor Philippe Bouvard (che ci era sfuggita) in modo tanto
sprezzante quanto vago:
Quasi da spazzatura, infine, segnaliamo l'articolo falsamente
obiettivo di Philippe Bouvard che ha ripreso no si sa in quale anfratto la
leggenda dei contatti tra il Conte di Parigi e Hitler. Naturalmente, il principe nega con
fermezza.
La
nostra intenzione non è quella di spettegolare. Ma il riferimento che Bertrand
Renouvin ignora, o finge di ignorare, esiste: gliela forniamo poiché ci disturba. Perché
Martin Bormann Perché dovrebbe creare un falso contro il Conte di Parigi di cui
non gliene importava nulla?
Vorremmo
sapere almeno l'inizio della verità su questa curiosa vicenda.
Se il Conte di Parigi ha in realtà (e tardivamente) smentito, tale atto, Martin Bormann è più in grado di spiegare. Il conte di Parigi può. Ma ci sono così tante ritrattazioni da questo principe che questa non sarebbe molto più improbabile di altre accuratamente documentate, che è lui stesso a darne meno modestamente eco...
Se il Conte di Parigi ha in realtà (e tardivamente) smentito, tale atto, Martin Bormann è più in grado di spiegare. Il conte di Parigi può. Ma ci sono così tante ritrattazioni da questo principe che questa non sarebbe molto più improbabile di altre accuratamente documentate, che è lui stesso a darne meno modestamente eco...
Il Conte di Parigi del dopoguerra
Come riscrivere la storia
Non
ci si può quindi sbarazzare di un disagio quando il Principe, riscrivendo la
storia, si dimostra un così perspicace profeta del domani, così entusiasta
turiferario del gollismo, e così sprezzante censore di Vichy. Così discreto, anche, sulle ore buie dell’epurazione
in cui tanti suoi amici furono coinvolti.
Qui
il suo giudizio su Ici France il 15 novembre 1947:
Il governo francese del maresciallo Pétain, autocrazia di
diritto in cui l’autorità fu effettivamente posseduta da una oligarchia
capitalista, aggiunse la confusione all’arbitrarietà...
Nelle
sue Memorie, parla del Maresciallo
con commiserazione, e del suo entourage Maurrassiano con malcelato
risentimento:
Vichy non mi piaceva affatto. Sotto
gli alberi del parco, vicino alle sorgenti termali, vi erano, alla rinfusa, gli
anziani d'Action française e
gli uomini di destra, che la sconfitta aveva ancor più irrigidito, che si
raggruppavano in vecchi palazzi trasformati in ministeri, e che esortavano la
Francia alla dignità, all'accettazione del triste ed al lutto per l’odiata
democrazia.
Andare
a Vichy in quel periodo, era un po’ come compromettermi con loro e rientrare nei
furgoni dall'estero. ( ibid. )
Diedi
come direttiva di evitare il coinvolgimento con Vichy, e, giunto il momento, di
radunare i movimenti di resistenza o di spronarli"(p. 162).
Una grande fermezza nella vicenda algerina
L’episodio
più recente è la vicenda algerina. Lì,
le memorie del Conte di Parigi sono prolisse. Il
Principe assicura i suoi lettori che si rese presto conto della necessità di
decolonizzare, e che dal luglio 1954, durante il suo primo colloquio con il Generale
(p. 247), condivise con lui questa convinzione, così come aveva ammirato la «grande
qualità intellettuale e morale» di Pierre Mendes-France su questo argomento
(p. 238)!
Eppure,
in una dichiarazione a L’Express (n. 32 del 26 dicembre 1953), dichiarò
perentoriamente che:
la condizione della grandezza e della prosperità francese è la
conservazione dei nostri territori d'oltremare.
Oggi fa
l’elogio della politica gollista di decolonizzazione che certifica essere stata
«esattamente in linea con quello che il Capetingi avevano continuato a perseguire
per costruzione della grandezza della Francia» (p. 282). E più tardi, emette questa sentenza:
Con la sua tenacia, il suo senso della grandezza francese, la
sua attenzione alle realtà nazionali e internazionali, de Gaulle seppe trovare la
ferma strada che toglieva la Francia da un’impasse in cui si spegneva, giorno
dopo giorno, il suo prestigio. Liberandola
per delle nuove attività (p. 288).
I
testi parlano da soli e dispensando da ogni commento. I machiavellici diranno che il Pretendente
sacrificava la causa dell'Algeria francese nella speranza di una restaurazione. Ma supposto che sia così – sarebbe questo
un prezzo da pagare per la restaurazione per un principe che si presenta come
disinteressato e così ansioso di non versare sangue francese! –, bisognerebbe riconoscere che questa
cattiva azione fosse affare da sciocchi.
Perché
se, a torto o a ragione, il Conte di Parigi credette alle assicurazioni,
verbali o scritte del Generale («Il Principe può oramai contare in me in
tutto e per tutto»!), i risultati sono visibili. Le
Conte di Parigi si è compromesso, ha prostituito i propri principi, ammesso che
ne avesse , ha gravemente danneggiato la
credibilità della monarchia senza ottenere l'ombra di un primo successo.
Il repubblicano
Il
suo compromettersi è andato oltre: ha mica pensato a candidarsi alla presidenza
della Repubblica «senza alcuna speranza di restaurazione monarchica» (p. 306)? Presentarsi è stato, dice, «rinunciare
di fatto e a qualsiasi altra forma di accesso al potere. Era una questione d'onore»!
Segue
una dichiarazione di fedeltà alla sovranità popolare ed al suffragio universale
oracolo dei tempi moderni:
Un capo supremo, in questa fine del XX secolo, in Francia, non
può e non deve essere eletto che col suffragio universale. – Poi, ne conviene che il legame così stabilito
tra il cittadino e il potere sia, in modo permanente, confermato a intervalli
regolari, rafforzato... Dal suffragio di milioni di
cittadini deve venire, più che la legalità, la legittimità del mandatario (pp.
308-309).
Nessun
dubbio che Maurras non si sia rivoltato d’indignazione nella tomba. Ma il conte
di Parigi è allergico tanto a Maurras che a Joseph de Maistre e al Comte de
Chambord. Confessa al contrario la
sua inclinazione per la democrazia cristiana (p. 231), e per il centro «sostenuta
dai socialisti e dai radicali».
E mostra il suo disprezzo per i contro-rivoluzionari, i quali, sicuramente, gli rendono il favore con gli interessi.
E mostra il suo disprezzo per i contro-rivoluzionari, i quali, sicuramente, gli rendono il favore con gli interessi.
Bilancio politico del Conte di Parigi
Il bilancio delle molteplici compromissioni
Qual
è, dunque, in ultima analisi, il bilancio politico del Conte di Parigi? Che cosa porta all'idea monarchica,
quali prospettive lascia intravedere? Che
accoglienza ha avuto?
Il
bilancio, così come emerge dalle sue parole, dalle sue ultime dichiarazioni
alla stampa, è molto malinconico, a volte patetico. Questa è una chiara ammissione di
fallimento a tutti i livelli. Il
principe indossa «la ferita di una vita di delusioni», esprime stanchezza e disillusione.
Egli
che ha cercato di ergersi in posizione di arbitro, di rivendicazione, di
portatore di un messaggio storico a disposizione del paese, dovette, in realtà,
sporcarsi, senza alcun beneficio; ha costantemente scelto il suo campo, quello che
sembrava trionfare, e finì non meno costantemente ingannato, screditato.
Così
a sua volta ha ripudiato, dopo averci creduto,
l’Action française,
il Maresciallo,
Laval,
la terza forza,
ed infine il Generale.
Tutto
questo per arrivare, quasi simbolicamente, stanco settantenne, alla gestione di
un istituto geriatrico.
Un degno rappresentante della tradizione orleanista
La
sua tattica non è mai stato brillante perché la sua strategia era sbagliata, che
era sostanzialmente quella storica dell’orleanismo: dopo Égalité, dopo Luigi
Filippo, gli Orléans, «principi moderni », «intelligenti» e istruiti,
memorialisti felici, impenitenti arrivisti, ambiziosi tenaci, si sono offerti
come l'incarnazione de «la migliore delle repubbliche».
Hanno
dimenticato solamente che, su questo terreno, saranno sempre sconfitti. Di
cosa abbiamo bisogno, in Francia, di un re per perfezionare la democrazia? La Repubblica è, da noi, la forma
storica della democrazia, ed è ampiamente sufficiente al compito.
Altra
cosa sarebbe la vocazione di un monarca legittimo: non rafforzare gli idoli
della tribù, lusingare la classe politica, fare il bello e cattivo tempo, ma denunciare
coraggiosamente i falsi dogmi, le illusioni del modernismo (che sono, inoltre,
così radicate sia a destra che a sinistra). Questo sarebbe, per un
giovane principe intelligente, ambizioso di servire, reazionario nel senso giusto
del termine –
come lo riscopre in questo momento Jean-Marie Paupert -, un
compito impegnativo. Ma a che serve proporre alla
popolazione il riflesso di propri fantasmi e della routine?
Coloro
che aspirano a guidare i popoli non dovrebbero fare i traghettatori di mode
passeggere, che si assumono sempre in ritardo e inutilmente. La spiegazione dei fallimenti
successivi del Conte di Parigi è in gran parte dovuto a questo approccio,
tipico dei suoi maestri di democrazia cristiana che si affrettano sempre a
prendere il treno in corsa e sono in ritardo.
Per pretendere
di arbitrare, bisognerebbe essere indiscutibili. Tuttavia, il Conte di Parigi,
la storia del suo tergiversare, della sua sincerità cangiante lo attesta, non è
mai rimasto al di sopra della mischia.
Ha
scelto e senza riuscirci, si può constatare che ha perso tutto. Anche nei suoi impegni gaullisti (un
po' in ritardo è vero), dal momento che l'eredità è stata divisa senza di lui.
La mia persona è tutto, il mio principio è nulla
In
tal modo, volle cacciare un ricordo che tormenta i principi d’Orléans: quello
del Comte de Chambord, questo «re del gran rifiuto» come in un brutto
libro il “duca” de Castries, erede dei grandi notabili del XIX secolo che
combatté senza pietà Enrico V. Almeno
il discendente di Carlo X aveva, senza essere restaurato, conservato intatto il
suo principio, vinto la stima dei suoi avversari, lasciato in eredità
l'immagine di una monarchia purificata.
Che
cosa può trasmettere il Conte di Parigi?
Naturalmente,
il Principe ha disarmato molta animosità o pregiudizi contro di lui. Ma a voler lanciare la sua “legittimità
storica” (anche se inesistente
alla legge, il resto lo sappiamo) in una legittimità
democratica e popolare ,
Nonostante
abbia osato rappresentare qualcosa per i propri natali, si è prodigato invano. Non era, del resto, umiltà di
re ma orgoglio di ambizioso, anche se l'ambizione può passare
qui per nobile.
Il
conte di Parigi è stato reinserito nella classe politica della democrazia
francese; si è fatto rispettare (è vero un successo?), ma, paradossalmente, il
generale de Gaulle che venera gli ha impedito di svolgere il ruolo di risorsa
che sperava. La risorsa, fu di De
Gaulle. E la Repubblica autoritaria
che ha installato tagliava l'erba sotto i piedi del Pretendente. Il gollismo non ha aiutato il Conte di
Parigi, ha, al contrario, rimosso ogni interesse alla soluzione che proponeva. E ha infine sterilizzato l’azione
monarchica poiché i contro-rivoluzionari sono stati da lui ripudiati, e che i
giovani neo-orleanisti diventano una mera appendice del gollismo di sinistra o del
riformismo.
La vana attesa della grande catastrofe
Rene
Johannet, nel precitato articolo di Écrits
de Paris, fa ancora molto giustamente osservare che le speranze del Conte
di Parigi riposavano sull'esplosione di una grande catastrofe nazionale. Cosa che confermano le sue dichiarazioni
a Pierre Desgraupes su Le
Point (n. 342 del 09-15
aprile 1979):
I francesi non possono andare incontro alla monarchia o chiedere
la monarchia a meno che ne abbiano bisogno come rimedio. Bisognerebbe quindi immaginare una
situazione di ansia, di difficoltà. Perché,
finché siamo sulla strada tranquilla del benessere e della soddisfazione
generale, non vi è ovviamente alcun motivo per cambiare il regime.
Accettiamo
il caso: ma poi contestava Johannet con senso comune, se la catastrofe ci sarà,
si dovrà cercare di salvare gli ideali del regime in fallimento?
Uscendo di un'epidemia di colera, quale medico cercherà di farsi
dei clienti vantandosi di avere perfezionato il colera?
Gli errori giuridici dell’orleanismo
Il Conte di Parigi nomina il suo «successore»
Peggio
ancora, probabilmente, per la confusione delle idee monarchiche: il Conte di
Parigi ha appena posto gli errori giuridici dell’orleanismo al loro apice a
causa di fallimentii familiari che si mette in piazza.
Già da qualche anno che aveva preteso, contrariamente a tutte le tradizioni matrimoniali della nostra Monarchia, di autorizzare (o negare) i matrimoni dei suoi figli. Così ha deciso di scartare uno o l’altro figlio e nipote dalla sua eredità.
Già da qualche anno che aveva preteso, contrariamente a tutte le tradizioni matrimoniali della nostra Monarchia, di autorizzare (o negare) i matrimoni dei suoi figli. Così ha deciso di scartare uno o l’altro figlio e nipote dalla sua eredità.
Ci si
chiede con quale diritto. Il
morganatismo, la dottrina dei matrimoni disuguali, non è mai esisitita in
Francia (Gaston d'Orleans, fratello di Luigi XIII, confrontatosi violentemente
con questo re, ne sapeva qualcosa!). In questo modo, sarebbe troppo facile per
il sovrano, ancora una volta, violare il principio fondamentale della
indisponibilità della Corona. Ovviamente, gli orleanisti hanno mal assimilato
questa legge fondamentale.
Il Conte di Parigi contro l’ereditarietà
Il Conte
di Parigi va ora molto più avanti. Tutta
la Francia sa che il suo figlio maggiore ha lasciato la moglie, la principessa
Marie-Thérèse, abbandonando i suoi cinque figli, due dei quali sono disabili. Il Conte di Parigi ha alcuni buoni
motivi per indisporsi. Ma non ha
diritto di mettere in discussione l'eredità per primogenitura. Questo è precisamente ciò che emerge
dai suoi commenti a Point, a Figaro
magazine o a Paris Match in occasione del lancio delle sue
memorie.
Davanti
a Pierre Desgraupes, afferma chiaramente che non bisognerebbe tornare all’ereditarietà:
Penso che il potere logori enormemente e che nessuno, nessuna
famiglia potrà mai garantire alla nazione che, di generazione in generazione,
la volontà e la capacità del successore siano identiche a quelle del
predecessore, ammesso che queste fossero buone.
E
conclude che si dovrebbe scegliere nella famiglia «il successore più valido per
le sue qualità», aggiungendo, con «una vera e propria ansia», che il
suo primogenito non ha «la stessa vocazione», «le stesse aspirazioni»
sue.
A
Louis Pauwels, di Figaro, espone idee simili:
La monarchia ereditaria pone un problema: le generazioni future
avranno la stessa ambizione, le stesse capacità? Ma dobbiamo garantire alla nazione una
continuità di valore e qualità. Pertanto,
se fossi chiamato, una delle mie prime preoccupazioni sarebbe... di trovare, per continuare l’opera da
me intrapresa, il più meritevole tra i miei successori... Bisognerebbe quindi trovare un nuovo
meccanismo per la designazione. Magari
un Consiglio di Stato. Certo, il
popolo avrà la sua voce in capitolo in una monarchia elettiva, ed è giusto
così: la successione non deve essere un affare di famiglia che si regola tra
padre e figlio, ma un grande affare nazionale.
Farneticazioni che screditano la monarchia
"Non
si sceglie il proprio re!": gli orleanisti hanno una buna mira quando
si vantano di questa incontestabile verità, ma solo dopo aver scelto, negando la vecchia legge,
la famiglia d’Orléans, e nel momento in cui il conte di Parigi, per quanto gli
è dato, invita i francesi a "scegliere il più meritevole"!... Decisamente, si vede sempre meno la
ragione per discostarsi dalla regola tradizionale di primogenitura per fare il
gioco di un principe così poco ortodosso.
Tutto
questo è abbastanza allarmante per i monarchici, alcuni poco consapevoli dei costumi successori. Che si incontrino delle farneticazioni su una
stampa particolarmente malinformata sulle questioni dinastiche si
potrebbe ammettere; ma che il capo del ramo d’Orléans, pretendente al trono di
Francia, esponga fantasie che sono la negazione stessa della monarchia tradizionale
francese, è ancora più grave che questo principe passi agli occhi del pubblico come
l'interprete autorizzato della tradizione.
Il parere di coloro che ha corteggiato
Per
di più, il penoso intrigo gollista del Conte di Parigi gollista ha portato delle
valutazioni a malapena cortesi da parte di persone vicine al Generale: "Queste
memorie , scrive Pierre
Lefranc su Le Figaro il 20 aprile 1979, costituiscono la descrizione di una
grande illusione e di una non meno grande delusione".
Il Principe "conosceva molto male, e francamente non aveva compreso il suo interlocutore".
Il Principe "conosceva molto male, e francamente non aveva compreso il suo interlocutore".
Michel
Debré, in Le Point , pensa che De Gaulle "non
vedeva sicuramente il futuro come il Conte di Parigi sembrava avere previsto".
Maurice
Couve de Murville, in Francia-soir dell’8-9 aprile:
Ci deve essere in questo caso una grande parte di malinteso,
come si dice in stile diplomatico.
E
Jacques Soustelle, ancora meno diplomaticamente, allo stesso giornale:
Ho sempre creduto che De Gaulle stesse conducendo la barca del
Conte di Parigi per neutralizzare gli elementi di una certa destra tradizionalista
e monarchica - e ce n'erano molti nell'esercito.
Dominique
Jamet, in L'Aurore del 16 aprile:
L'affermazione tardiva del Conte di Parigi sembra più che
discutibile per non dire totalmente inverosimile, in breve menzognera... A settanta anni, il principe che non ci
governa arde sempre per donare alla Francia della propria real persona. Se la può tenere, con riserva della
Repubblica, come si suol dire.
Nel prprio
stile, Libération tanto amata da molti giovani
orleanisti del N.A.R., titola su "un conte ci dorme sopra"e
parla gentilmente di un "vecchio pazzo barcollante, curiosamente dotato
di un fisico da avventuriero":
Monseigneur è pronto a barattare tutta la sua legittimità per
uno strapuntino. Monseigneur
è da vendere, non ha nemmeno la grandezza dei principi inutili.
Insolente
e offensiva verità!...
Dal fallimento dell’orleanismo
Con
l'aiuto dei media della Repubblica (Marianna lo deve
agli Orléans), le Memorie del
Conte di Parigi sperimenteranno sicuramente un onorevole successo librario. Ma nonostante tutte le sue "liquidazioni",
il Conte di Parigi invecchiando potrà mai essere il "peso" democratico
a cui ambisce? Ne dubitiamo, e ci
rammarichiamo che abbia voluto sottomettere l’eredità storica che egli
rivendica al tribunale della pubblica opinione.
Il
conte di Parigi e i principi d’Orlèans sono francesi senza interruzioni, si
capisce, resta il fatto che questo pretendente, il quale, per inciso, non pretende
realmente o in maniera molto confusa, conosce molto male la vera natura della
monarchia nazionale. Registra senza
spirito critico la leggenda rivoluzionaria, esalta "89 e 93", e diserta
ostensibilmente (come insito nelle abitudini della sua famiglia) la lotta
contro rivoluzionaria. Infine, ammette, con una emozione mal contenuta, il suo
fallimento familiare, l'indifferenza politica e l'ozio dei suoi figli.
Ma questo fallimento personale non è quello della tradizione monarchica francese. Non è, e non può essere, che quella orleanista , il senso specifico del termine.
Ma questo fallimento personale non è quello della tradizione monarchica francese. Non è, e non può essere, che quella orleanista , il senso specifico del termine.
Il
ramo d’Orléans può ben abbandonare il retaggio di Louis-Philippe senza
compromettere realismo. È ancora
parte integrante della Casa di Francia (o di Borbone); non è il capo, né
l'espressione politica.
Bisognerà bene domani, ricordarsi di ricostruire e continuare. I fedeli del Conte di Parigi non sono tutti, anzi, degli orleanisti, la maggior parte sono dei "fusionisti" persuasi di adempiere ad un obbligo di legittimisti, riconoscendo a malincuore colui che è stato loro presentato come "il capo della Casa di Francia".
Bisognerà bene domani, ricordarsi di ricostruire e continuare. I fedeli del Conte di Parigi non sono tutti, anzi, degli orleanisti, la maggior parte sono dei "fusionisti" persuasi di adempiere ad un obbligo di legittimisti, riconoscendo a malincuore colui che è stato loro presentato come "il capo della Casa di Francia".
Allo
stesso modo, già, nel 1883, Joseph Du Bourg, l’uomo ligio di Enrico V, si
inchinò con la morte nel cuore davanti a Giovanni III di Borbone-Angiò,
liberale e frammassone dichiarato, tuttavia, "erede necessario"dei
re cristiani. Nel 1940 – le Memorie del Conte di Parigi lo confermano –
Charles Maurras rifiutò di incontrare il principe che l’aveva sfidato facendo
sapere che egli "difendeva l'eredità contro l'erede".
Il futuro appartiene al principe legittimo: il Duca d'Angiò
Doppio
paradosso:
la
politica dei principi di Orleans è sempre stata la migliore propaganda dei
legittimisti,
la
passività o la timidezza del ramo primogenito ha permesso la continuazione
dell’usurpazione orleanista.
È comunque
possibile uscire dalla carreggiata. Grazie
al Conte di Parigi che ha spinto fino alle ultime conclusioni la logica del suo
sistema, l’orleanismo sta morendo.
Il
futuro del realismo francese a lui che incomberà la responsabilità, e ai suoi
figli dopo di lui, a Dio piacendo, di rilevare la speranza. I monarchici francesi possono
e devono aiutare il giovane principe che ha avuto, fino ad oggi, il merito di conservare
con saggia cautela, qualsiasi iniziativa prematura. Davanti a lui c'era una nullità politica. Il nome che porta, di cui ne conosce
tutto il peso, gli proibiva le avventure ridicole o folkloristiche. Questa riserva, che non è né
scetticismo né rinuncia, lo lascia intatto per l'ora del destino.
L’orleanismo
ha voluto rompere con la tradizione per farsi accettare della democrazia; la
monarchia legittima conserva come dovere e missione di rompere con il
conformismo della democrazia moderna, al fine di ricollegarsi con la tradizione
e le fonti vive di una dottrina creativa.
Fonte:
Scritto , tradotto e adattato da:
Redazione A.L.T.A.