Don Félix Sardà y Salvany
[«La parte dottrinale di cotesto libro, la quale riguarda il liberalismo, è eccellente, conforme ai documenti di Pio IX e di Leone XIII, e giudicata dalla Sacra Congregazione dell'Indice dottrina sana.» La Civiltà Cattolica, anno XXXIX, vol. IX della serie XIII, Roma 1888, pag. 346.]
XXI. Della sana intransigenza cattolica in opposizione alla falsa carità liberale.
«Eccoci qua!», esclameremo noi a nostra volta, ecco che ci si rinfaccia la «mancanza di carità»; e allora andiamo a controbattere a questa critica, che per alcuni è il vero e proprio cavallo di battaglia della questione, e se non lo è serve almeno da vero e proprio parapetto ai nostri nemici; come ha detto ben a proposito un autore, fare questa critica è come far bellamente servire la carità da barricata contro la verità.
Ma prima di tutto, che significa la parola carità?
La teologia cattolica la definisce per mezzo del più autorevole organo della propaganda popolare, cioè del saggio e filosofico Catechismo, il quale così si esprime: La carità è una virtù soprannaturale che ci inclina ad amare Dio al di sopra di tutte le cose ed il prossimo come noi stessi per amor di Dio. Da questa definizione, dopo la parte riferentesi a Dio, risulta che dobbiamo amare il prossimo come noi stessi, e questo non in un qualunque modo ma in ordine e con sottomissione alla legge di Dio e per amor di Dio.
E che significa amare? Amare est velle bonum, dice la filosofia: «Amare è volere il bene di chi si ama.» E la carità comanda di volere il bene di chi? Del prossimo, cioè non solo di questo o quell'uomo, ma di tutti gli uomini. E qual'è questo bene che si deve volere perchè ne risulti vero amore? Anzitutto il bene supremo di tutti, che è il bene soprannaturale: in secondo luogo gli altri beni dell'ordine naturale che non siano con esso incompatibili; il che può essere riassunto dalla frase «per amor di Dio» e moltissime altre di significato analogo.
Ne consegue dunque che si può amare e desiderare il bene del prossimo (e anche molto) dispiacendogli, contrariandolo, causandogli un pregiudizio materiale ed anche, in alcuni casi, privandolo della vita; insomma tutto si riduce ad esaminare se, con quel dispiacergli, contrariarlo o mortificarlo, si faccia o non si faccia il bene suo, o di un altro che ha più diritto a quel bene, o semplicemente si agisca per servire maggiormente Dio.
1° Per il suo bene: se appare chiaramente che, dispiacendo al prossimo ed offendendolo, si fa il suo bene, è chiaro che lo si ama anche in ciò in cui per il suo bene lo si disgusta e contraria; come si ama il malato bruciandolo col cauterio o amputandogli la gangrena col bisturi, così si ama il malvagio correggendolo con il rimprovero o il castigo, ecc.; tutto questo è eccellente carità.
2° Per il bene di altri che hanno un diritto superiore: succede con frequenza che bisogna dispiacere a qualcuno non per il suo bene, ma per liberare qualcun altro dal male che costui gli provoca; in questo caso è obbligo di carità difendere colui che è aggredito dall'ingiusta violenza dell'aggressore, ed è consentito fare male all'aggressore nella misura in cui ciò sia giusto o conveniente per la difesa dell'aggredito. Questo accade quando, in difesa del passeggero assalito da un bandito, si uccide quest'ultimo; allora uccidere o recare danno o in qualunque altro modo offendere l'ingiusto aggressore è atto di vera carità.
3° Per il dovuto servizio di Dio: il bene per eccellenza è la gloria divina, così come per l'uomo il prossimo per eccellenza è Dio. Ne consegue che l'amore dovuto all'uomo in quanto prossimo deve sempre essere subordinato a ciò che tutti dobbiamo al nostro comune Signore; per suo amore e per servire Lui si deve (se necessario) dispiacere agli uomini, si deve (sempre se necessario) ferirli o persino ucciderli. Si noti l'importanza di quanto espresso in parentesi (se necessario), che indica chiaramente l'unico caso in cui il servizio di Dio esige tali sacrifici. Come in una guerra giusta si feriscono e si uccidono uomini per servire la patria, così si possono ferire ed uccidere uomini per servire Dio; e come in conformità alla legge si possono giustiziare degli uomini per infrazione al Codice umano, così, in una società organizzata cattolicamente, è possibile giustiziare degli uomini per infrazione al Codice divino in ciò che esso prescrive in foro esterno, cosa che giustifica pienamente la tanto vituperata Inquisizione. Tutti questi atti (beninteso qualora siano necessari e giusti) sono atti di virtù, e possono essere comandati dalla carità.
Il Liberalismo moderno non la pensa così, a torto però: possiede infatti e comunica ai propri adepti una falsa nozione di carità, e stordisce e apostrofa continuamente perfino i cattolici più saldi con la tanto decantata accusa di intolleranza ed intransigenza. La nostra formulazione, assai chiara e concreta, è la seguente: La somma intransigenza cattolica è la somma carità; lo è relativamente al prossimo per il suo bene, quando per il suo bene lo confonde, lo fa vergognare, lo offende e lo castiga; lo è poi relativamente al bene altrui quando, per liberare il prossimo dal contagio di un errore, ne smaschera gli autori e fautori, li apostrofa col loro vero nome di cattivi e malvagi, li rivela laidi e spregevoli, come è giusto che sia, li espone alla comune esecrazione e, se possibile, li consegna allo zelo dell'autorità sociale incaricata di reprimerli e castigarli; infine lo è relativamente a Dio, quando per la sua gloria e per il suo servizio si rende necessario prescindere da tutte le considerazioni umane, saltare tutti gli ostacoli, ledere ogni rispetto umano, danneggiare ogni interesse, mettere a rischio la propria vita e quella di chicchessia proprio per un fine tanto elevato.
Tutto ciò è pura intransigenza nel vero amore, e per questo è somma carità, ed i modelli di questa intransigenza sono gli eroi più sublimi della carità come è intesa dalla vera religione. Il motivo per cui oggi vi sono pochi intransigenti è che vi sono poche persone veramente caritatevoli. La carità liberale ora di moda è lusinghiera, condiscendente e affettuosa nella forma, ma in fondo è essenziale disprezzo del vero bene dell'uomo e del supremo interesse della verità e di Dio.
XXII. Della carità in quelle che sono dette le forme della polemica, e se i liberali riguardo a ciò abbiano ragione contro gli apologisti cattolici.
Ma non è questo principalmente il terreno su cui il Liberalismo colloca la questione, poichè sa che nell'ambito dei principî sarebbe irrimediabilmente sconfitto; più spesso accusa i cattolici di poca carità nelle forme della loro propaganda, e su questo punto, come abbiamo detto, sogliono particolarmente insistere certi cattolici, in fondo buoni ma deformati dalla maledetta peste liberale. Che vi è da dire su questo punto particolare?Ciò che segue: Che noi cattolici abbiamo ragione su questo come su tutto il resto, mentre i liberali di ragione non ne hanno nemmeno l'ombra; soffermiamoci allora sulle seguenti considerazioni:
1° Il cattolico può dire chiaramente al suo avversario liberale che è un liberale: nessuno metterà in dubbio questa proposizione. Se un tal autore, giornalista o deputato comincia a far mostra di Liberalismo, non occulta nè poco nè punto le proprie idee o preferenze liberali, che offesa gli si fa se lo si chiama liberale? È un principio del diritto: Si palam res est, repetitio injuria non est: «Non vi è offesa nel dire ciò che è alla vista di tutti;» molto meno lo è se si dice del prossimo ciò che lui stesso va dicendo continuamente di sè. Quanti liberali, nonostante ciò, particolarmente quelli del gruppo dei pacifici e moderati, considerano una grande offesa che un avversario cattolico li chiami liberali o amici del Liberalismo?
2° Poichè il Liberalismo è cosa cattiva, non è mancanza di carità il definire cattivi i difensori pubblici e coscienti del Liberalismo.
Ciò è in sostanza l'applicazione al caso presente della legge di giustizia applicata in tutte le epoche; noi cattolici di oggi non facciamo innovazioni riguardo a questo punto, ci atteniamo invece alla pratica costante dell'antichità. I propagatori e fautori così come gli autori dell'eresia sono sempre stati definiti eretici; e poichè nella Chiesa l'eresia è sempre stata considerata un male gravissimo, la Chiesa ha sempre definito cattivi e malvagi tali fautori e propagatori. Sfogliate le collezioni degli autori ecclesiastici, guardate come gli Apostoli hanno trattato i primi eresiarchi e come hanno continuato a trattarli i santi Padri, come hanno continuato a trattarli i moderni polemisti e la stessa Chiesa nel suo linguaggio ufficiale. Non vi è dunque mancanza di carità quando si chiama il male male, gli autori, fautori e adepti del male malvagi, e l'insieme di tutti i loro atti, discorsi e scritti, iniquità, scelleratezza, perversità. Il lupo è sempre stato chiamato lupo tout court, e mai si è pensato che, definendolo ed apostrofandolo in questo modo, si facesse il male del gregge o del padrone del gregge.
3° Se la propaganda del bene e la necessità di attaccare il male esigono l'impiego di frasi dure contro gli errori ed i loro corifei riconosciuti, queste possono essere impiegate senza mancare di carità: ciò è un corollario o conseguenza del principio precedente. Si deve presentare il male come detestabile ed odioso, e non si può presentarlo come tale se non denotandolo come malvagio, perverso e spregevole. L'oratoria cristiana di tutti i secoli autorizza l'impiego delle figure retoriche più vive contro l'empietà; negli scritti dei grandi atleti del Cristianesimo si fa un uso continuo dell'ironia, dell'imprecazione, dell'esecrazione, di epiteti pesanti; la regola di tutto ciò deve essere unicamente l'opportunità e la verità.
Vi è anche un'altra ragione: la propaganda e l'apologetica popolari (propaganda ed apologetica, se sono religiose, sono sempre popolari) non possono mantenere le forme eleganti e temperate dell'accademia e della scuola; si convince il popolo solamente parlando al suo cuore ed alla sua immaginazione, cose queste che si commuovono solamente con uno stile colorito, ardente, appassionato, e per la verità l'appassionarsi in quanto risultato di una santa passione non è un male. Le pretese intemperanze dell'attuale giornalismo ultramontano, pure molto blande se confrontate a quelle del giornalismo liberale, (esempi recenti ne abbiamo), si giustificano solo che si apra una qualunque pagina delle opere dei grandi polemisti cattolici dei tempi migliori.
Cominciò il Battista chiamando i farisei «razza di vipere;» [1] Gesù Cristo Nostro Signore non si astenne dall'apostrofarli con gli epiteti di «ipocriti, sepolcri imbiancati, generazione perversa ed adultera,» [2] senza per ciò ritenere di mancare alla santità della propria mansuetissima predicazione. San Paolo diceva degli scismatici di Creta che erano «menzogneri, male bestie, ventri pigri;» [3] e lo stesso Apostolo chiamava Elimas il mago «uomo pieno di ogni frode e menzogna, figlio del diavolo, nemico di ogni verità e giustizia» [4].
Se apriamo la collezione delle opere dei Padri, incontriamo ovunque brani dello stesso tipo, che essi non esitarono ad impiegare in ogni occasione nella loro eterna polemica con gli eretici; ci limiteremo a citarne solo qualcuno dei principali. San Gerolamo, nella sua disputa con l'eretico Vigilanzio, gli rinfacciava la sua ex professione di oste dicendo: «Hai imparato altre cose (e non la teologia) dalla tua più tenera età, ti sei dedicato ad altri studi. Il verificare il valore della moneta e quello dei testi della Scrittura, l'assaggiare il vino e il comprendere i Profeti e gli Apostoli non sono certo cose che possano essere tutte ben fatte dalla stessa persona.» E si noti che il santo polemista prediligeva questa modalità di discreditare l'avversario, poichè in altra occasione, attaccando il medesimo Vigilanzio che negava l'eccellenza della verginità e del digiuno, gli chiese burlescamente «se parlava così per non perdere i clienti della sua taverna.» Oh, quante cose avrebbe detto un critico liberale, se mai uno dei nostri polemisti avesse scritto ciò contro un eretico di oggi!
E che diremo di san Giovanni Crisostomo nella sua famosa invettiva contro Eutropio la quale, per il suo carattere personale ed aggressivo, non è comparabile se non a quelle assai acerbe di Cicerone contro Catilina o contro Verre? San Bernardo, famoso per la sua dolcezza, non era certamente melato quando si trattava di nemici della fede; egli chiamava Arnaldo da Brescia (grande agitatore liberale del suo secolo) a tutte lettere «seduttore, vaso d'ingiurie, scorpione, lupo crudele.»
Il mite san Tommaso d'Aquino dimenticava la calma dei suoi pacati sillogismi per apostrofare con veemenza il suo avversario Guglielmo di Saint-Amour ed i suoi discepoli chiamandoli senza ambagi: «nemici di Dio, ministri del demonio, membra dell'anticristo, ignoranti, perversi, reprobi;» Luis Veuillot non è mai giunto a tanto. Il dolcissimo san Bonaventura riprendeva Gerardo [da Borgo San Donnino, N.d.T.] con gli epiteti di «imprudente, calunniatore, spirito malefico, empio, impudico, ignorante, bugiardo, malfattore, perfido ed insensato.» Nei tempi moderni ci si presenta quell'affascinante modello che è san Francesco di Sales, il quale per la sua squisita delicatezza e mansuetudine ha meritato di esser definito viva immagine del Salvatore; credete che avesse dei riguardi per gli eretici del suo tempo e del suo paese? Suvvia! Perdonava loro le offese, li colmava di benefici, riuscì persino a salvare la vita a chi aveva attentato contro la sua; giunse a dire ad un suo rivale: «Se mi strappaste un occhio non cesserei di guardarvi con l'altro come un fratello.» Ebbene: con i nemici della fede non aveva nessun tipo di attenuante o considerazione. Poichè un cattolico gli aveva chiesto se poteva dir male di un eretico che diffondeva le proprie dottrine velenose, gli rispose: «Sì, potete, purchè non diciate di lui niente di contrario alla verità, e solo parliate di ciò che sapete del suo cattivo modo di vita, presentando ciò che è dubbio come dubbio e a seconda del grado maggiore o minore di dubbio che avete su di ciò.» Lo affermò più chiaramente nella sua Filotea, libro tanto prezioso quanto popolare, dicendo: «I nemici dichiarati di Dio e della Chiesa debbono essere screditati più che si può. La carità obbliga ciascuno a gridare "al lupo!" quando il lupo si è infilato nel gregge, ed anche in qualunque luogo lo si incontri.»
Sarà forse necessario che facciamo un corso pratico di retorica e di critica letteraria ad uso dei nostri nemici? Ecco dunque ciò che è riguardo alla tanto decantata questione delle forme aggressive degli scrittori ultramontani, vulgo veri cattolici. La carità ci proibisce di fare agli altri ciò che ragionevolmente non vogliamo sia fatto a noi stessi; si noti l'avverbio ragionevolmente, in cui sta tutto il quid della questione. La differenza essenziale tra il nostro modo di vedere e quello dei liberali riguardo a ciò è che codesti signori considerano gli apostoli dell'errore come meri cittadini liberi che, usando del loro sacrosanto diritto, la pensano in modo diverso in fatto di Religione, e così si credono obbligati a rispettare quella loro opinione ed a non contraddirla se non nei termini di una discussione libera; mentre noi vediamo in essi solo dei nemici dichiarati di quella fede che siamo obbligati a difendere, e nei loro errori non vediamo libere opinioni, ma eresie formali e scelleratezze, come insegna la legge di Dio. E così un grande storico cattolico dice con ragione ai nemici del Cattolicesimo: «Voi vi rendete infami con le vostre azioni, ebbene io terminerò di coprirvi d'infamia con i miei scritti.» Dello stesso tenore era la legge delle Dodici Tavole che insegnava alla virile generazione romana dei primi tempi di Roma: Adversus hostem aeterna auctoritas esto, che si potrebbe tradurre: «Ai nemici, guerra senza quartiere.»
XXIII. Se è conveniente, combattendo l'errore, combattere e discreditare la persona che lo sostiene e propaga.
Ma qualcuno potrà dire: «Ciò passi per la dottrina in astratto; ma è conveniente, combattendo l'errore per quanto evidente, attaccare la persona che lo sostiene ed accanirsi su di essa?»A questo risponderemo che sì, moltissime volte è conveniente, e non solo conveniente ma addirittura indispensabile e meritorio di fronte a Dio ed alla società; e sebbene si possa dedurre quest'affermazione da quanto già esposto, vogliamo tuttavia a questo punto trattarne ex professo a causa della grandissima importanza che riveste.
In effetti non è poco frequente l'accusa che si fa all'apologista cattolico di sconfinare sempre nell'ambito personale e, quando i liberali e coloro che sono contagiati dal liberalismo rinfacciano ad uno dei nostri di ricadere nel personale, sembra loro che egli manchi di argomenti per condannarli.
Ma ciò nonostante non hanno ragione; no, non ce l'hanno. Le idee cattive devono essere combattute, si deve renderle odiose, spregevoli ed esecrande alla moltitudine che costoro tentano di turlupinare e sedurre; e si dà il caso che le idee non si sostengono da se stesse nell'aria, ne da sè si diffondono e si propagano, nè da sè sole vanno a danneggiare la società, ma sono come frecce e proiettili che non ferirebbero nessuno se non vi fosse chi li lanciasse con l'arco e col fucile.
Dunque è all'arciere ed al fuciliere che devono essere diretti in prima istanza i colpi di colui che desidera distruggere il loro tiro mortale, ed un modo diverso di fare la guerra sarebbe liberale quanto si voglia, ma mancherebbe di senso comune. Quegli autori che propagandano dottrine eretiche sono come soldati dotati di armi a proiettili avvelenati: le loro armi sono il libro, il giornale, il pubblico discorso, l'influenza personale; non basta allora scansarsi per evitare il tiro, no: la cosa principale e più efficace è disabilitare il tiratore. Così conviene sottrarre ogni autorità ed ogni credito al libro, al giornale o al discorso, e non solo a questo, ma anche in alcuni casi alla persona; sì, la persona dell'autore, poichè è lui l'elemento principale del combattimento, così come l'artigliere è l'elemento principale dell'artiglieria, non la bomba, nè la polvere da sparo, nè il cannone; in certi casi si possono rendere pubbliche le sue infamie, ridicolizzare i suoi costumi, coprire d'ignominia il suo nome e cognome. Sissignore; e ciò si può fare in prosa, in versi, seriamente, scherzosamente ed in modo faceto, e con tutta l'arte e con tutti i procedimenti che in futuro si potranno inventare, solo bisogna tenere presente di non porre la menzogna a servizio della giustizia, questo no; in ciò non si esca in nulla dalla verità, ma nei limiti di questa si ricordi il detto di Crétineau-Joly: La verità è l'unica carità consentita alla storia, e si potrebbe aggiungere: Alla difesa della Religione e della società.
Gli stessi santi Padri che abbiamo citato comprovano questa tesi; perfino i titoli delle loro opere esprimono chiaramente che essi, combattendo le eresie, si preoccupavano di dirigere il primo tiro contro gli eresiarchi. Quasi tutti i titoli delle opere di sant'Agostino fanno riferimento al nome dell'autore dell'eresia: Contra Fortunatum manichaeum; Adversus Adamanctum; contra Felicem; Contra Secundinum; Quis fuerit Petilianus; De gestis Pelagii; Quis fuerit Julianus, ecc. Di modo che quasi tutta la polemica del grande Agostino fu altrettanto personale, aggressiva, per così dire biografica, quanto dottrinale; un corpo a corpo sia con l'eretico che con l'eresia. E potremmo dire lo stesso di tutti i santi Padri.
Da dove ha attinto poi il Liberalismo quella novità per la quale, combattendo l'errore, bisogna prescindere dalle persone e perfino coccolarle e carezzarle? Ci si attenga a ciò che la tradizione cristiana insegna su questo argomento, e lasciamo che gli ultramontani difendano la fede come la si è sempre difesa nella Chiesa di Dio; ferisca la spada del polemista cattolico, ferisca e vada diretta al cuore, poichè questa è l'unica maniera reale ed efficace di combattere!
XXIV. Si risolve un'obiezione, a prima vista grave, contro la dottrina dei capitoli precedenti.
Una difficoltà, a prima vista gravissima può apparentemente, agli occhi dei nostri avversari, opporsi alla dottrina che abbiamo appena stabilito nei capitoli precedenti; ci conviene sbarazzare il nostro cammino da questi scrupoli (o che altro siano).Il Papa, dicono, e questo è certo, ha raccomandato varie volte ai giornalisti cattolici la temperanza e la moderazione nelle forme della polemica, l'osservanza della carità, il rifuggire dai modi aggressivi, dagli epiteti denigratori e dalle ingiurie alla persona; e ciò, diranno ora, è diametralmente opposto a quanto avete appena esposto.
Dimostreremo con l'aiuto di Dio che non vi è contraddizione tra queste nostre indicazioni ed i saggi consigli del Papa; per fortuna non ci costerà molto mettere ciò in luce.
In effetti, a chi si è diretto il Papa nelle sue ripetute esortazioni? Sempre alla stampa cattolica, sempre ai giornalisti cattolici, supponendo che lo siano. Di conseguenza è evidente che, nel dare tali consigli di moderazione e temperanza, egli li riferiva a cattolici che trattavano con altri cattolici su questioni libere, e non a cattolici che sostenevano il duro combattimento della fede contro anticattolici dichiarati.
È evidente che il Papa non alludeva alle incessanti battaglie tra cattolici e liberali le quali, per il fatto stesso che il Cattolicesimo è la verità ed il Liberalismo è l'eresia, debbono essere ritenute battaglie tra cattolici ed eretici. È evidente che egli desiderava che i suoi consigli fossero intesi solo in relazione ai nostri dissidi familiari, che per disgrazia non sono pochi, e che non pretendeva che con gli eterni nemici della Chiesa e della fede lottassimo con quelle armi non affilate e spuntate che si usano solo nelle giostre e nei tornei; di conseguenza non vi è opposizione tra la dottrina stabilita da noi e quella contenuta nei Brevi e nelle Allocuzioni di Sua Santità a cui si fa allusione, perchè l'opposizione in buona logica deve essere ejusdem, de eodem et secundum idem, e qui non si verifica nulla di ciò.
D'altra parte in che modo la parola del Papa potrebbe essere rettamente interpretata altrimenti? È regola di sana ermeneutica che un testo delle sacre Scritture debba essere inteso secondo il suo senso letterale tutte le volte che il senso non sia in opposizione col contesto dei Libri santi, ricorrendo al senso libero o figurato quando si verifica questa opposizione; ciò vale per analogia anche quando si tratta della interpretazione dei documenti pontifici.
Si può supporre che il Papa sia in contraddizione con tutta la tradizione cattolica a partire da Gesù Cristo fino ai nostri giorni? Si può credere che con un tratto di penna si possano condannare lo stile ed il modo dei più insigni apologeti e polemisti della Chiesa, da san Paolo fino a san Francesco di Sales? Evidentemente no. Ed è altresì evidente che sarebbe così se si dovessero intendere questi consigli di moderazione e di temperanza nel senso in cui (per propria particolare convenienza) li interpreta il criterio liberale. L'unica conclusione ammissibile è quella che il Papa, nel dare tali consigli (che per ogni buon cattolico devono essere precetti) intendeva riferirsi non alle polemiche tra cattolici e nemici del cattolicesimo quali i liberali, ma a dei buoni cattolici nei loro dissensi e disaccordi tra di loro.
No, non può essere altrimenti, e lo afferma anche il senso comune. Mai in nessuna battaglia un capitano ha ordinato ai suoi soldati di non offendere troppo l'avversario; mai ha loro raccomandato di trattarlo con dolcezza, di prodigargli riguardi ed attenzioni.
La guerra è guerra, e non si è mai fatta se non offendendo. Susciterebbe il sospetto di essere un traditore colui che, nel fragore del combattimento, andasse gridando tra le fila dei combattenti: «Attenzione a non dispiacere al nemico! Non si tiri troppo al cuore!»
Ma che dir di più? Proprio Papa Pio IX ci ha dato lui stesso l'interpretazione autentica di quelle parole, e ci ha mostrato in qual maniera quei consigli di temperanza e di moderazione devono essere applicati; i settari della Comune egli li chiamò in una solennissima occasione demoni, e quelli del cattolicesimo liberale peggiori dei demoni. Questa frase, uscita dalle labbra mansuetissime del Papa, fece il giro del mondo e rimase impressa sulla fronte del Liberalismo come stigma di eterna esecrazione; chi, dopo di ciò, avrà timore di eccedere nella durezza dei qualificativi?
E le stesse parole dell'Enciclica Cum multa, di cui l'empietà liberale ha abusato contro i cattolici più fermi, quelle stesse parole con cui il nostro santissimo Padre Leone XIII impone agli scrittori cattolici che «le dispute in difesa dei sacri diritti della Chiesa non si facciano con diverbi, ma con moderazione e temperanza, in modo che nella contesa a dare la vittoria allo scrittore sia più il peso delle ragioni che la violenza e l'asprezza dello stile,» è evidente che possono riferirsi solo alle polemiche tra cattolici e cattolici riguardanti il modo migliore di servire alla causa comune, e non alle polemiche tra cattolici e nemici dichiarati del Cattolicesimo quali sono i settari formali e coscienti del Liberalismo.
E la prova salta agli occhi di chiunque consideri il contesto della detta preziosissima enciclica.
Il Papa termina di esortare affinchè si mantengano unite le Associazioni e gli individui cattolici; e, dopo aver considerato i vantaggi di questa unione, segnala come mezzo principalissimo per conservarla questa moderazione e temperanza nello stile che abbiamo appena indicato.
Ecco un argomento, dedotto da quanto appena detto, al quale non si può replicare.
Il Papa raccomanda la soavità dello stile agli scrittori cattolici perchè ciò li aiuti a conservare la pace e la reciproca unione; dunque questa pace e reciproca unione il Papa la desidererà solamente tra cattolici e cattolici, e non tra cattolici e nemici del Cattolicesimo; quindi la soavità e moderazione raccomandate dal Papa agli scrittori si riferisce solamente alle polemiche dei cattolici fra loro, e mai a quelle che vi sono tra cattolici e settari dell'errore liberale. Più chiaramente: questa moderazione e temperanza sono ordinate dal Papa come mezzo per il fine, che è quella unione; di conseguenza quel mezzo deve ricevere il proprio carattere dal fine al quale è ordinato; così questo fine è meramente l'unione tra cattolici, e non (quia absurdum) tra cattolici e nemici del Cattolicesimo; nè quella moderazione deve intendersi applicata ad un'altra sfera.
[Traduzione C.S.A.B.]
La citazione di san Francesco di Sales, tratta dall'Introduction a la vie dévote (Filotea), III parte, cap. XXIX, in Œuvres Complètes de Saint François de Sales, Tome III, Paris 1898, pag. 373.
NOTE:
[1] Mt. 3, 7-8: Videns autem multos pharisæorum, et sadducæorum, venientes ad baptismum suum, dixit eis: Progenies viperarum, quis demonstravit vobis fugere a ventura ira? N.d.T.
[2] Mt. 23, 27: Væ vobis scribæ et pharisæi hypocritæ, quia similes estis sepulchris dealbatis, quæ a foris parent hominibus speciosa, intus vero pleni sunt ossibus mortuorum, et omni spurcitia! Mt. 12, 39: Qui respondens ait illis: Generatio mala et adultera signum quærit: et signum non dabitur ei, nisi signum Jonæ prophetæ. N.d.T.
[3] Tt. 1, 12: Dixit quidam ex illis, proprius ipsorum propheta: Cretenses semper mendaces, malæ bestiæ, ventres pigri. N.d.T.
[4] At. 13, 8-10: Resistebat autem illis Elymas magus (sic enim interpretatur nomen ejus), quærens avertere proconsulem a fide. Saulus autem, qui et Paulus, repletus Spiritu Sancto, intuens in eum, dixit: O plene omni dolo et omni fallacia, fili diaboli, inimice omnis justitiæ, non desinis subvertere vias Domini rectas. N.d.T.