sabato 29 ottobre 2016

Gli "italiani" fuggono e fanno "terra bruciata" (1917)




Fonte: Vota Franz Josef

Che qualcuno ci spieghi la necessità di fare "terra bruciata" di Gradisca e degli altri paesi. Quando si fugge si fanno saltare i ponti ed i magazzini, ma perché incendiare i paesi, distruggere case e palazzi pubblici?
Lo spiegava Maria Cantarut a Camillo Pavan (dal minuto 5): "Tutto il cielo era un grande fuoco, facevano scoppiare le munizioni, anche verso Palmanova... Gli arditi mettevano bombe (delle perette) sulle porte ed i bambini si ammazzavano. Gli arditi erano tutti ...delle prigioni, facevano male dove andavano e facevano male ai bambini".
-Perchè lo facevano? -
"Per dispetto, per far morire i tedeschi, perchè loro scappavano e si ritiravano sul Piave... dappertutto buttavano bombe, andavano per le case a rubare, anche a casa nostra. Rubarono due prosciutti a mio papà che scese con la roncola, per fortuna scapparono pensando chissà cosa, altrimenti saremmo morti tutti:
Tutto il cielo era una fiamma, per fortuna pioveva e le strade erano gialle di gas. Se non avesse piovuto saremmo morti tutti: erano gas asfissianti".
Segue, il racconto dell'assassinio della nonna. Maria Cantarut di Brazzano, ebbe il cognome italianizzato in Cantarutti.


Gradisca 28 ottobre 1917
Nel ritirarsi gli italiani distruggevano tutto ciò che non potevano lasciare per non abbandonarlo al nemico. E non vi era stato bisogno
di ripetere la raccomandazione. Tutto bruciava.
Ora anche Gradisca ardeva tutta. Poche case non erano state incendiate. Il resto era stato dato in preda alle fiamme.
In fuga da Caporetto - L’odissea della grande ritirata nel racconto del tenente Vincenzo Acquaviva

sabato 22 ottobre 2016

Niemals vergessen: il bombardamento di Gorizia della primavera del 1916 da parte dei "liberatori".



Era contrario alla prassi ed agli accordi dell'Aja, decine di civili goriziani persero la vita. Superò il già mortale bombardamento del dicembre dell'anno precedente.
Fu bombardato l'ospedale militare del Seminario protetto dalla Croce Rossa, morirono dei ricoverati ed il Priore. Carlo Primo ne fu tanto indignato, da ordinare una rappresaglia aerea su Venezia, proprio lui che aveva fino ad allora impedito i bombardamenti sulle città italiane.
Non c'erano obbiettivi militari in città, una pista storica ragionevole, è che Cadorna o Capello, volessero dimostrare qualcosa o impressionare il comandante in capo francese, in visita per trattative sulla fornitura di cannoni e munizioni.
Altri storici dicono che gli italiani erano imbizzarriti dalla presunta "bella vita" che facevano i nostri soldati in licenza a Gorizia, dove centinaia di cittadini erano rimasti per circondarli di cure, affetto ed attenzioni... mentre gli aggressori italiani languivano nel fango delle trincee e con la certezza di morte, specie per quelli del Podgora dove era già stata sterminata, gran parte dei 180 "volontari giuliani" deceduti, il 75% del loro insieme, schierato l'anno precedente.
Ogni volta che gli italiani facevano di questi "numeri", spendevano l'equivalente di decine di milioni di euro in munizioni. Avrebbero finito di pagare i debiti alla GB, appena nel 1988. Probabilmente non hanno ancora recuperato i costi nonostante quasi un secolo di grassazioni e sarebbe per questo, che ci tengono tanto a Gorizia. L'ipotesi non ci sembra tanto assurda: tutte le potenze coloniali hanno un registro con la partita doppia dei territori conquistati.

Fonte: Vota Franz Josef 

giovedì 20 ottobre 2016

VIDEO: XI giornata per la regalità sociale di Cristo.


1°-Dare la vita per la difesa della fede: dalle guerre di religione alla pace di Westfalia  


2°- Umanisti, razionalisti, illuministi contro Cristo e la Sua Chiesa. Il dibattito sulla tolleranza              



3°- I modernisti al seguito degli Illuministi: la vera e la falsa pace              






domenica 16 ottobre 2016

Presa del colle San Marco al primo assalto



Un nostro battaglione della riserva, prese il colle San Marco contro un reggimento ben fortificato, al primo assalto.
Loro invece, dopo l'impresa iniziale della conquista del Krn, non riuscirono mai più a strapparci niente, se non a prezzo di strabilianti sacrifici e di sforzi incessanti durati anni... come ad esempio sul colle di Plava dove si estinsero molte Divisioni italiane, contro una media di un battaglione scarso di difensori.
Non ci hanno mai battuti eppure si proclamano "vincitori"... solo perché l'Impero di dissolse prematuramente. Si sono inventati le loro "battaglie" vittoriose quando metà dei nostri reparti erano già tornati a casa e gli "sfondamenti" erano stati effettuati dai britannici.
Non per nulla, l'armistizio fu firmato con le nostre truppe, decine di km dentro i loro confini del 1915. Ed imbrogliarono pure in quel momento, dicendo che ci eravamo capiti male e che loro applicavano il cessate il fuoco, 4 giorni dopo. Così presero 300 mila prigionieri che morirono in discreto numero in prigionia fino al 1920, così conquistarono più territori possibile.
Eppure non riuscirono a "conquistare" Trento dove entrarono i britannici al loro posto e dove inventarono la loro scenografia con le comparse e le bandiere alle finestre, falsificando le date.
Falsificarono anche le foto dello sbarco a Trieste, con immagini scattate mesi ed anni dopo, per far vedere una gran folla che al momento buono, era ridotta a forse 200 curiosi. Senza bandiere, senza abbracci e con le mani in tasca o dietro la schiena. Pioveva... eppure le loro foto dello sbarco, sono scattate in giornate di sole e con la gente senza i cappotti. In alcune, si vedono addirittura i gagliardetti fascisti, che non potevano essere certo presenti il 3 novembre del 1918.

Fonte: Vota Franz Josef

[TOLKIENIANA] Gimli, i nani e il Tesoro nascosto

gimli



Con questo (as)saggio, la rubrica Tolkieniana giunge al termine. Ma non finisce… [RS]

di Isacco Tacconi - Fonte: http://www.radiospada.org/

Nella nostra passata riflessione intorno agli Elfi e alla figura di Legolas ho accennato al fatto che, anche in merito alla figura di Gimli il Nano, avrei seguito la medesima impostazione metodologica. Pertanto nella presente trattazione non mi soffermerò lungamente sulla singola figura del figlio di Glòin, poiché ritengo non sia tanto oggetto da parte di Tolkien di una particolare intenzione pedagogica. Tuttavia può certamente essere il pretesto e l’occasione per parlare della sua stirpe, di quel popolo solitario e schivo, non meno che tenace, che gli Elfi chiamano «Naugrim».
Nel percorso che abbiamo compiuto fin qui abbiamo avuto modo di vedere come l’intero «corpus tolkienianum» stilli la larghezza e la profondità di un animo profondamente radicato in Dio e nella fede della Santa Chiesa cattolica romana. Eppure, tra i tanti suoi scritti, il Silmarillion è forse quello più ricco di spiritualità e quasi, oserei dire, di mistica. Rileggendo ora queste pagine che allietarono non poco la mia gioventù, mi accorgo di come in esse traspaia una visione realmente soprannaturale dell’esistenza, della creazione e del fine ultimo cui essa è ordinata. All’epoca non ero ancora in grado di coglierne intellettualmente la profondità né, perciò, di apprezzarne tutto il valore spirituale, eppure intuivo la verità in essa racchiusa e che esercitava su di me un’attrazione irresistibile perché veicolata dal mezzo ad essa più affine: la bellezza.
La cosmologia del Silmarillion è complessa, articolata, ricca di genealogie dislocate in una geografia tanto immaginaria quanto, a tratti, palpabile e in un certo senso “familiare”. Il sentimento di «nostalgia» credo sia quello che pervadeva maggiormente la mia anima mentre nella quiete di ormai lontane serate invernali, alla flebile luce di una lampada, sfogliavo sul mio letto con tranquilla avidità le pagine odorose di inchiostro sulle quali mi era giunto, come una inaspettata lettera da un lontano amico, il racconto del Quenta Silmarillion.
Ma che cos’è esattamente la “nostalgia”? Il termine origina dal greco «nòstos» con il quale si intende “il ritorno al paese” derivante dalla radice «nas» cioè “andare a casa”. In letteratura indica generalmente uno stato d’animo d’insoddisfazione che si volge al passato percepito come stabile, sicuro e fonte in certo modo di consolazione. Il Vocabolario etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani (1907) definisce la nostalgia come: “il desiderio melanconico e violento di tornare in patria, ossia di rivedere i luoghi dove passammo l’infanzia e dove albergano oggetti cari, il quale è cagione di profonda tristezza”. Tale sentimento è una costante essenziale e caratteristica dell’animo umano che ricorre frequentemente nella letteratura antica e moderna, manifestandosi sotto forme a volte molto differenti a seconda che il periodo storico in cui esso viene rappresentato è caratterizzato dalla fede, dal cinico razionalismo o dal vuoto sentimentalismo romantico. Il sentimento di nostalgia è tanto importante poiché introduce e rende attuale anche il fondamentale tema del valore della «memoria» nella formazione dell’identità tanto individuale che collettiva dell’essere umano. Ma a fortiori ratione esso è parte integrante inseparabile dell’eredità della nostra fede cattolica giacché noi sappiamo di vivere in questa terra come dei “migranti” in esilio, senza cioè una stabile dimora come dice l’Apostolo: “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Eb 13,14).
Mi par giusto sottolineare che la Chiesa, in quanto divino ambasciatore, tra le molteplici verità che ha avuto il compito di insegnare, non ha mai omesso di ricordare agli uomini che essi, a causa del peccato originale, sono stati come sradicati dalla loro patria d’origine (il Cielo) per essere mandati a combattere una guerra in una terra straniera (la Terra) in cui sono venuti a trovarsi malgrado loro. Quel vivido dolore che deve aver lacerato il cuore di Adamo ed Eva consapevoli di aver perso, per loro colpa, il diritto a vivere nella propria patria avrebbe accompagnato l’esistenza loro e di tutti i loro discendenti fino alla fine del mondo. Ed è anche per questa tensione verso la «casa paterna» che ci rendiamo conto di quanto la Fede cattolica sia di origine divina e non umana. Noi infatti non tendiamo verso una caricatura di paradiso terrestre dove ambiamo ai godimenti terreni dei potenti di questo mondo come insegna la dottrina coranica dell’Islam, né, tantomeno, verso l’irrazionale e vago vuoto esistenziale del Nirvana buddista. Queste sono risposte umane caricaturali e, in definitiva, erronee riguardo al destino ultimo dell’uomo. Noi invece, in virtù della Divina Rivelazione, possediamo una vera e propria «memoria storica» della nostra patria, e sapendo con c e r t e z z a da dove veniamo possiamo anche intraprendere la via del ritorno. Soltanto in Cristo e nella Sua Chiesa quel vago desiderio senza nome che interroga e inquieta l’animo umano, che chiamiamo nostalgia, trova la sua risposta definitiva e il riposo cercato ma non trovato altrove. Non è un caso che il Signore degli Anelli termini con le parole «sono tornato», ad indicare il termine del corso del tempo che si conclude con il «reditus» al nostro Dio, Padre e Redentore.
Ma sarà bene ora volgere il nostro sguardo ad Est, o più esattamente a Nord-Est, verso quella landa semi sconosciuta e inospitale dove i colli cominciano ad innalzarsi come una muraglia alle spalle di Erebor, la Montagna Solitaria. Laggiù, oltre le Terre Selvagge spuntano i Colli Ferrosi, e più su ancora verso le Montagne Grigie dove la leggenda si mescola agli antichi racconti e si perde la cognizione dello spazio e del tempo; orbene laggiù pose la sua dimora l’antica razza dei Nani.
Fra le tante pagine scritte dall’inclito professor Tolkien ritengo che quella in cui si narra la genesi dei Nani sia certamente fra le più belle e profonde. Come accennavo all’inizio, infatti, il Silmarillion possiede una carica simbolica impressionante e la sua ricchezza non risiede esclusivamente nella elaborata fantasia del suo autore, ma soprattutto nella sua profondità contemplativa capace di tramutare in fiaba, forse non del tutto consciamente, delle verità del più alto valore teologico. Ma vorrei lasciar parlare direttamente il testo:
Si narra che i Nani furono inizialmente creati da Aulë nell’oscurità della Terra-di-mezzo; infatti, tant’era il desiderio che nutriva per l’avvento dei Figli[1] onde avere allievi cui insegnare la propria dottrina e le proprie arti, da essere poco propenso ad attendere il compimento dei disegni di Ilùvatar. E fece i Nani tali e quali sono tuttora, perché le forme dei Figli a venire non erano ancora chiare nella sua mente, e il potere di Melkor si stendeva pur sempre sulla Terra; e desiderava pertanto che fossero forti e inflessibili. Ma, per tema che gli altri Valar biasimassero la sua opera, lavorò in segreto: e produsse per primi i Sette Padri dei Nani in un’aula sotto le montagne della Terra-di-mezzo.
Ora, Ilùvatar sapeva quel che si stava compiendo e, nel momento stesso in cui l’opera di Aulë fu terminata, ed egli ne era compiaciuto e già prendeva a insegnare ai Nani il linguaggio che aveva elaborato per loro, Ilùvatar gli parlò; e Aulë ne udì la voce e s’azzittì. E la voce di Ilùvatar gli disse: «Perché hai fatto questo?» Perché hai tentato ciò che sai trascendere il tuo potere e la tua autorità? Ché tu hai avuto da me quale dono il tuo proprio essere soltanto, e null’altro; sicché le creature della tua mano e della tua mente possono vivere soltanto grazie a tale essere, muovendosi quando tu pensi di muoverle e, quando il tuo pensiero sia altrove, giacendo in ozio. È dunque questo il tuo desiderio?».
Allora Aulë rispose: «Non desideravo un siffatto dominio. Desideravo cose diverse da me, da amare e ammaestrare, sì che anch’esse potessero percepire la bellezza di Eä, da te prodotta. Mi è parso infatti che in Arda vi sia spazio sufficiente per molte creature che in essa possano gioire, eppure Arda è per lo più ancora vuota e sorda. E nella mia impazienza, sono caduto preda della follia. Ma la creazione di cose è, nel mio cuore, frutto della creazione di me per opera tua; e il figlio di torpida mente che riduce a balocco le imprese di suo padre può farlo senza intenti derisori, ma solo perché è il figlio di suo padre. E che cosa farò io ora, per modo che tu non sia irato con me per sempre? Come un figlio a suo padre, io ti offro queste cose, l’opera delle mani che tu hai creato. Fanne ciò che vuoi. O preferisci che io distrugga la fattura della mia presunzione?».
E Aulë diede di piglio a un grande martello per ridurre in pezzi i Nani; e pianse. Ma Ilùvatar provò compassione per Aulë e il suo desiderio, a cagione della sua umiltà; e i Nani si rattrappirono alla vista del martello e provarono timore, e chinarono il capo e implorarono mercé. E la voce di Ilùvatar disse ad Aulë: «Ho accettato la tua offerta fin dal primo momento. Non t’avvedi che queste cose hanno ora una vita loro propria e che parlano con voci proprie? Altrimenti, non si sarebbero rannicchiate al tuo gesto e a ogni suono della tua volontà». Allora Aulë lasciò cadere il martello e fu lieto, e rese grazie a Ilùvatar dicendo: «Che Eru benedica il mio lavoro e lo emendi!».
Ma Ilùvatar tornò a parlare e disse: «Come ho conferito essere ai pensieri degli Ainur all’inizio del Mondo, così ora ho accolto il tuo desiderio e gli ho assegnato un posto in esso; ma in nessun altro modo emenderò l’opera delle tue mani e, quale l’hai fatta, tale rimarrà. Non tollererò che la comparsa di costoro preceda quella dei Primogeniti da me progettati, né che la tua impazienza sia ricompensata. Queste creature ora dormiranno nella tenebra sotto il sasso, e non ne sortiranno finché i Primogeniti non siano apparsi sulla Terra; e fino allora tu ed esse attenderete, per lunga che possa sembrare l’attesa. Ma, quando il tempo sarà venuto, io le risveglierò, ed esse saranno come tuoi figli; e frequenti discordie scoppieranno tra i tuoi e i miei, i figli da me adottati e i figli da me voluti»[2]

Con questo (as)saggio, la rubrica Tolkieniana giunge al termine. Ma non finisce:
potrete leggere tutto il testo, insieme a tantissimo altro materiale inedito, in un libro che Isacco Tacconi pubblicherà prossimamente per i tipi delle Edizioni Radio Spada.
Vi abbiamo incuriositi? Bene!

Continuate a seguirci, allora, per prenotarlo non appena sarà uscito!


[1] Qui Tolkien si sta riferendo agli Elfi non ancora creati da Ilùvatar, o Eru, il Dio unico che fa da sfondo a tutta l’epopea della Terra di Mezzo, e destinati ad essere i “Primogeniti”.
[2] J.R.R.Tolkien, Il Silmarillion, Bompiani, Milano 2002, pp. 45-46.

In Sicilia Garibaldi come l’Isis: decapitazioni per impaurire la gente. Il contributo dello storico Corrado Mirto

Fonte: http://www.iltarlonews.it/



In questo contributo, lo storico evidenzia come Garibaldi e le sue truppe seminarono il terrore in molte popolazioni del sud Italia macchiandosi di crimini sanguinosi come la decapitazione e lo sgozzamento di molti oppositori.

Proponiamo l’interessate scritto dal Prof. Corrado Mirto, apprezzato studioso del medioevo Siciliano e della storia del Vespro, scomparso nel 2014. In questo contributo, lo storico evidenzia come Garibaldi e le sue truppe seminarono il terrore in molte popolazioni del sud Italia macchiandosi di crimini sanguinosi come la decapitazione e lo sgozzamento di molti oppositori.
Di seguito l’articolo del Prof. Corrado Mirto
Il 1860 fu l’anno della grande catastrofe per la Sicilia e per l’Italia meridionale. Fu l’anno in cui in queste pacifiche regioni, eredi della grande civiltà della Magna Grecia, irruppero i “tagliatori di teste” provenienti dal Piemonte. Bisogna chiarire che l’espressione “tagliatori di teste” non è una battuta spiritosa di cattivo gusto, ma è la presentazione di una tragica realtà documentata da fotografie che mostrano le sanguinolente teste di partigiani del Sud tagliate e messe in gabbie di vetro a monito per le atterrite popolazioni meridionali.
Con l’occupazione piemontese del Sud si ebbe la fine della identità nazionale di intere popolazioni, il moltiplicarsi delle tasse, la leva militare obbligatoria (con la quale si deportavano in lontane regioni per anni e anni masse di giovani ridotti in schiavitù per servire i nuovi padroni) e il crollo dell’economia. E questo non fu tutto. La classe dirigente del Piemonte e del movimento “risorgimentale” era formata per la maggior parte da atei che odiavano il Cristianesimo e la Chiesa Cattolica.

In questa situazione non tardò molto la persecuzione organica contro la Chiesa Cattolica, in Sicilia come nelle altre regioni, ed ebbe inizio la rapina, per legge, dei beni ecclesiastici. In Sicilia monaci e monache furono cacciati dai soldati piemontesi dai loro conventi, dei quali si impadronì lo Stato italiano. Anche i beni di ordini monastici, di vescovati, di enti religiosi furono tolti ai loro legittimi proprietari e finirono nelle mani dello Stato cosiddetto “liberale e democratico”.
Fu un crimine contro la Chiesa, ma anche un crimine contro i Siciliani. Fu l’interruzione di moltissimi servizi sociali, che quelle strutture ecclesiastiche assicuravano su tutto il territorio. Dagli ospedali agli orfanotrofi. Dalle scuole professionali e artigianali alle case di riposo per vecchi e disabili. Dagli asili e dalle scuole elementari agli istituti di cultura superiore. Tutti gli assistiti, in qualunque condizioni si trovassero, furono buttati impietosamente in mezzo alla strada.
Decine di migliaia di famiglie che vivevano lavorando per gli ordini religiosi (anche nelle campagne, dal momento che i conventi e le chiese concedevano in affitto terreni a un prezzo equo e senza scadenza) e migliaia di lavoratori qualificati che vivevano discretamente caddero così nella più nera miseria. La gente, insomma, moriva di fame. Nel tentativo di porre rimedio, sia pur parziale, a questa tragedia, si inquadra l’attività del “Boccone del povero” del beato Giacomo Cusmano che a Palermo portava un tozzo di pane a chi moriva di fame per le strade.
Come ciliegina sulla torta, infine, lo Stato mise in vendita i beni rapinati. E i Siciliani dovettero così, ancora una volta, pagare allo Stato italiano le ricchezze che questo, via via, sottraeva alla Sicilia. Il ricavato di tale vendite, ovviamente, finivano nelle casse di Torino e veniva poi investito nel Nord Italia.
Un ultimo particolare da non sottovalutare è che i terreni sottratti alla Chiesa, così come quelli provenienti dalle liquidazioni di usi civici, non andavano ai contadini rimasti senza lavoro ma a speculatori o, nella migliore delle ipotesi, ad agricoltori già abbastanza ricchi.
Mentre i terreni del demanio di uso civile andavano, e in quota doppia, ai garibaldini (o ai sedicenti tali) senza concorso e senza che a quest’ultimi si chiedesse se fossero o no lavoratori della terra. Insomma, un’altra truffa a vantaggio degli unitari e a danno del Popolo Siciliano, della Nazione Siciliana.

venerdì 14 ottobre 2016

Il Veneto nel 1866 non è mai stato ceduto all'Italia (seconda parte)



Nella prima parte avevamo lasciato il prode commissario italiano Thaon di Revel alle prese con una grana diplomatica non da poco: il Governo italiano aveva indetto il plebiscito, fissato le date e stabilito le modalità con un Regio Decreto ufficiale ignorando completamente il ruolo di garante internazionale del commissario francese Leboeuf, il quale, lo ricordiamo, rappresentava l'Impero Francese, che in quel momento aveva una sorta di protettorato internazionale temporaneo sul Veneto.

Il bravo Revel, dopo qualche bugia, un po' di riverenze e delle false rassicurazioni all'offeso commissario francese Leboeuf, conclude la sua lettera di scuse riconoscendo il ruolo del commissario francese: “Io posso quindi dichiararvi nel modo il più formale, che il Governo del Re [Vittorio Emanuele II], mio augusto Sovrano, non ha inteso, né intende intralciare menomamente l'opera vostra, quale Commissario di Sua Maestà l'Imperatore dei Francesi. Non prenderò ingerenza nelle cose di queste provincie se non quando per la retrocessione che avete missione di fare, diventate libere, mi richiedessero del mio intervento. [...] Mi lusingo che accogliendo queste mie leali assicurazioni, darete corso alla vostra missione, ricevendo la consegna di Venezia dalle Autorità austriache e rimettendo il Veneto ai tre notabili, che avete chiamati a voi e che stanno aspettando i vostri ordini.”
Il Leboeuf crede alle rassicurazioni mendaci del commissario italiano, e risponde il 18 scrivendo: “Ho l'onore di informarvi della ricezione della lettera con cui mi fate sapere che il Governo di Firenze non ha mai pubblicato come Decreto, ma semplicemente delle istruzioni relative al Plebiscito. In conseguenza di questa dichiarazione, mi felicito di potervi dire che nulla s'oppone più alla remissione di Venezia e del Veneto [originale: “de Venise et de le Vénétie”], che potrà aver luogo domani mattina, così com'era stato inizialmente convenuto”.
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Appena il francese viene riportato alla convinzione iniziale, Revel telegrafa al Ministero della Guerra a Firenze [allora Capitale del Regno d'Italia]: “Domani alle 8, senza alcuna solennità, nell'alloggio di Leboeuf, si farà cessione Venezia retrocessione ai Notabili. Leboeuf pronunzierà allocuzione ai Notabili, dalla quale eslcusa ogni allusione al modo di votazione del Plebiscito.”
E così avvenne. La cessione del 19 ottobre venne proclamata con questa formula, pronunciata dal commissario Leboeuf: “A nome di Sua Maestà l'Imperatore dei Francesi ed in virtù dei pieni poteri e mandato che ha voluto conferirmi [...] dichiariamo di rimettere la Venezia a sé stessa, affinché le popolazioni padrone dei loro destini, possano esprimere liberamente, con suffragio universale, il loro volere a riguardo dell'annessione della Venezia al Regno d'Italia”.
Ma Revel ci descrive anche gli interessanti momenti successivi: “Ciò detto, il conte Michiel a nome della Commissione diede atto al generale Leboeuf della rimessione della Venezia a sé stessa. Firmarono il processo verbale in duplice copia: Leboeuf – Luigi Conte Michiel – Edoardo Cav. De Betta – Emi-Kelder dott. Achille [sic]”.
Come avrete notato dalle rimostranze del commissario francese, dalle paure e dalle ammissioni del commissario italiano, dalla formula di cessione utilizzata e dalle firme delle 4 persone che hanno sottoscritto l'atto di cessione, i personaggi coinvolti in quel 19 ottobre sono il commissario francese Leboeuf, a rappresentare la Francia, e i tre notabili, a rappresentare il Veneto: la Francia, insomma, ha ceduto il Veneto a sé stesso, cioè, come prevedeva l'accordo internazionale, gli ha concesso di autodeterminarsi con una consultazione popolare autogestita.
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Ecco dunque, che il Plebiscito avrebbe dovuto essere liberamente organizzato dai 3 rappresentanti delle libere popolazioni venete, cui era riconosciuto uno status internazionale particolare, con la piena possibilità dell'opzione “indipendenza”, temuta fortemente dal Governo italiano (cit. “si creava un'autorità speciale sul Veneto, che poteva dar luogo a qualche aspirazione autonoma od anche repubblicana per Venezia”), che approntò i metodi mafiosi e liberticidi che ormai tutti conosciamo proprio per negare ai Veneti il diritto di autodeterminarsi come riconosciuto, garantito e sancito dalla Pace di Vienna del 3 ottobre 1866: la sovranità dei Veneti riconosciuta con un trattato internazionale dai due Stati più potenti dell'Europa continentale (l'Impero Austriaco e l'Impero Francese), dal Regno d'Italia stesso, e col benestare del Regno di Prussia (alleato dell'Italia nella guerra del 1866).
A riprova di questa ricostruzione, poi, c'è il fatto che i 3 notabili “rappresentanti” del territorio veneto si sono recati dal Re d'Italia Vittorio Emanuele II il 4 novembre 1866 a consegnare i risultati ufficiali del plebiscito veneto del 21-22 ottobre, che essi stessi notabili avrebbero dovuto organizzare in tutto il Veneto che rappresentavano per investitura internazionale. La rappresentanza è tale che sono quei 3 notabili che consegnano il Veneto nelle mani, letteralmente, del Re d'Italia. Non è un caso, si osservi, che il Regio Decreto di annessione delle “provincie [sic] della Venezia e di quella di Mantova” possa essere promulgato proprio con data “Torino, 4 novembre 1866” (RD n. 3300 del 4.11.1866, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il giorno successivo).
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Perciò, se qualcuno ancora si chiedesse “Ma allora, se non fossimo in Italia, saremmo tornati con l'Austria?”, sappia che storicamente la vera alternativa per i Veneti nel 1866 non era tra un Veneto italiano o un Veneto austriaco (né un Veneto francese, come ha ipotizzato qualcuno), ma tra un Veneto italiano, o un Veneto indipendente.
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Alessandro Mocellin

Fonte: http://www.veja.it/

giovedì 13 ottobre 2016

IL VENETO NEL 1866 NON È MAI STATO CEDUTO ALL’ITALIA (PRIMA PARTE)

Fonte: http://www.veja.it/



E’ diventato ormai noto presso i Veneti,  ma non solo, che la nostra terra è stata annessa al Regno d’Italia con un plebiscito farsesco, organizzato domenica 21 e lunedì 22 ottobre dell’anno 1866.
Ricorre in questi giorni il 145esimo anniversario di quegli eventi, giusto per ricordare che le istituzioni italiane festeggiano i 150 anni dell’Italia Unita, senza il Veneto, ovviamente.

Ritengo, però, che si sia finora travisato il vero valore di questa procedura referendaria. Molti studiosi ed esperti della materia hanno descritto le operazioni di voto come “cosmetiche”, portando alla luce le violazioni compiute (pressioni, intimidazioni, voto palese) come offensive principalmente sul piano morale e storico, come una ciliegina amara su una torta pasticciata.

L’idea diffusa è che il voto del plebiscito sia stato solo una formalità, stante che, come da più parti si dice, la cessione del Veneto era avvenuta addirittura prima del voto!

Recitava infatti un trafiletto sulla “Gazzetta di Venezia” di sabato 20 ottobre 1866:
Questa mattina [cioè venerdì 19] in una camera dell’albergo d’Europa si è fatta la cessione del Veneto”.
Occorre fare attenzione, però, a non saltare a conclusioni affrettate: è infatti scientificamente scorretto interpretare una fonte storica alla luce di ciò che avverrà, cioè sapendo già come andrà a finire. Non è scritto da nessuna parte, infatti, che quel giorno, in quell’albergo, il Veneto sia stato ceduto all’Italia.


E’ sulla base di tale interpretazione, secondo me errata, che si basano le visioni storiche che qualificano il plebiscito del 1866 come una inutile formalità di adesione ad una situazione di fatto già sostanzialmente costituita e decisa da altri, come a dire che “il 19 ottobre il Veneto era già passato dalla Francia all’Italia, due giorni prima del plebiscito”, ma non è affatto così.

Ma se non è stato ceduto all’Italia, il Veneto a chi è stato ceduto? La risposta non è ovvia, ed è forse la più impensabile: il Veneto è stato ceduto a sé stesso.

La questione veneta, “risolta” nel 1866, ha visto come attori partecipanti, nell’ordine, l’Austria, la Francia, l’Italia, e… il Veneto (o, meglio, “la Venezia”, cioè tutto il territorio dell’attuale Regione Veneto, con anche Pordenone ed Udine, “ e Mantova”, riconosciuta come provincia non appartenente al territorio della Venezia).

Queste 4 parti sceniche sono invece personificate da 6 attori: il commissario austriaco Gen. Karl Moering, il commissario francese Gen. Edmond Leboeuf, il commissario italiano Gen. Genoa Giovanni Thaon di Revel, e i 3 notabili rappresentanti del territorio conteso, due veneti (l’assessore della municipalità veneziana Conte Luigi Michiel ed il podestà di Verona, Edoardo De Betta) e un mantovano (Achille Emi-Kelder, assessore della municipalità di Mantova).

Analizzando opportunamente le memorie, quasi una confessione, del commissario italiano Thaon di Revel, scopriamo cosa è successo davvero in quell’albergo la mattina del 19 ottobre di 145 anni fa.

Pare opportuno partire dal ruolo dei 3 notabili, comprese le modalità della loro scelta. Scrive Thaon di Revel:
Dovevo pure risolvere la questione dei tre notabili, scelti dalla Francia e chiamati a ricevere da questa il Veneto a lei ceduto dall’Austria. […] Le idee di Leboeuf su tale funzione, dapprima incerte, tendevano ora a darle grande solennità. […] Scegliendo gl’individui che si proponevano da Parigi si creava un’autorità speciale sul Veneto, che poteva dar luogo a qualche aspirazione autonoma od anche repubblicana per Venezia. Dovrebbero essi indire il Plebiscito od affidarne l’incarico ai Municipi?”

Revel appena dopo parla anche apertamente dei metodi  mafiosi usati per pilotare la scelta dei notabili, e pare quasi compiacersi della sua abilità diplomatica:
Miniscalchi, Strozzi, Giustiniani ed altri eran degnissimi gentiluomoni e perfettamente adatti per tale scelta, se non vi ostassero le considerazioni sovraesposte; perciò pensai bene, sin dai primi giorni, di esporre confidenzialmente le mie idee a Ricasoli, fra le quali eravi quella di far sentire a quei signori, che sarebbero richiesti [cioè “chiamati”] da Leboeuf, direttamente o per intermediario, che il Governo [italiano] desiderava ch’essi declinassero l’invito. Mi riservavo poi di condurre Leboeuf, senza che si avvedesse del partito preso, a richiedere Michiel, De Betta ed Emi-Kelder”.

Se la scelta dei notabili è stata pilotata, modalità di svolgimento del plebiscito invece sono state decise unicamente dall’Italia.
Ci confessa Revel:
Quando la sera del 16 di ritorno da Verona, giunsi all’albergo [a Venezia], vi trovai 1300 copie del manifesto Reale pel Plebiscito […]. Telegrafai subito a Cugia [Efisio Cugia, Ministro della Guerra italiano dal 22 agosto 1866]: ”Ricevuto manifesto, ignorandone esistenza non potei preparare Generale francese. Temo protesta motivo data da nessuna menzione in esso della Francia. Voglia Vostra Eccellenza tenere a calcolo difficoltà della posizione””.

Poi Revel continua a narrare:
Altro che cessione! Il 17, alle 8 del mattino, mi vedo arrivare Leboeuf con in mano un giornale, nel quale era stampato tutto il Decreto Reale! Era fuori di sé; non parlava, non gridava, ma urlava, che era una violazione del trattato, un insulto alla Francia, e protestava che senza un ordine preciso del suo Imperatore, non cedeva il Veneto. […] Avevo davanti ai miei occhi il Regio Decreto in data 7 ottobre, firmato Vittorio Emanuele, che fissava il 21 e 22 stesso mese per la votazione del Plebiscito, e non solo lo leggevo stampato nel giornale, ma sapevo che era affisso in tutta la provincia di Treviso; ne avevo 1300 copie per Venezia ed estuario; Leboeuf me ne aveva portato una copia; e si voleva [dal governo italiano] che dicessi al Commissario francese ch’egli si sognava un Regio Decreto che non esisteva!”.

Sembra una farsa, ed anzi lo è, ma è proprio con queste premesse e con questi metodi che il Regno d’Italia ha ottenuto di annettere il Veneto nel 1866, ma con quali altri inganni e nascondimenti?

FINE PRIMA PARTE

Alessandro Mocellin



sabato 8 ottobre 2016

Nota dei Carlisti del Principato di Cataluña: Ne di Esercizio Ne di Origine

Ne di Esercizio Ne di Origine


In vista della annunciata visita di Carlo Saverio di Borbone-Parma a Barcellona e per avvertire il popolo catalano e il resto degli spagnoli di fronte ad una più che probabile confusione e eterodossia delle sue parole e atti pubblici i carlisti catalani dichiarano: 

1- Non vi è alcuna costanza nella volontà di Carlo Saverio di accettare i cinque fondamenti della Legittimità spagnola che stabilì il Re Don Alfonso Carlo come una condizione indispensabile per il suo futuro successore: (1) la Unità Cattolica, (2) la costituzione naturale e organica degli Stati e Corpi della società tradizionale, (3) la federazione storica delle differenti regioni della Patria spagnola, (4) la autentica Monarchia Tradizionale e (5) i principi, spirito e stesso stato di diritto e legislativo precedente al così detto diritto nuovo. 

2- Nessuno dei manifesti e dichiarazioni pubbliche di Carlo Saverio di Borbone-Parma sono in linea dottrinale al pensiero politico carlista, vale a dire, nulla ha a che vedere con il pensiero tradizionalista catalano. Al contrario tutto è in linea con la corrente delle ideologie della modernità, con certi abboccamenti al nazionalismo che ripugna la coscienza dei carlisti catalani.

3- Suo figlio non ha alcun diritto al Trono di Spagna. Il legittimo Stato di diritto e legislativo della Monarchia spagnola stabilisce una successione semisalica agnatica alla Corona, che è anche quella tradizionale della Corona di Aragona. Una pragmatica contro questa norma non  può stabilirsi senza il concorso delle Cortes convocate espressamente a tal fine. Contro questo abuso dispotico di Ferdinando VII si sollevarono i carlisti. Lo stesso abuso dispotico è da considerarsi per chi considera i discendenti di un matrimonio diseguale, non dinastico, come successori al Trono. Questo è il caso del figlio di Carlo Saverio di Borbone-Parma.  

Alcuni carlisti catalani hanno avuto occasione di salutare in Barcellona in altre occasioni Carlo Saverio di Borbone-Parma. E desiderarono che accettasse i principi intangibili della legittimità spagnola. Lamentandosi che egli non avesse preso tale strada.



Carlisti del Principato di Cataluña. Valls, 7 ottobre  2016.
Festività di Ntra. Sra. del Rosario.


Nota: alcune parti sono state adattate pur rispettando integralmente il messaggio divulgato da tale comunicato.


Redazione A.L.T.A.


Accadde 134 anni fa...

Fonte: Vota Franz Josef

Nel 1882 il gendarme Virgilio Tommasini e il sergente Apollonio, che il 16 settembre precedente avevano arrestato Gugliemo Oberdank, vengono decorati rispettivamente con la croce al merito d’argento e d’oro. La cerimonia ha luogo davanti al Capitanato di Gradisca (Casa de Zattoni) alla presenza delle Autorità, della banda civica e del locale Corpo dei Veterani" (vedi post precedente).
Il terrorista, stragista ed assassino di innocenti minorenni, intendeva uccidere l'Imperatore come tutti sanno, ma dieci giorni prima tirò le sue bombe "Orsini" sulla folla assiepata per un corteo patriottico (naturalmente austriaco).
Per questo motivo dovette tornare ad Udine per rifornirsi di altri ordigni. Gli esplosivi di quelle bombe si trovavano nelle farmacie (clorato di potassio e fulminato di mercurio) e per questo motivo, diversi farmacisti istriani, friulani e probabilmente anche veneti, erano coinvolti nel complotto.
Molti farmacisti erano anche massoni, come i capi dell'organizzazione "Per l'Italia Irredenta" che si dedicava alla sedizione e al terrorismo internazionale, esattamente come l'Isis, Al Quaida, Ezbollah, Settembre Nero eccetera.
I fondatori dell'irredentismo terrorista erano due napoletani: il gen. Avigliana e Matteo Imbriani. Quest'ultimo ne era il capo ed in suo onore, è stata dedicata un'importante via a Trieste. Chi dal Corso intenda raggiungere Piazza della Caserma Grande, deve percorrere l'importante "Via Imbriani".
Piazza della Caserma Grande viene ora chiamata "Piazza Oberdan" senza la K finale, eliminata dagli italiani, non prima di 12 anni dopo la sua esecuzione. Il Corso ora si chiama "Corso Italia" ed il trinomio Italia-Oberdank-Imbriani dovrebbe dire tutto. Se fossimo massoni come i patrioti italiani, probabilmente ne faremmo dei simboli esoterici da spargere segretamente in giro, ammesso che non l'abbiano già fatto. Un triangolo con una bocca che dice "IOI", potrebbe andar bene.
Perchè gli irredentisti organizzarono la sanguinosa spedizione di Oberdank?
Perché un paio di mesi prima fu firmato l'ingresso dell'Italia nella successivamente detta "Triplice Alleanza". Essi speravano di generare la massima tensione tra Italia ed Austria, forse anche un'invasione seppure tale ipotesi era campata per aria, vista la natura estremamente collaborativa degli italiani nelle indagini di polizia.
Anzi, con tutta probabilità fu la polizia italiana ad informare la nostra,di come catturare il terrorista Oberdank. E con buona probabilità furono gli stessi irredentisti a tradirlo, arrabbiati per la strage che commise, tirando le sue bombe sulla folla. lo stesso giorno,una folla di triestini assaltò il consolato d'Italia rompendone le finestre, non riuscendo a penetrarvi grazie al solerte intervento delle autorità.
Le cronache non sono tanto dettagliate da dirci cosa esattamente gridava la folla di triestini inferociti, ma per analogia con quella dei 23 maggio 1915, le parole avrebbero dovuto essere "abbasso le pigne", "i cabibi", "i cifarielli", eccetera. "Maledetta barca che li ga portai", sarebbe stata creata solo il 3 novembre del 1918. Nel 1982 comunque, non c'erano dubbi, su chi fossero gli autori della strage.
Lo sdegno per l'attentato terrorista riempiva i giornali di tutto il mondo e tutta l'Europa discuteva sul coinvolgimento dell'Italia. I media austriaci assicuravano che il Governo italiano era estraneo: perché avrebbe dovuto fare una tale stupidata, due mesi dopo essere entrato nella Triplice Alleanza?
L'iniziativa di Oberdank aveva causato all'irredentismo, più danni di una guerra persa. Ma d'altra parte era una testa bizzarra fin da piccolo: i parenti di sua madre non vogliono sentirne parlare ancora oggi.
Se Imbriani scelse lui e non un'altro, affari suoi. Probabilmente gli costò anche poco, perché la sua situazione economia era disastrosa, dopo aver perso la borsa di studio non avendo dato nemmeno un esame e dandosi alla dolce vita romana.
Il maiale assassino aveva dunque ucciso dei propri concittadini. La stessa cosa avrebbero fatto Battisti e Filzi ed avrebbe tentato di fare Sauro che riuscì solo a ferirne diversi, perché nelle sue maldestre "incursioni" non uccise mai nessuno e non colpì alcun bersaglio.
Anche quei traditori dei "volontari irredenti", uccisero qualche loro concittadino, sul Podgora dove furono comunque sterminati quasi tutti. I loro concittadini erano i romanzofoni di Zara che gli stavano di fronte.
Secondo la loro folle mentalità, i zaratini ed altri dalmati che li combattevano sul Podgora, avrebbero dovuto essere "connazionali", visto che entrambi avevano studiato l'italiano a scuola e parlavano lingue madri simili in società, in casa e tra gli amici.
Ma tale convinzione era errata: non si appartiene ad una nazione solo per la lingua scolastica, serve condividere anche gli stessi usi e costumi.
Gli irredentisti che tradirono la loro patria e spararono sui loro concittadini, erano certamente italiani, perché condividevano l'usanza e l'inclinazione al tradimento.
Coloro che avevano studiato l'italiano a scuola, rimasero fedeli all'Austria e combatterono per difenderla dall'aggressione del Terzo Mondo, non potevano essere "italiani" in alcun modo.
Erano solo dei normalissimi, buoni cittadini mitteleuropei... gente onesta, leale e piena di senso civico.

I nostri pittori di Marina, si interessavano anche dei fuochisti.


Fonte: Vota Franz Josef



E ne avevano motivo, essi si sacrificavano in modo a dir poco eroico, come in occasione di un'incursione del dicembre 1915, quando alcuni di essi erano stati feriti da colpi dell'artiglieria nemica, scatenata all'inseguimento dell'incrociatore Helgoland.
L'inseguimento fu molto avventuroso, con le nostre navi praticamente spacciate perchè tagliate fuori da Cattaro, anche da una flotta mista anglo-franco-itali...ana, che sopraggiungeva da Nord.
Il comandante Heyssler riuscì a gabbarli tutti con una finta verso le coste italiane e sgusciarli davanti alle prue mentre essi non potevano tirare perchè avrebbero pututo colpirsi tra di loro, trovandosi poco dopo nell'oscurità perchè aveva tenuto conto dei tempi del tramonto e del crepuscolo.
In quella occasione, i fuochisti riuscirono a superare la velocità massima prevista, nonostante alcuni fossero feriti ed una caldaia fosse fuori uso. Il comandante aveva mandato altri marinai a dargli una mano ma i fuochisti li respinsero e continuarono a spalare con il sangue alle mani, per una durata totale di oltre due giorni i lavoro ininterrotto.
Furono anch'essi decorati, ma Heyssler fu rimosso dall'ammiraglio Haus perchè nonostante la brillantissima fuga che aveva scatenato l'ammirazione dei britannici (figuriamoci se gli italiani ed i francesi potessero riconoscere la bravura del nemico), aveva perso due Zerstorer nella prima fase dell'azione.

giovedì 6 ottobre 2016

Il Principato delle Asturie fu il primo a dichiarare esclusi due "Principi delle Asturie", padre e figlio: Carlo Ugo e Carlo Saverio.



Recentemente alcuni media asturiani, facendo eco ad un articolo superficiale e senza documentazione di una rivista digitale appropriatamente chiamata Vanitatis, hanno parlato del supposto Principe delle Asturie carlista (il quale, se fosse vero, dovrebbe essere chiamato semplicemente Principe delle Asturie legittimo, il vero Principe delle Asturie). Insieme a ciò hanno attribuito all'ex-principe Carlo Saverio (di Borbone Parma e Lippe-Biesterfeld) la guida del Carlismo; e ciò è tanto radicalmente falso da essere risibile. Carlo Saverio non è altro che un signore olandese molto ricco, un alto impiegato di banca speculativa, sposato con una giornalista senza alcun rango, e la cui ignoranza ti tutto ciò che ha a che vedere con il Carlismo è pari a quella dell'autore dell'articolo apparso su Vanitatis. Del resto non è cattolico. Non è cattolico il padrino del figlio Carlo Enrico (un plebeissimo e bellissimo bambino al quale i media hanno attribuito il titolo di <<Principe delle Asturie carlista>>) che non è altro che il fratello del Re d'Olanda, calvinista dichiarato. Per non parlare dei passi falsi precedenti.

Si da il fatto che molti anni fa,  quando l'allora giovane Carlos Saverio sembrava che potesse superare e contrastare il tradimento di suo padre Carlos Ugo alla causa carlista, è stata la Juventudes Tradicionalistas Asturianas  la prima che ha lanciato una campagna per farlo conoscere. Quando Carlos Saverio era il Principe delle Asturie, come nipote dell'ultimo legittimo re di Spagna, Don Francesco Saverio di Borbone e Braganza, e nipote del Reggente, Don Sisto Enrico di Borbone e Borbone Busset. Di tale campagna si discuterà un'altra volta.

Però poco dopo, come accadde vent'anni prima, dovette essere la Giunta Carlista del Principato delle Asturie la prima a dichiarare l'esclusione del Principe delle Asturie. La prima volta fu con il padre di Carlo Saverio, il già menzionato Carlo Ugo.  Si dichiarava l'esclusione, vale a dire, si dava atto di un fatto: che per contravvenzione ai principi della Tradizione e alle leggi tradizionali di Spagna, un principe perde i suoi diritti e smette di esserlo. In ambo i casi la Giunta Regionale delle Asturie si vide obbligata a prendere l'iniziativa di fronte ad una circostanza anomala, come erano quelle causate dall'assenza di autorità nazionale effettiva della Comunione Tradizionalista in quei momenti. Similmente a come dovette agire nel 1808 la Giunta Generale del Principato delle Asturie, della quale è direttamente successore la Giunta Carlista.

Il documento il cui fac-simile è riportato qui sopra è la dichiarazione che la Deputazione Permanente della Giunta Carlista del Principato delle Asturie emise in Oviedo il giorno 4 novembre 1997. Si tratta dell'originale che rimase per un certo periodo confidenziale. Con indicazione del Reggente Don Sisto Enrico, non venne successivamente diffuso, dal momento che il Duca d'Aranjuez nutriva la speranza di ricondurre suo nipote alla legittimità e alla tradizione. Speranza alla quale non rinunciò fino a poco tempo  fa, quando l'accumulo dei fatti contrari dimostrarono definitivamente l'impossibilità di tale conversione. Di seguito il testo originale:

La diputación permanente de la Junta Carlista del Principado de Asturias, ante la falta de organismo superior en el momento presente, ha juzgado necesario hacer pública la presente
DECLARACIÓN:
En 1977, a la muerte en el exilio de S.M.C. Don Javier de Borbón (q.s.g.h.) la normal sucesión se vio truncada por la inhabilitación en que había incurrido su hijo mayor D. Carlos Hugo por su infidelidad a los principios de la Tradición y por su aceptación del régimen imperante.
Desde entonces la Comunión Tradicionalista estuvo bajo la regencia de la Reina viuda Doña Magdalena de Borbón (q.s.g.h.) y del Infante Don Sixto Enrique, Abanderado de la Tradición, en la esperanza de que el hijo mayor de D. Carlos Hugo, S.A.R. Don Carlos Javier de Borbón, cumpliría su deber al alcanzar la mayoría de edad. Es aquí donde comienza la responsabilidad de esta Junta, al haber reconocido a Don Carlos Javier como Príncipe de Asturias legítimo.
Han pasado ya varios años desde que el Príncipe Carlos Javier cumplió la mayoría de edad; sin que, a pesar de algunos signos esperanzadores, haya manifestado su disposición a desempeñar las obligaciones de su rango o a prestar juramento de fidelidad a los principios tradicionales de las Españas y a los derechos y libertades de este Principado.
Por el contrario se dan los siguientes hechos: D. Carlos Javier utiliza documentación española conforme a la legalidad vigente, extremo que siempre había sido evitado por los príncipes de la Dinastía legítima por lo que representa de acatamiento a la usurpación reinante. Ha evitado recibir formación militar, indispensable para el desempeño de sus funciones. Y ha mostrado en otros aspectos su adaptación a los contravalores dominantes.
Los anteriores errores pueden encontrar justificación o disculpa, y atribuirse a inexperiencia o mal consejo. Pero recientemente D. Carlos Javier ha dado otro paso que muestra a las claras su absoluto abandono de las responsabilidades dinásticas y políticas que le corresponden: acompañado de su hermana Dña. María Carolina, ha asistido en Barcelona a la boda de Iñaki Urdangarín con la hija menor del Jefe del Estado, cuya familia representa desde 1833 la antítesis absoluta de la Familia Real carlista.
Este gravísimo error ha sido además innecesario y vergonzoso: la Casa Ducal de Parma fue invitada a la boda por La Zarzuela, sin que se esperase que viniera ninguno de sus miembros. A pesar de la invitación, La Zarzuela suprimió su nombre de la lista oficial de invitados facilitada a los medios de información y su presencia de las fotografías oficiales. Para redondear la humillación, la Infanta Dña. María Teresa (tía de D. Carlos Javier y colaboradora habitual del olvidado D. Carlos Hugo) intentó en el último momento que el diario ABC se hiciese eco de la presencia de sus sobrinos en la boda.
Nos parece manifiesto, pues, que D. Carlos Javier renuncia a sus derechos sucesorios. Éstos pasan, y así lo declaramos, a su hermano menor Don Jaime de Borbón y Lippe-Biesterfeld; de quien esperamos una pronta respuesta.
Entretanto, renovamos nuestra expresión de acatamiento a la regencia de S.A.R. Don Sixto Enrique de Borbón, a quien se comunica la presente Declaración.
En Oviedo, a cuatro de noviembre de mil novecientos noventa y siete, festividad de San Carlos Borromeo, Día de la Dinastía Legítima.





Refrendan esta declaración con su firma: Pablo García-Argüelles Arias. Luis Infante de Amorín. Gonzalo Mata Fernández-Miranda. Jesús de Pedro Suárez. Víctor Rodríguez Infiesta. Manuel de Vereterra Fernández de Córdoba.

Purtroppo, anche Giacomo di Borbone Parma, che era il seguente in ordine di successione, ha seguito il medesimo procedere irresponsabile del fratello maggiore, e ha perduto ugualmente tutti i suoi diritti. Però la Dinastia non finisce qui, e le leggi successorie tradizionali ne garantiscono la legittima prosecuzione in tutte queste circostanze.
I leali asturiani, nel frattempo, rimangono vigili. La Monarchia tradizionale e la successione legittima sono troppo importanti per le Spagne, e non si possono lasciare all'arbitrio delle incompetenti mani della vanidades.




Fonte: https://laslibertades.com/2016/10/06/asturias-fue-la-primera-en-declarar-excluidos-a-dos-principes-de-asturias-padre-e-hijo-carlos-hugo-y-carlos-javier/




Di Redazione A.L.T.A.



mercoledì 5 ottobre 2016

Sull'etnocidio




Qualche sera fa, chiacchierando con un'amica sulla situazione di Trieste e del suo territorio, abbiamo toccato, tra i vari argomenti, lo scomodo... tema dell'italianizzazione forzata compiuto dalle forze di occupazione dell'esercito dei Savoia prima, e dal regime fascista nel periodo immediatamente successivo. Quando si parla di questo, molto spesso si rischia di cadere nella facile retorica, sia in una direzione, che nell'altra, sia ben chiaro, quindi, dico io, bisogna muoversi con i piedi ben foderati da calzature di piombo spesso tre, se non quattro dita. L'argomento è scottante e molto delicato, me ne rendo conto e quando osservo che le reazioni di chi si schiera apertamente dalla parte del tricolore, rasentano la fede più cieca, capisco che il lento lavorare ai fianchi delle istituzioni è stato oltremodo efficace, compiuto con un'intelligenza tale, che mi vien da pensare che se le energie impiegate per questo compito fossero state spese verso altre direzioni, magari per qualcosa di socialmente più utile, forse la situazione in questo strano paese stivaliforme bagnato dal Mediterraneo e baciato dal sole, sarebbe senza dubbio migliore e più stabile. Ma che ci si potrà mai fare? Mi chiedo subito dopo. Così è stato e non si può certamente tornare indietro. Da parte nostra, diciamo da parte degli storici, si può soltanto tentare di raccogliere i cocci che affiorano malamente, ben nascosti tra le strade cittadine, tra palazzi, piazze e giardini e dentro a quello che rimane della nostra memoria collettiva, e provare a sigillarli strettamente fra loro, sperando di non lasciarne fuori neanche uno. Un compito arduo, mi scappa da pensare, scuotendo la testa, quando a volte la sera, immerso nei documenti ingialliti che caparbiamente continuo a raccogliere, faccio il resoconto delle giornata trascorsa. A volte invece tutto sembra chiaro e logico e allora l'ottimismo prende superbamente il posto dei pensieri neri e tutto mi sembra possibile.
Dicevo della chiacchierata dell'altra sera. Tra le varie cose dette, ad un certo punto mi scappa una parola, un termine forse, a parere della mia amica, improprio, forse non usato a proposito. Etnocidio. Il punto è capire se effettivamente mi sia scappato al di fuori da ogni senso del reale, oppure, se in qualche modo, l'operazione compiuta di cui dicevo prima, possa invece rientrare nella logica legata al termine in questione, appunto. Ora, non posso pretendere che nelle poche righe che seguiranno riuscirò a svelare, come si dice, l'arcano, però, partendo dal presupposto che quando si entra in una discussione, lo si deve fare essenzialmente supportati da fatti, io credo di non essere stato in torto quando ho tirato fuori, dapprima timidamente, lo ammetto, ma poi sempre con più convinzione questa parola. Vediamo perché:
Tema piuttosto scottante, come dicevo, quello dell'etnocidio. Scottante e scomodo, aggiungerei. Perché è proprio nell'ottica di chi lo applica sistematicamente che la negazione della sua esistenza diventa a sua volta una costante affermazione della sua realtà effettiva e metterlo alla luce del sole porta con sé, come conseguenza, un grosso rischio: l'essere umano colpito da questo subdolo lavaggio del cervello, fino a quel momento inconsapevole vittima del sistema che lo mette in atto, rischia di trasformarsi in un feroce nemico dello status quo. Voglio spiegarmi meglio e per farlo cercherò di rendere chiaro cosa si intenda effettivamente per etnocidio. Secondo l'antropologo Pierre Clastres, l'etnocidio è la distruzione sistematica dei modi di vita e di pensiero differenti ai quali viene imposta la distruzione. Abbastanza chiaro direi, ma non è tutto. Il dizionario Treccani ne dà una versione leggermente più precisa: forma di acculturazione forzata, imposta da una società dominante a una più debole, la quale in tal modo vede rapidamente crollare i valori sociali e morali tipici della propria cultura e perde, alla fine, la propria identità e unità. La perde a tal punto, aggiungo, che in molti casi si assiste a una negazione violenta delle proprie origini e quasi in una sorta di sindrome di Stoccolma, le persone vittime dell'etnocidio possono manifestare sentimenti positivi (in alcuni casi anche fino all'innamoramento) nei confronti di chi l'ha messa in atto. Curiosa la mente umana, no? È molto interessante assistere a come il cervello, nel tentativo di preservare dalla distruzione l'intero organismo, metta in atto delle strategie di autodifesa che in qualche modo efficacemente lo mettono ai ripari.
Torniamo a noi. Quando si parla di genocidio non ci può essere alcun dubbio. Ce ne sono stati tantissimi, il più tristemente noto dei quali è senza dubbio quello ai danni degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, ma non solo. Pensiamo al popolo armeno, quasi distrutto dai turchi, o a quello dei tutsi in Ruanda negli anni novanta. Insomma, è talmente evidente, che sembra quasi inutile discuterne. Ci sono le prove e se non sono così lampanti è perché sono ben celate, ma prima o poi vengono fuori. È matematico. L'etnocidio è più subdolo e meno evidente. Più nascosto, mascherato. Se il genocidio è un infarto, quindi, l'etnocidio è un cancro che lentamente si espande e non ti lascia scampo. È un lento lavorio ai fianchi di chi, per un motivo o per l'altro, non è in grado di opporre resistenza, di difendersi, o perché non in possesso di sufficienti strumenti culturali, o perché, come nel nostro caso, stremati da anni tremendi, di distruzione totale a seguito di una guerra assurda, ci si muoveva a tentoni, orfani di un mondo dissolto, in una città che era diventata la triste imitazione di se stessa, nella flebile speranza che una nuova paternità avrebbe potuto riportarci agli splendori di un tempo, così vicino in termini temporali, ma talmente tanto lontano per altri versi, da sembrare irraggiungibile. Una città svuotata della sua gioventù, una città che assisteva impotente all'abbandono di chi, in preda a paure spesso motivate, si rifugiava nei territori più interni di quello che aveva rappresentato forse il primo tentativo moderno di superamento dei confini mentali legati all'idea nazionale che tanto prepotentemente era esploso invece in quei tremendi cinque anni di follia collettiva e che sarebbe proseguito poi, con alterne vicende per tutto il ventesimo secolo. Se di una cosa sono assolutamente certo è che l'idea nazionale è stato la peggior maledizione che poteva capitarci. E nel nome dell'idea nazionale che nei nostri territori e nella nostra città prende piede questo sistematico lavaggio del cervello, che io, forse ingenuamente e fuori luogo, definisco oggi etnocidio.
Il piano è semplice. Di una semplicità disarmante da sembrare quasi ovvio. Secondo uno schema orwelliano, si agisce sulla memoria collettiva, trasformandola. Come? Innanzitutto bisogna negare qualsiasi appartenenza a etnie che non siano quella ufficialmente riconosciute e gradite. Nel caso specifico, quella italiana. Quindi: esaltazione dello spirito latino, incensandone nomi e figure (che assumono spesso la valenza di eroi), storia e tradizioni che inevitabilmente vengono precedute dai sostantivi “sacro, sacra, sacri, sacre” e quando si parla di sacralità c'è veramente poco da scherzare. Davanti a questo termine ci si può solo inchinare ossequiosamente e nella più totale commozione. Ed ecco che figure, che in altri tempi verrebbero accomunate a quelle di terroristi, si ammantano della sacralità (ancora!) legata al sacrificio estremo. Quello compiuto per la Patria (sacra, ovviamente) ed ecco che Willhelm Oberdank, ad esempio, diventa Guglielmo Oberdan, e da anarchico, quale, secondo alcune fonti, in effetti era, si trasforma ufficialmente nel più celebre martire immolatosi per l'italianità di queste terre.
Come si può manipolare dati e fatti, con estrema facilità, vero? Ma tutto questo rientra nelle modalità proprie dell'etnocidio, di cui questo è soltanto uno dei tanti sistemi di aggressione dell'organismo. In realtà bisogna attaccare su più fronti. Ovviamente accanto a questa creazione di figure eroiche, che devono diventare un simbolo nella memoria di tutti, si procede anche in altre direzioni, naturalmente tutte collegate fra loro, perché la parola d'ordine è negazione della realtà effettiva e costruzione obbligatoria di una realtà fittizia che sostituisca in breve la prima. Quindi: cambio forzato dei nomi propri e dei cognomi originari non di origine italiana. Mi sembra evidente. Togli le radici a un albero e questo in breve crolla, a meno che... a meno che una bella pianta rampicante lo sostenga e gli fornisca una parvenza vitale. Se poi al suo interno l'albero è morto, poco male. Si tratta solo di un effetto collaterale di poco conto. Ciò che conta è che l'albero, prima di morire, sparga i suoi semi al suolo e che nuove piantine possano crescere belle forti e inconsapevoli. È curioso notare come, peraltro, i primi cambi di cognome effettuati già dal 1919 utilizzino una legge austriaca del 1826 non ancora cancellata, che prevede la modifica del cognome su richiesta dell'interessato. Nel 1923 le cose cambiano. Via le leggi austriache ancora in vigore nei nostri territori e spazio a quelle italiane che ad esempio prevedono anch'esse il cambiamento di cognome a richiesta, con la piccola differenza che se prima erano gratuite, adesso va pagata una tassa. Nel 1926 si cambia ancora e vengono istituite norme speciali per la restituzione e la riduzione alla forma italiana gratuita dei cognomi.
Ora non vorrei dilungarmi troppo su questo aspetto del concetto di etnocidio, rimandandovi piuttosto al testo fondamentale di Paolo Parovel “l'Identità Cancellata” che prende in esame la questione sotto vari aspetti, fornendo inoltre un'accurata lista di cognomi “trasformati” che per il numero che raggiunge fa veramente spavento. Qui si parla di circa centomila abitanti che hanno visto il loro cognome subire un'italianizzazione, o sotto forma di semplice traduzione dalla lingua originaria, o per mezzo di fantasiose assonanze. Ma di questo non voglio parlar oltre. Sappiate soltanto che tutto ciò non è una fantasia notturna ma sono dati reali debitamente raccolti negli archivi o nelle gazzette ufficiali del periodo. Uno degli altri subdoli aspetti dell'etnocidio compiuto ai nostri danni è quello della trasformazione dei toponimi. E qui i nostri sentiti ringraziamenti vanno, tra gli altri, alla nobile e tanto decantata Società Alpina delle Giulia, ai tempi Società degli Alpinisti Triestini, che pensa bene di mutare i nomi di paesi, fiumi, laghi, eccetera eccetera, trasformando i nomi originali, nella cartografia fornita tramite il Touring Club Italiano, in altri, anche molto belli, lo ammetto, ma assolutamente improbabili, di chiara matrice italiana. Poi naturalmente le cose vanno avanti e il tutto diventa ufficiale e ci pensa il Regio Istituto Geografico Militare a sistemare una volta per tutte le cose e così, che ne so, Stanjel diventa San Daniele del Carso, Dolina, San Dorligo della Valle e Boljunz, Bagnoli della Rosandra.
E quindi il lavaggio del cervello procede spedito. Sempre dritto senza ripensamenti. E così si chiudono le scuole tedesche e quelle slovene e quelle croate e diventa proibito esprimersi nei luoghi pubblichi utilizzando la “barbara” lingua s'ciava. E si sa, gente tranquilla non vuole storie. E la gente tranquilla, che pensa a lavorare e a passare il tempo rimanente con la propria famiglia, fa presto ad adattarsi alla situazione e allora tutti alle scuole statali italiane, scuole nelle quali, naturalmente i bambini inconsapevoli vengono bombardati da nozioni assolutamente fuorvianti rispetto alla realtà effettiva e alla storia del loro padri e dei loro nonni al punto tale che i nemici della Patria risultano alla fine essere gli stessi che alla sera i bambini si ritrovano in casa. Gli stessi nonni e padri che fra loro barbaramente si esprimono in questo strano idioma pieno di consonanti. E intanto che il tempo passa, le convinzioni di questi giovani cervelli si fanno sempre più profonde. A scuola si cantano i canti che narrano le gesta di questi eroi immolatisi per la Patria, gli eroi del Piave, Pietro Micca, Maroncelli, i fratelli Bandiera. È tutto un flusso inarrestabile di retorica che viene sparsa a piene mani da questi maestri giunti da terre lontane che hanno sostituito in tempi brevissimi, quegli altri, quelli di prima, e che ora sono a pieno titolo i veri portatori del messaggio identitaria nazionale. Nel corso degli anni tutto questo diventa ordinaria amministrazione e nessuno ci pensa più. Operazione perfettamente riuscita. E intanto che i vecchi se ne vanno e i giovani diventano vecchi a loro volta, preparandosi ad andare per lasciare il posto ai nuovi giovani, tutto questo sembra non avere più alcuna importanza. Le fiabe raccontate sono ormai diventate realtà e tutto si è compiuto. La spugna è passata sul volto del tempo e l'ha trasfigurato.
Questo in definitiva è il senso dell'etnocidio, come scrivevo prima un cancro che si insinua lentamente, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ma la conoscenza è alla nostra portata. Non scordiamolo mai. Abbiamo tutti gli strumenti a disposizione per ritrovare una volta ancora il senso delle cose. Il senso della nostra realtà. Sta a noi e soltanto a noi far scattare i meccanismi di difesa, gli anticorpi che ci salveranno la vita, che ci rimetteranno a posto con il nostro passato colpevolmente sepolto e celato una volta per tutte.

lunedì 3 ottobre 2016

Piccolo ripasso del legittimo Stato di diritto della Monarchia spagnola...





Il legittimo Stato di diritto e legislativo della Monarchia spagnola stabilisce una successione semisalica agnatica alla Corona. Una prammatica contro questa norma non può stabilirsi senza il concorso delle Cortes convocate espressamente a tal fine.

Non si può nemmeno considerare i discendenti di un matrimonio diseguale, non dinastico, come successori al Trono. In ambo i casi, i tentativi di <<aggiornamento>> per via di fatto o di decreto sono esempi di dispotismo assolutista, anche quelli dipinti da <<progressismo>> .


Fonte: Carlismo

domenica 2 ottobre 2016

2 Ottobre 1833- 2 Ottobre 2016: CLXXXIII anniversario del Carlismo

CLXXXIII anniversario del Carlismo (Sollevazione di Talavera de la Reina, 1833). ¡Viva Carlos V!


Fonte: Carlismo 

Veneto libero e indipendente. La storia dà ragione ad un popolo


Fonte:http://www.lindipendenzanuova.com/

di ROMANO BRACALINI –Il Veneto fu un losco bottino di guerra. L’Italia lo ebbe grazie alla mediazione francese tra Prussia ed Austria perché apparisse meno scandaloso il fatto che gli unici a trarre profitto dalla campagna del ’66 fossero gli italiani che, alleati dei prussiani, vincitori sul campo, erano stati sconfitti a Custoza e Lissa dagli austriaci. Bisognava dare al nuovo acquisto una parvenza di legittimità popolare, e il 21 ottobre si svolse il plebiscito con il quale si raggirò un’altra volta il popolo veneto. Già il nome, plebiscito, celava l’inganno: un risultato che si dava per scontato. E infatti su 647.426 votanti (su una popolazione di 2.603.009 abitanti) i voti contrari, secondo i dati ufficiali, “furono solamente 69”.
La truffa era evidente. A lungo rimase vivo nel sentimento d’ogni veneto, il rammarico e l’umiliazione d’essere stati considerati poco più che merce di scambio. La Serenissima, San Marco, divennero riferimenti di nostalgia. Il Senato di Venezia parlava veneto, lingua d’uso della Repubblica e della letteratura. Annesso all’Italia, il Veneto divenne un territorio marginale, politicamente irrilevante, in cui la povertà diffusa costringeva gli abitanti all’emigrazione, come le plebi meridionali. I veneti erano chiamati “terroni del Nord”, si rideva dei veneti ubriaconi, le servette del cinema romano parlavano veneto, i pochi carabinieri settentrionali erano veneti. La stessa parlata veneta era oggetto di divertimento e di canzonatura.
Sotto l’Italia il Veneto decadde da ogni ruolo. La politica la facevano i piemontesi e i meridionali. Lombardi e veneti ne diffidavano. Il Veneto aveva conosciuto altre stagioni di decadenza e di abbandono. Dopo la caduta della Repubblica, Venezia cadeva a pezzi; sembrava destinata a morte sicura. I 3000 gondolieri si erano ridotti a un decimo. Si calcolava che i poveri fossero più di 10.000 su una popolazione che in pochi anni era scesa da 175.240 a 100.00 abitanti (l’antica nobiltà perduto ogni ruolo, s’era come eclissata). L’imperatore Francesco I d’Austria volle prendere qualche misura in suo favore e il 29 febbraio 1829 la dichiarò porto franco. In pochi anni Venezia rinacque. Il centro storico venne risanato anche per iniziativa dei proprietari di case, dei commercianti, degli imprenditori che avevano spinto l’amministrazione comunale ad ampliare, demolire, migliorare campi e strade, costruire ponti, interrare canali. Venne costruito il ponte ferroviario che collegava Venezia alla terraferma. La città ebbe l’illuminazione a gas e un nuovo macello nel sestiere di Cannaregio.
Fu l’Austria a intuire le straordinarie capacità d’attrazione della città, varando un programma di valorizzazione del patrimonio storico e artistico e incrementando il fenomeno nuovo del turismo di massa, che contribuì a risanare le casse pubbliche e a ridare nuovo impulso ai commerci. La vita di Venezia scorreva spensierata e allegra. Per il carnevale del 1848 arrivarono in città dai sessantamila ai settantamila forestieri; i caffè di piazza San Marco erano affollati, le divise bianche degli austriaci non costituivano alcun imbarazzo. Venezia austriaca non sarebbe sembrata più straniera di quella italiana. L’amministrazione, al contrario di quelle italiana, era efficiente e equa. Gli stessi avversari del governo erano costretti a riconoscere: “C’era uguaglianza dinanzi alla legge, uguaglianza nelle tassazioni, tolleranza universale e assenza di arbitrio”.
Il teatro La Fenice, dopo l’incendio del 1836, era stato ricostruito a tempo di record, e più bello di prima. Nel 1841, con la posa della prima pietra del ponte lagunare fra Venezia e la terraferma, 3600 metri su 333 archi, ebbero inizio i lavori della “Ferdinandea”, la ferrovia Milano-Venezia. Alla fine del 1842 venne inaugurato il primo tratto fra Padova e l’inizio della laguna, 65 minuti di percorso. Lo sviluppo della rete stradale rese più celere il servizio postale. Le poste nei territori soggetti all’Austria costituivano una privativa regia. La direzione generale delle poste era a Verona. Doveva venire l’Italia per rimpiangere l’Austria.
L’Italia fece peggio dappertutto, avendo l’aria di fare meglio degli antichi Stati. Si cancellarono secolari tradizioni, culture, identità, sotto il pretesto dell’uniformità nazionale. Si ottenne esattamente l’effetto opposto. Né il nuovo Stato apparve più dinamico e moderno. Ma i veneti, più di tutti, conservavano il ricordo della repubblica durata più a lungo. “Marco, Marco” era il grido di guerra della Serenissima; grido che insieme alla bandiera torna a ispirare l’antico sentimento di nazione.