di DONATA LEGNANI MAGGI
Nel dicembre 1977 nasceva a Domodossola un movimento di opinione apartitico, che ebbe il dono di saper riportare alla luce il desiderio di autonomia da sempre latente nel cuore degli Ossolani, e la soddisfazione di mandare in fibrillazione tutte le segreterie politiche della provincia. Fu chiamato U.O.P.A., Unione Ossolana Per l’Autonomia e il suo scopo principale fu l’acquisizione dell’istituzione di Regione a statuto speciale per l’Ossola e la Val Cannobina, quel territorio che già nel 1944 era diventato, seppur per poco tempo, un’isola di libertà nell’orrore dell’occupazione nazista e repubblichina, convertendosi, dopo mesi di lotta partigiana, in una repubblica indipendente.
Nell’attuazione delle finalità di questo movimento, saranno anche stati commessi degli errori, ma resta fondamentale il fatto che, nella sua pur breve vita, il movimento abbia contribuito in modo determinante a risvegliare l’orgoglio e l’autostima di un popolo che si stava piegando sotto il peso di una morale qualunquista e meschina, fornendo allora modelli di pensiero che ancor oggi sono validi per tutti noi che vediamo nella cultura delle autonomie locali il fondamento della libertà.
A circa trent’anni dalla sua scomparsa dalla scena politica, cercherò, attingendo da articoli di vecchi giornali e dalla memoria di alcuni protagonisti, di spiegarne la storia, le tematiche principali e le ripercussioni nell’ambito politico e sociale. L’impulso alla creazione del movimento venne da due componenti essenziali, una di carattere storico, l’altra di carattere socio-economico, entrambe ugualmente importanti per il successo dell’operazione. Da un punto di vista strettamente storico, il movimento ha tratto la sua forza oltre che dalla eco della gloriosa repubblica partigiana del ’44, anche da quella tradizione autonomistica che da sempre ha contraddistinto gli Ossolani, popolo che in ogni circostanza si è riconosciuto come parte di una medesima unità territoriale, conservando un’identità culturale radicata e profonda, che ha saputo resistere, nel corso dei secoli, a invasioni e scorrerie straniere senza mai essere stravolta, poiché, per dirlo con una frase di Alvaro Corradini, che dell’U.O.P.A. è stato il padre spirituale, “Gli Ossolani sono come le loro montagne: sopra di essi vi è solo il cielo“.
Questo sentimento di libertà che ha sempre spinto gli Ossolani a fare da sé, ha naturalmente stimolato in essi l’istinto di autodifesa, soprattutto nei momenti di maggiore necessità, quando sistematicamente veniva a mancare all’Ossola, l’appoggio di quelle stesse istituzioni che l’avevano voluta appartenente al Piemonte e poi, subito abbandonata a se stessa, emarginandola dalle iniziative programmatiche dei centri di potere o tradendola con promesse mai mantenute.
Anche in quella seconda metà degli anni ’70, la Valle stava soffrendo in modo particolare la crisi economica che minava il Paese. I suoi problemi erano di vecchia data: una viabilità da terzo mondo faceva lievitare i costi dei trasporti che, di conseguenza, andavano a gravare sul già impoverito bilancio delle aziende locali; per di più il dissesto idrogeologico, esasperato da condizioni meteorologiche di inaudita violenza, aveva reso la situazione viaria ancora più malsicura e le località turistiche impraticabili, facendo segnare il passo anche all’economia di quel settore. Una dopo l’altra, le industrie erano entrate in crisi. Alcune avevano chiuso i battenti e altre, anche le più grandi, davano vistosi segni di cedimento. La scarsità di danaro dovuta ai licenziamenti o al timore di questi, aveva poi innescato una reazione a catena che stava trascinando al fallimento anche le attività commerciali e ricreative completando un quadro già di per sé desolante.
I politici locali, dopo le doverose quanto insincere geremiadi, si erano lanciati in promesse puntualmente disattese, vittime anch’essi, forse, del vezzo diffuso nei palazzi di Roma e di Torino, di concedere favori solo alle aree più appetibili dal punto di vista elettorale.
Così non ci si curò di costruire gli argini dei fiumi e a ogni giornata di pioggia insistente seguiva un’inondazione; non si costruì lo scalo ferroviario, e la Svizzera trasferì le sue merci su Chiasso; infine, la superstrada che avrebbe dovuto collegare Genova al Sempione, fu deviata verso Santhià e la Valle d’Aosta e ciò tolse definitivamente la speranza di ridare al Passo del Sempione il ruolo chiave di “porta” per gli scambi internazionali.
Questa fu la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso: per salvare l’economia era necessario che l’Ossola ritornasse agli Ossolani.
Una sera piovosa di novembre una piccola folla si accalcava nella sala consiliare del Comune di Domodossola per partecipare a un incontro, definito “economico e non politico”, promosso dal geometra Corradini, personaggio che definire eclettico è ancora limitativo. Studioso di matematica, (a lui si deve la dimostrazione del teorema di Fermat), ecologia, glottologia, datazioni bibliche, era vissuto per molti anni in Svizzera, ove aveva potuto rendersi conto di come, con una suddivisione del territorio in Cantoni, fosse possibile far convivere popolazioni di culture diverse, salvaguardando con puntiglioso rigore lingua, usi e costumi di ciascuna. Divenne un convinto assertore del federalismo cantonale su modello elvetico, e quindi, intuendo che la sua applicazione avrebbe potuto essere migliorativa anche nei territori al di qua delle Alpi, dove l’idea di Regione era ancora legata più alla posizione geografica che non al concetto di Popolo o Nazione, si dedicò all’attuazione del proposito.
Nel 1975, il vulcanico geometra aveva già tentato di far accettare l’idea di amministrare il V.C.O. a livello cantonale, fondando il M.A.C. (Movimento Autonomista Confederale). La sua proposta risultò tuttavia prematura e destò solo l’attenzione delle forze dell’ordine che, trattandolo alla stregua di un pericoloso sovversivo, un mattino fecero irruzione nella sua abitazione, alla ricerca di chissà quale materiale compromettente, ponendo temporaneamente fine al proposito.
I successivi due anni di crisi, però, fecero montare il malcontento e maturare gli eventi, così, in quella fatidica sera novembrina si videro gli intervenuti, dei quali facevano parte anche parecchi sindaci, trasformare la riunione in una durissima requisitoria contro il potere centrale, accusato di aver deliberatamente trascurato l’Ossola per troppo tempo, dilapidandone il patrimonio umano, culturale ed economico senza dare nulla in cambio se non la beffa di vane promesse. La proposta autonomistica scaturita dalla ribellione venne perfezionata qualche giorno dopo, il 17 novembre, nel corso di una affollatissima assemblea tenuta nel cinema Corso di Domodossola.
Era nata ufficialmente l’U.O.P.A., i cui dirigenti (Cattani, Coffano, Corradini, Gandolfi, Lincio, Zammaretti, per citarne alcuni) il giorno successivo, riunitisi all’Hotel Corona, dettarono il loro decalogo e approvarono lo statuto del Movimento, dichiarando quest’ultimo ossolano e apartitico.
Una particolarità delle norme dello Statuto, curiosa, ma rivelatrice di grande democraticità, fu l’obbligo di cambiare il presidente ogni trimestre perché tutti potessero avere le stesse opportunità e gli stessi obblighi.
Obiettivo primario del movimento fu la trasformazione dell’Ossola in regione autonoma a statuto speciale, sul modello del Trentino e della Valle d’Aosta, giacché solo in questo modo si sarebbe finalmente avviato il processo di risanamento dell’economia locale, dando corpo alle speranze e alle rivendicazioni sognate per decenni dagli Ossolani: l’autostrada, lo scalo ferroviario, gli investimenti per lo sfruttamento delle risorse del territorio.
A completamento vi era la proposta di creazione di una zona franca, con tutti i vantaggi che ne sarebbero derivati, come la diminuzione del prezzo della benzina e dell’I.V.A. su alcuni prodotti, per incentivare il turismo e il commercio locale. Il progetto era ambizioso anche perché, come previsto dall’Art. 71 della Costituzione, per l’ottenimento dello statuto speciale, era necessario raccogliere un minimo di 50.000 firme, il che, in un territorio di circa 80.000 abitanti compresi i minorenni, risultava un’impresa non da poco. Per nulla intimoriti, i dirigenti del Movimento si diedero da fare con incontri pubblici, volantinaggio, comunicati e articoli sui giornali locali e, nel giro di pochi mesi vennero raccolte trentacinque mila firme.
Ovunque, nella Valle, compariva il camoscio bianco in un’Ossola verde, azzurra e rossa, i colori dei fazzoletti delle tre formazioni partigiane del ’44.
Questo era il simbolo adottato dall’U.O.P.A., un simbolo forte, di coraggio ritrovato, che suscitò grande entusiasmo nella gente e accese le speranze; in ogni cittadina o paese, si aprivano nuove sezioni: nei bar, nelle fabbriche, a scuola, si parlava solo di quello.
Tutto ciò suscitò, in un primo momento, l’interesse della stampa italiana ed estera, un interesse manifestato con articoli di plauso e incoraggiamento da parte delle testate strettamente locali o straniere, mentre dai giornali di regime si evidenziò subito un’aperta opposizione o, nella migliore delle ipotesi, un atteggiamento di allarme per la “pericolosa sovversione”.
Emblematica di questo contegno, la Gazzetta del Popolo dell’8 gennaio 1978, che titolava: “Anacronistica e sbagliata la richiesta dell’Ossola” commentando positivamente l’impegno di tutti i partiti, decisi a rimuovere in profondità le cause che avevano consentito l’irrobustirsi delle aspirazioni autonomistiche, con l’elaborazione di un programma comune di interventi da attuarsi immediatamente. Anche allora, come oggi, niente di nuovo sotto il sole: quando traballano le poltrone, si dimenticano le divergenze ideologiche e si fa causa comune contro il terremoto!
I panegirici velenosi dei soliti noti non fermarono però la determinazione del movimento: una delegazione guidata dal geometra Corradini si recò in Valle d’Aosta allo scopo di studiare lo statuto di quella regione per poterne applicarne le norme al futuro statuto dell’Ossola, e un opuscolo, scritto dallo stesso Corradini in collaborazione con Roberto Gremmo, direttore della rivista Arnassita Piemontèisa, venne distribuito tra gli Ossolani, per illustrare le ragioni e i vantaggi di una scelta autonomistica .
Sempre risoluti a ottenere la massima “visibilità”, pubblicarono sui giornali locali ogni iniziativa, ogni proposta presentata ai Comuni della Valle o alla Comunità Montana, e, soprattutto, gli elenchi delle sezioni che, in poco tempo avevano superato le sessanta unità, con migliaia di iscritti. Il terreno su cui si battevano dirigenti e simpatizzanti spaziava dalle semplici e sacrosante rivendicazioni di carattere pratico, come vie di comunicazione migliori o aiuti per le aziende locali in crisi, a temi di più vasta portata socio-culturale, quali la promozione e la protezione del patrimonio linguistico, delle tradizioni e della personalità etnica dell’Ossola e dell’enclave Walser.
Intanto proseguiva la raccolta delle firme, incrementata in modo determinante nel corso di una affollata adunata degli Alpini, a Roma, dove gli incaricati dell’U.O.P.A. raccolsero altre 20.000 adesioni; un margine più che sicuro per il superamento anche del vaglio formale della Cassazione.
Era il 15 ottobre del 1978, quando una legazione di 15 persone, guidata da un Corradini emozionatissimo che si era assicurato al polso con un paio di manette, la valigia contenente i preziosi moduli, giunse al Palazzo di Giustizia di Roma per presentare alla Corte Suprema di Cassazione la proposta di legge di Iniziativa Popolare. Il più era fatto, ora non restava altro che attendere l’espletamento delle formalità burocratiche ma, in base alla Costituzione Italiana, l’Ossola era già ad un passo dall’ambito traguardo. Nel frattempo, ai primi di agosto, una spaventosa alluvione aveva provocato nelle valli ossolane, la morte di una ventina di persone, il ferimento di altre quaranta e danni ingenti, dando una triste conferma delle reiterate proteste popolari, appoggiate dal movimento autonomista. Solo allora, finalmente, Roma e Torino si riscossero dal torpore, mobilitandosi con leggi speciali per il finanziamento della ricostruzione e centri operativi nelle località maggiormente colpite. Nell’Ossola, dopo la pioggia vera, ci fu una pioggia di ministri: giunse Nicolazzi, poi Vittorino Colombo, Donat Cattin, Stammati, Bodrato, Marcora e altri ancora. Sull’onda del ritrovato interesse per la Valle, iniziarono immediatamente i lavori per la costruzione dello scalo ferroviario e si promossero iniziative per il completamento dell’autostrada Voltri-Sempione.
Questa precipitosa e tardiva sollecitudine fu una manovra, neanche tanto velata, dei politici locali che tentarono, chiamando sul posto i loro referenti dai nomi altisonanti, di assumersi il merito per la realizzazione degli obiettivi dell’U.O.P.A., raggiungendo così il doppio scopo di rifarsi un’immagine sul territorio e di impedire agli autonomisti di cavalcare, una volta di più, la tigre del malcontento.
Era comunque prevedibile che, fin dai suoi primi passi, il movimento destasse il timore e l’antipatia dei partiti, i quali, infastiditi dal suo successo e, soprattutto, preoccupati della perdita di potere conseguente all’ottenimento dell’autonomia, lo considerarono una minaccia e, come tale lo combatterono con tutte le armi disponibili. Alcuni, come P.C.I. e Socialdemocratici, si erano posti in aperto contrasto, non perdendo occasione per tacciare l’U.O.P.A. di qualunquismo e, tanto per usare l’espressione a loro più cara, di filofascismo; mentre la D.C. e il P.S.I., pur mantenendosi su posizioni più moderate, avevano chiaramente lasciato intendere che non avrebbero accettato la trasformazione di questa in partito politico.
Le ripercussioni di un tale atteggiamento si manifestarono anche nell’ambito delle associazioni legate in qualche modo all’ambiente politico; così l’A.N.P.I. (Associazione Partigiani) fu squassata al suo interno da una profonda crisi originata da alcuni suoi membri che sostenevano l’incompatibilità tra gli ideali partigiani e quelli dell’U.O.P.A., arrivando ad accusare i dirigenti di quest’ultimo di essersi abusivamente impadroniti dei colori che contrassegnavano le tre formazioni partigiane. Ed evidentemente, al coro di dissenso non potevano mancare i sindacati: C.G.I.L., C.I.S.L. e U.I.L. rimproverarono al movimento, come d’abitudine, uno scarso interesse per i problemi occupazionali dei lavoratori, come se, la preoccupazione di tenere in vita le imprese non ne coinvolgesse, di conseguenza, anche i dipendenti.
Intanto, in attesa di un riscontro dalla Corte di Cassazione, che stava tacendo in maniera sospetta, il movimento prendeva contatto con altri movimenti analoghi di tutto il Nord Italia, come gli “Autonomisti Trentini e Tirolesi” di Fedel, l’Associazione “Piemont Occitan” di Bodrero (il rimpianto Barba Toni), la “Lista per Trieste” di Lokar, e il Movimento Arnàssita Piemontèisa, di Gremmo. Con questi vennero discusse le strategie comuni e vennero gettate le basi per una federazione di partiti autonomisti che avrebbe abbracciato tutta la Padania.
Nei primi mesi del 1979 si costituì anche una società editoriale, denominata “Società cooperativa editoriale Ossola Cannobina a.r.l.” che ammetteva come soci tutti gli aderenti all’U.O.P.A., mediante la quale fu possibile pubblicare materiale illustrativo e l’organo informativo del movimento, L’autonomia, un giornale non periodico che ebbe in qualità di direttore responsabile prima Corradini, poi, dal settembre 1979, un nome come Bruno Salvadori, “(..) la cui lungimiranza aveva favorito, su un terreno di reciproca unione, l’incontro fra partiti delle minoranze linguistiche e partiti federalisti o gruppi antipartitocratici (..)”, come scriverà nel 1982 Gremmo su Autonomie padane e alpine, ricordando l’amico compianto.
Questo giornale, che oltre a contenere articoli di carattere culturale sulla storia e i costumi delle popolazioni locali, quali Ossolani e Walser, riferiva con puntiglioso rigore tutte le iniziative e i progetti del movimento, riportava sotto il titolo una frase emblematica di Rousseau: “La vera democrazia può essere raggiunta soltanto in collettività relativamente piccole“.
La decisione di uscire con un proprio foglio, sebbene rappresentasse un gravoso impegno economico, si rese necessaria per rettificare l’informazione scorretta o addirittura mancante fornita dai media i quali, dopo il citato fuggevole interesse iniziale, che, pur essendo in larga misura ostile, serviva almeno a dare visibilità, avevano, prima cercato di far passare gli ideali del movimento per utopie un po’ folkloristiche, poi, accantonato sdegnosamente l’argomento U.O.P.A., relegandolo nel limbo del silenzio stampa. Significativa è l’accorata protesta, riportata sul primo numero di L’autonomia, verso l’arroganza della R.A.I. che, invitata al primo congresso del movimento con le televisioni Svizzera e Austriaca, aveva volutamente e ripetutamente ignorato l’invito, contrariamente alle sue omologhe straniere, presenti e molto interessate. Queste rivendicazioni, più o meno vibrate, ricorsero in quasi tutti i numeri che seguirono, e la cocciuta disinformazione di stampa e televisione fu, in quel momento, interpretata come una tattica del sistema arrogante e centralista per non prestare orecchio alle richieste di aiuti economici e di infrastrutture volte a migliorare la situazione dell’Ossola.
Alla luce dei fatti si può invece ritenere che l’ordine tassativo di far passare sotto silenzio ogni iniziativa del movimento, fu un preciso e sottile disegno per ridimensionare l’entusiasmo della gente e frapporre del tempo tra la richiesta di statuto speciale e l’esame della stessa, in modo da trovare qualche pretesto per non concedere l’autonomia, come in effetti accadde.
Così, all’inizio del 1980, sebbene molto fosse stato fatto, cominciò a essere evidente che il traguardo autonomistico si stava allontanando, nascosto da cortine fumogene di giorno in giorno più dense. Per ridare smalto e visibilità al movimento si rendeva necessaria una svolta che lo portasse concretamente a misurarsi nell’ambito dell’amministrazione locale. Questo costrinse i dirigenti a venire a patti con il loro stesso ideale, che disdegnava qualunque rapporto con i partiti politici, ma, alla fine, convennero di presentarsi alle elezioni amministrative.
Non fu una decisione facile e generò contrasti interni con coloro i quali temevano che la scelta effettuata riuscisse a snaturare il ruolo di un movimento ideologicamente di rottura, che avrebbe perso la sua forza e la sua integrità, una volta entrato a far parte dei quelle stesse istituzioni che aveva combattuto e da cui rifuggiva.
Prevalse comunque la tesi “interventista” e, dalle urne uscì un responso largamente lusinghiero, un successo trionfale, che vide l’U.O.P.A. al terzo posto tra i partiti presenti, con ben cinque consiglieri a Domodossola, ove il suo consenso esterno, insieme a quello del P.L.I., permise la nascita di una giunta D.C.- P.S.D.I. Divenuto determinante per la formazione di numerose giunte, il movimento ottenne anche due assessorati in Comunità Montana e altri due esponenti in seno al comitato di gestione dell’U.S.L. Con l’energia e la freschezza dei neofiti, i nuovi eletti si buttarono con entusiasmo nel lavoro presentando interrogazioni e interpellanze, avanzando richieste alla Regione per apparecchiature ospedaliere, applicandosi con puntiglio alla stesura del nuovo Piano Regolatore.
Contemporaneamente all’attività amministrativa, un’altra importante iniziativa impegnava il movimento: le relazioni da tempo intercorse tra questo e gli altri partiti o movimenti federalisti e autonomisti del Nord si stavano fondendo in una grande coalizione che avrebbe preso il nome di “Federazione Alpino-Padana dei Movimenti Autonomisti, Etnici e Federalisti” alla quale si interessarono, oltre ai movimenti che già nel 1979 si erano avvicinati, il Partito Federalista Europeo, (P.F.E.) rappresentato da Dacirio Ghizzi Ghidorzi, la Lega Autonomista Lombarda (L.A.L.) rappresentata da Umberto Bossi, la Liga Veneta da Negrisolo e Rebesco. A questi si aggiungeranno poi “Alpazur”, il Partito Popolare Trentino, l’Union Valdotaine, il Movimento Friuli, il Movimento Occitano- Provenzale, e la Wolkspartei.
Il nascente movimento, promosso da U.O.P.A., M.A.R.P., L.A.L. e P.F.E., redasse il suo statuto il 30 maggio del 1982, nel corso del congresso di fondazione, tenutosi a Domodossola, che vide Corradini come presidente e Bossi come segretario.
Argomenti fondamentali dello statuto erano: “(..) l’autodeterminazione dei popoli con scelta democratica del proprio presente e del proprio futuro, federalismo integrale dei popoli europei, autonomia quale sintesi di Giustizia e Libertà, primato e salvaguardia dei valori culturali delle singole comunità, riservando ad ognuna pari dignità e diritto di espressione (..)”
La Federazione, nella ferma convinzione che una gestione autonoma dei territori costituisse la forma più avanzata di democrazia, cercò innanzitutto di contrastare la progressiva mediterraneizzazione dell’area padano-alpina che stava compromettendone irreparabilmente l’identità storica, opponendo a questa una filosofia più europeista, basata su quattro pilastri fondamentali: Cristianesimo, Liberalismo, Socialismo e Antifascismo.
“(..) Questa politica assume dal Cristianesimo la tolleranza, dal Liberalismo la difesa e la promozione dell’iniziativa privata, dal Socialismo l’esigenza di difesa del lavoro e di giustizia sociale, ed infine dall’Antifascismo il rigetto di ogni e qualsiasi dittatura. Meta di questa carica ideale sarà il raggiungimento delle autonomie nei Comuni come nelle Provincie e nelle Regioni (..)”. Sono parole dell’articolo di fondo di Vento del Nord, il periodico informativo della federazione, profondamente chiarificatrici dell’ideologia che spinse i numerosi movimenti a unirsi per ottenere l’obiettivo che li accomunava.
Questa fu per l’U.O.P.A. una fase particolarmente feconda e ricca di nuovi impulsi, sia nell’ambito amministrativo locale, con un impegno concreto sui temi più pressanti, sia in quello della Federazione autonomista, dalla quale trasse una importante spinta ideologica, mediante il confronto con movimenti affini, e maggiore forza dovuta all’unione con questi. In più, proprio in quel periodo, i partiti tradizionali, spaventati dall’avanzata degli autonomisti e nell’intenzione di frenarne la protesta, avevano fatto pressioni affinché venissero impegnate in Ossola il massimo delle risorse economiche con il completamento delle opere iniziate dopo l’alluvione del 1978, ottenendo però l’effetto contrario poiché l’U.O.P.A., nell’opinione della gente, ebbe comunque il merito di un risultato conseguito, in parte, con la sola minaccia della sua presenza.
Paradossalmente, una congiuntura così fruttuosa coincise con l’inizio di una crisi interna che, anche se resterà latente ancora per qualche tempo, porterà il Movimento al declino. Le molteplici cause di questo malessere sono da ricercare prima di tutto nella cronica mancanza di fondi che, a distanza di anni pesava sempre più. Non avendo un finanziamento come gli altri partiti, ogni volantino, ogni pubblicazione, ogni trasferta, per non parlare della campagna elettorale per le amministrative del 1980, era un onere considerevole sulle spalle dei dirigenti, di giorno in giorno più preoccupati, e delle sezioni che cominciarono a chiudere i battenti. A questo dobbiamo aggiungere il reiterato silenzio, da parte dello Stato, in merito alla richiesta di autonomia, atteggiamento che contribuì a spegnere gli entusiasmi verso l’importante obiettivo e a farlo dimenticare, soppiantato, nelle aspirazioni volubili della popolazione, dalla proposta di una provincia dell’Alto Novarese, caldeggiata dai partiti, soprattutto il P.C.I., dalle organizzazioni sindacali e dall’Unione Industriali.
Determinante fu comunque il danno d’immagine provocato dall’ingenuità o dalla malafede di alcuni esponenti della stessa U.O.P.A., i quali, o soggiogati dal “canto delle sirene” delle vecchie volpi della politica, o già entrati nel movimento con mire “poltronistiche”, si erano lasciati convincere dagli scontati giochetti di potere favorendo questo o quel partito per ottenere successi personali.
In questo clima di tensioni interne proseguiva comunque l’attività del movimento che, ancora attivo e vitale, si oppose con tutte le sue forze alla creazione della nuova provincia che avrebbe invalidato il suo sforzo, definendo l’operazione un “pateracchio P.C.I.- V.C.O. (Verbano Cusio Ossola)” e scagliandosi contro quello che indicavano come “(..) un lontano cugino deboluccio del progetto di autonomia (..)”.
Con volantini e articoli roventi cercarono di far capire l’inutilità del proposito, che oltre a essere oneroso per lo sdoppiamento di uffici e infrastrutture, avrebbe allontanato l’Ossola dalla vera autonomia per accomunarla a territori con i quali aveva pochissima attinenza sia dal punto di vista storico sia da quello logistico e delle risorse.
Proseguivano anche i lavori della Federazione Padano – Alpina, la quale con un nutrito calendario di incontri e congressi, stava valutando la possibilità di partecipare alle elezioni politiche del 26 giugno 1983. Fu modello ed elemento trainante la “Lista Per Trieste”, detta anche “del Melone” a causa del simbolo recante in centro una grande sfera. Questa, dal 1978, sostenuta dal solo volontariato popolare, era divenuta forza di maggioranza alla guida della città, aveva ottenuto numerosi consiglieri regionali, un deputato al Parlamento e un deputato europeo e quindi, forte della sua esperienza, offrì il suo simbolo a tutti quei movimenti della federazione che desideravano presentarsi alle elezioni con la speranza di “portare a Roma gli interessi locali per anteporli a quelli dei partiti” (la frase è tratta da un manifesto elettorale). E così anche l’U.O.P.A., che aveva visto sfumare la possibilità di accettazione del progetto autonomistico con la fine della legislatura, presentò i suoi candidati alla Camera: Giancarlo Bianchi, Alvaro Corradini, Arturo Carlo Lincio.
E in questo frangente, proprio quando sarebbe stato indispensabile presentarsi all’elettorato come un movimento monolitico, scoppiò la bagarre.
A suon di comunicati stampa due ex presidenti, si lanciarono pesanti accuse, con relativa reciproca richiesta di espulsione. Motivo della violenta diatriba fu la scelta sulla strategia elettorale, poiché alcuni esponenti di spicco del movimento, facenti capo a uno dei due, ritenevano preferibile appoggiare la candidatura del socialdemocratico Nicolazzi piuttosto che portare acqua ai movimenti di altre zone, accusando l’altra fazione di dare il loro contributo a liste sorte per la difesa dei propri interessi locali a discapito degli interessi dell’Ossola.
Tali affermazioni, se espresse in buonafede, darebbero l’impressione che, anche ai vertici del movimento, parecchi non avessero compreso a fondo l’importanza strategica di un legame con altri movimenti autonomisti, ma credo che in questo frangente abbia giocato molto più la delusione per l’ormai chiara inutilità della raccolta di firme, che non la mancanza di sensibilità politica; delusione che creò nervosismo, incomprensioni e, soprattutto la voglia di buttare tutto alle ortiche tipica di chi, magari emotivamente fragile, vede franare il suo obiettivo.
In ogni caso, quali che fossero i reali motivi destabilizzanti, ormai il guaio era fatto: la profonda spaccatura che si era creata aveva influito non poco a disorientare l’opinione pubblica e il risultato elettorale fu estremamente deludente, basti il solo dato di Domodossola: 590voti contro i 2144 del 1980, per definire la portata del fallimento.
I mesi che seguirono videro l’U.O.P.A. invischiata in una ragnatela di verifiche, chiarimenti, accordi e autocritiche. Non più proclami infuocati, iniziative clamorose, proposte o denunce; ormai le sezioni, ad una ad una erano state chiuse, e tanti elementi di spicco del movimento, demotivati o …. troppo motivati, erano passati, come purtroppo spesso accade, nelle file di altri partiti che in quel momento davano maggiori garanzie di successo.
Nel giro di neanche un anno il movimento si estinse, portando con sé le speranze di un vero cambiamento. Forse, quello che era stato il suo punto di forza, l’autonomia per l’Ossola, divenne il suo punto debole, la chiave di volta che, venuta a mancare, provocò il crollo di tutta la struttura.
Mancarono la volontà per proseguire la lotta appoggiandosi e appoggiando gli altri movimenti della Federazione autonomista, confluiti poi, in parte, nella Lega Nord, e l’elasticità necessaria ad aggirare gli ostacoli, traendo tutto il vantaggio e gli insegnamenti possibili dalle circostanze, anche e soprattutto quelle negative, per perseguire l’obiettivo primario.
Comunque, qualunque sia l’opinione che si possa avere dell’U.O.P.A., non si può negare che con la sua presenza abbia scritto una pagina importante della storia dell’Ossola e che abbia dato un contributo notevole alla presa di coscienza di un popolo riscoprendo le sue radici, combattendone l’emarginazione e riportandone alla luce l’antica identità.
Quello che, nonostante tutto, non riesco a mandare giù, è la fine ingloriosa di quelle 55.000 firme lasciate a marcire in qualche scantinato romano. La caduta del governo ne ha invalidato la funzione, d’accordo, ma in quattro anni la procedura accelerata prevista dalla Costituzione avrebbe dovuto avere il suo iter, cosa evidentemente non avvenuta; inoltre quale stato che si definisce democratico subordina la volontà popolare ai cambiamenti delle giunte governative? Come di consueto, la volontà del popolo sovrano è stata calpestata, 55.000 volte, e proprio da quelli che di populismo e di democrazia si riempiono la bocca continuamente.
In collaborazione con “I Quaderni padani”