venerdì 27 aprile 2012

La Monarchia sacra Parte Seconda :IL ‘TOCCO’ GUARITORE DEI RE:L’origine miracolosa della monarchia franca:Re Clodoveo e la santa ampolla

Clodoveo I
Clodoveo I (Tournai, ca. 466Parigi, 27 novembre 511) , figlio del re Childerico I e di sua moglie Basina fu il secondo sovrano storicamente accertato della dinastia dei Merovingi, del regno dei Franchi Sali, dal 481 alla sua morte.


I Re di Francia erano unti e consacrati col miracoloso Crisma, a cui un’indiscussa ed antichissima tradizione assegnava una provenienza celeste.
Clodoveo, infatti, divenuto nel 481 d.C. sovrano dei Franchi Salii, tribù germanica professante il paganesimo, che si era stabilita in una regione a cavallo tra l’attuale Francia del Nord-Est ed il Belgio, aveva preso in moglie Clotilde, una principessa cattolica di origine burgunda, che, assieme a San Remigio, arcivescovo di Reims, impiegava ogni sforzo per convertire il sovrano alla vera fede, senza però alcun esito.
Gregorio di Tours nella sua Storia dei Franchi, così narra la conversione del Re pagano:
“Intanto la regina non smetteva di pregare perché Clodoveo arrivasse a conoscere il vero Dio e  gli idoli. Eppure in nessun modo egli poteva essere allontanato da queste credenze, finché un giorno, durante una guerra dichiarata contro gli Alamanni, egli fu costretto per necessità a credere quello che prima aveva negato sempre ostinatamente.
Accadde infatti che, venuti a combattimento i due eserciti, si profilava un massacro e l’esercito di Clodoveo cominciò a subire una grande strage. Vedendo questo, egli, levati gli occhi al cielo e con il cuore addolorato, già scosso dalle lacrime, disse: «O Gesù Cristo, che Clotilde predica come figlio del Dio vivente, tu che, dicono, presti aiuto a coloro che sono angustiati e che doni la vittoria a quelli che sperano in te, io devotamente chiedo la gloria del tuo favore, affinchè, se mi concederai la vittoria sopra questi nemici e se potrò sperimentare quella grazia che dice d’aver provato il popolo dedicato al tuo nome, io possa poi credere in te ed essere così battezzato nel tuo nome. Perché ho invocato i miei dei ma, come vedo, si sono astenuti dall’aiutarmi; per questo credo che loro non posseggano alcuna capacità, perché non soccorrono quelli che credono in loro. Allora, adesso, invoco te, in te voglio credere, basta che tu mi sottragga ai miei nemici». E dopo aver pronunciato queste frasi, ecco che gli Alamanni si volsero in fuga, e cominciarono a disperdersi. Poi, quando seppero che il loro re era stato ucciso, si sottomisero alla volontà di Clodoveo dicendo: «Ti preghiamo, non uccidere più la nostra gente: ormai siamo in mano tua». Ed egli, sospese le ostilità, parlò all’esercito e, tornando in pace, raccontò alla regina in qual modo meritò d’ottenere la vittoria attraverso l’invocazione del nome di Cristo. E questo fu nel quindicesimo anno del suo regno. Allora la regina comanda di nascosto al santo Remigio, vescovo della città di Reims, di presentarsi, pregandolo d’introdurre nell’animo del re la parola della vera salute. Giunto presso di lui, il vescovo cominciò con delicatezza a chiedergli che credesse nel Dio vero, creatore del cielo e della terra, che abbandonasse gli idoli, i quali non potevano giovare né a lui né ad altri. Ma Clodoveo rispondeva: «Io ti ascoltavo volentieri, santissimo padre; ma c’è una cosa: l’esercito, che mi segue in tutto, non ammette di rinunciare ai propri dei; eppure, egualmente, io vado e parlo a loro secondo quanto m’hai
detto». Trovatosi quindi con i suoi, prima ch’egli potesse parlare, poiché la potenza di Dio lo aveva preceduto, tutto l’esercito acclamò all’unisono: «Noi rifiutiamo gli dei mortali, o re pio, e siamo preparati a seguire il Dio che Remigio predica come immortale». E annunziano queste decisioni al vescovo, che, pieno di gioia, comandò che fosse preparato il lavacro. Le piazze sono ombreggiate di veli dipinti, le chiese sono adornate di drappi bianchi, si prepara il battistero, si spargono profumi, ceri fragranti diffondono aromi particolari e tutto il tempio del battistero è soffuso d’una essenza quasi divina e in quel luogo Dio offrì ai presenti la grazia di sentirsi posti fra i profumi del paradiso. Allora il re chiede d’essere battezzato per primo dal pontefice. S’avvicini “al lavacro come un nuovo Costantino, per essere liberato dalla lebbra antica, per sciogliere in un’acqua fresca macchie luride
createsi lontano nel tempo”. E, quando Clodoveo fu entrato nel battesimo, il santo di Dio così disse con parole solenni: «Piega quieto il tuo capo, o Sicambro; adora quello che hai bruciato, brucia quello che hai adorato».[…] Così il re confessò Dio onnipotente nella Trinità, fu battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e venne segnato con il sacro crisma del segno della croce di Cristo. Del suo esercito, poi, ne vennero battezzati più di tremila”.
I Franchi di Clodoveo furono, così, l’unica nazione di stirpe teutonica a non cadere negl’inganni dell’eresia ariana, negatrice della divinità di Cristo, che, a partire dal secolo IV, s’era diffusa entro e fuori il limes imperiale. Dopo l’intervento miracoloso di Dio nella battaglia di Tolbiac del 496 contro gli Alemanni, seguendo l’esempio del loro principe, questi si convertirono in massa, divenendo protettori e benefattori della Chiesa, così da proporsi ben presto come il più potente regno cattolico dell’Occidente.
Clodoveo e Clodilde, principessa canonizzata dalla Chiesa, divennero i capostipiti della prima dinastia regale di Francia, quella dei Merovingi57, che regnò senza discontiniutà fino al 751, quando l’ultimo sovrano della casata venne deposto da Pipino il Breve, primo monarca consacrato della dinastia carolingia.
Quello che Gregorio di Tour accenna velatamente nel racconto del battesimo di Clodoveo - il miracolo della santa ampolla - viene così menzionato con lapidaria semplicità dal Beato Iacopo da Varagine nella sua celebre Legenda aurea:
“Quando il Re s’avvicinò al fonte battesimale il vescovo s’accorse che mancava il sacro crisma, ed ecco che una colomba venne a volo portando nel becco una colomba di Crisma.
Quest’ampolla è ancora conservata nella cattedrale di Reims ed è usata per la consacrazione dei Re”.
L’autore domenicano del secolo XIII non faceva che riprendere un dato a tutti noto. Questa è l’antichissima tradizione di Reims, che venne creduta senza tentennamenti per tutto il Medioevo e gran parte dell’età moderna, in Francia e fuori di Francia, divenendo quasi un indiscutibile luogo comune, finché a partire dal secolo XVIII, il secolo dei ‘lumi’, una critica scettica e demolitrice giunse a dichiararla completamente infondata e menzognera.
Ma perché tanto odio e tanta avversione contro uno dei numerosissimi episodi meravigliosi di cui riferivano doviziosamente le cronache dell’Occidente cristiano? In verità, almeno dall’epoca carolingia, la Santa Ampolla aveva assunto un significato politico-religioso di prim’ordine. Ancora Jacopo da Varagine non manca di sottolinearlo:
“Ques’ampolla è ancora conservata nella cattedrale di Reims ed è usata per la consacrazione dei Re”.
Tutti i sovrani legittimi di Francia, infatti, per quasi mille anni e sino alle soglie dell’età contemporanea, furono unti Re con il Crisma celeste della Santa Ampolla conservata a Reims.
La Santa Ampolla era uno dei ‘dogmi’ più rilevanti, per così dire, della religio monarchica della Civiltà cristiana, fondata sulla stretta alleanza tra il Trono e l’Altare e sulla concezione dell’autorità derivante da Dio, secondo il noto aforisma paolino:
Omnis potestas a Deo [ogni potere viene da Dio].
Scardinare e denigrare questa tradizione storica, abbassandola a mera fantasticheria leggendaria, significava, così, non soltanto colpire il meraviglioso e il soprannaturale di cui era intessuta la storia della Francia cattolica, ma sferrare un attacco diretto contro la monarchia, massima istituzione di quella nazione. A questo si dedicarono, ora con paziente tenacia, ora con violenta determinazione, i rivoluzionari del XVIII secolo.
Tuttavia, ancora nel ‘700, la tradizione della Santa Ampolla conservava agli occhi dei contemporanei di Voltaire tutto il suo misterioso splendore. Così alle soglie della Rivoluzione, il 7 luglio 1775, Luigi XVI di Borbone si dispose a ricevere, come i suoi padri, dalle mani del successore di San Remigio, novello Clodoveo59 anche nel nome, la consacrazione col crisma portato dal Cielo. Poi la catastrofe dell’89, l’imprigionamento della famiglia reale, il martirio del sovrano sul palco della ghigliottina.
E la Santa Ampolla di Reims? Anch’essa subì l’oltraggio dei giacobini. Per ordine della Convenzione Nazionale, infatti, Philippe Rühl, deputato del Basso Reno, il 3 ottobre di quel tragico 1793, mentre infuriava il Terrore, infranse sullo zoccolo della statua di Luigi XV nella Piazza Reale la preziosa reliquia conservata in una teca a forma di colomba.
“Ma la vigilia del giorno in cui fu ordinata la sua distruzione, Seraine ed Hourelle, come lo fa conoscere un processo verbale autentico, estrassero coll’aiuto di un ago d’oro, il più che poterono del balsamo miracoloso, lo chiusero in una carta e lo conservarono”60.
Proprio il giorno prima di quella singolare ‘esecuzione’, però, vi fu chi riuscì ad estrarre provvidenzialmente con un ago d’oro alcune gocce del prezioso liquido61.
Queste vennero in parte utilizzate, per l’ultima volta, nel 1825 in occasione della consacrazione di Carlo X (1824-1830), ultimo monarca legittimo di Francia.
Dopo d’allora e fino ai nostri giorni, quando ormai i princìpi sovvertitori dell’89 si sono radicati nelle istituzioni e nella società civile, fu principalmente nell’ambito storico-critico ed accademico che continuò una sorda guerra contro la tradizione della Santa Ampolla, di cui I re taumaturghi di Marc Bloch, è uno degli esempi più negativi.
Un’obiezione apparentemente insormontabile era sollevata da storici ed eruditi.
Tra i fatti miracolosi di Reims della fine del secolo V e la prima testimonianza scritta di essi, nel IX, intercorre un lasso di tempo di più di tre secoli e mezzo anni, senza che nessun documento anteriore ne faccia menzione.
Colui che per primo li attesta, Incmaro, Arcivescovo di Reims dal 845, nella sua Vita Remigii, appare come il testimone più interessato, meno attendibile e degno di fiducia. Non era infatti ovvio che il successore di San Remigio creasse a bella posta, in quei secoli di facile credulità, una meravigliosa fiaba per esaltare il Santo Patrono di Reims e la sua cattedra? Il silenzio dei documenti per più di tre secoli sembrava la prova più convincente.
Nel 1945, tuttavia, un erudito benedettino di Lovanio, Dom C. Lambot, scopre, su di un manoscritto del XIII secolo, tracce di un’antica liturgia dedicata a San Remigio.
Le antifone e i responsorii citano espressamente il Crisma celeste e l’apparizione dello Spirito Santo sotto forma di colomba! L’anno successivo un altro religioso belga, il canonico F. Baix, tenta una datazione della nuova scoperta, e la fissa ad almeno il secolo VIII, retrodatando di un secolo la tradizione remense della Santa Ampolla, e scagionando così il povero Incmaro.
Tali scoperte, anziché suscitare un nuovo fervore di studi per calibrare meglio la datazione dell’antica liturgia, passarono del tutto sotto silenzio e furono lasciate ammuffire negli archivi.
Si tratta di alcuni versetti della liturgia, poi caduta in disuso, che festeggiava il trapasso del Santo il 13 gennaio, giorno della sua morte, sostituita poi da quella del 1° ottobre tuttora in vigore. In quella più antica formulazione erano raccolti i ricordi dell’evento centrale della feconda attività apostolica del santo francese: la conversione di Clodoveo.
Così l’Antifona recitava:
“Il Beato Remigio santificò l’illustre popolo dei Franchi e il suo nobile re, con l’acqua consacrata dal crisma portato dal Cielo. Egli li arricchì grandemente col dono dello Spirito Santo”.
Il versetto a sua volta recita:
“Il quale [Spirito Santo] grazie al dono di una particolare grazia, apparve sotto forma di colomba e portò al Pontefice dal Cielo il crisma divino”.
L’olio sacro, tuttavia, che S. Remigio aveva ottenuto colle sue preci dal Cielo al momento di battezzare il sovrano Franco, non servì al prelato per amministrare a Clodoveo l’unzione reale. Il celeste unguento infatti fu impiegato per conferire il sacramento del battesimo al Re franco e alla sua corte.
La miracolosa ampolla fu quindi gelosamente conservata tra le reliquie più preziose dell’abbazia di Reims. Con il diffondersi in Occidente della consuetudine di ungere e consacrare i principi cristiani, sul modello vetero-testamentario, questa venne introdotta anche nel Regno di Francia.
Il primo Re franco unto con l’olio santo fu Pipino il Breve nel 751, che volle così legittimare la deposizione dell’ultimo Re della dinastia merovingia, deposto e confinato in un convento. Più di un secolo dopo, l’Arcivescovo Incmaro di Reims innovò l’uso liturgico di benedire con l’olio santo i sovrani carolingi, aggiungendo al crisma che serviva per l’unzione, una goccia del balsamo miracoloso, conservato nella Santa Ampolla di Reims.
Quando la goccia del balsamo celeste cadeva nell’olio consacrato, tutt’intorno, raccontano unanimi le cronache, si spargeva un intenso profumo di paradiso. Così i Re di Francia, come gli altri sovrani d’Europa, erano unti sul capo con il sacro crisma, alla stessa stregua dei vescovi, detentori della pienezza del sacerdozio.
La grande prerogativa della monarchia franca consisteva nell’origine soprannaturale del sacro crisma impiegato nel rito della consacrazione del sovrano.
La gerarchia ecclesiastica in seguito alla controversia delle investiture del secolo XI-XII cercò di sottolineare anche nella liturgia la diversità e subordinazione tra l’ordine sacerdotale e la condizione di sovrano.
Così l’impiego del sacro crisma, come il più prezioso e sacro degli oli liturgici, venne riservato alla sola consacrazione episcopale, mentre nelle cerimonie di unzione dei Re si volle introdurre l’uso del semplice olio dei catecumeni; ed anziché sul capo, come per i vescovi, l’unzione, con il meno prezioso olio dei catecumeni, era applicata sul braccio destro, sul gomito e tra le scapole.
La nuova prassi, tuttavia, non fu universalmente accolta e il Papato dovette tollerare alcune notevoli eccezioni, che si fondavano su antiche consuetudini liturgiche.
Nei Regni più antichi e prestigiosi l’antica prassi rimase ininterrotta fino all’epoca contemporanea.
I Sovrani di Francia, quelli d’Inghilterra, e il Re di Germania, eletto al soglio imperiale, continuarono per lunghi secoli ad essere unti con il sacro crisma sul capo, come i designati all’episcopato.
L’importanza di cui era investito il rito consacratorio dell’unzione non riguardava solo l’essenziale aspetto della legittimità del monarca nella esecuzione delle sue ordinarie funzioni, ma, almeno nel caso dei sovrani guaritori di Francia e d’Inghilterra, era strettamente connessa alla facoltà medicinale sulle scrofole.
Questo spiega perché i sovrani preferissero ‘toccare’ i malati soltanto dopo la consacrazione, vale a dire, quando, col solenne e pubblico rito dell’Incoronazione, la loro legittima ascesa al trono era sanzionata, per così dire, anche dal Cielo.

L'Africa fa la differenza


A Sinistra: Juan Carlos di Borbone-Spagna in Botsuana, in posa al fianco di Jeff Rann,dopo  
l'abbattimento di un elefante  in un safari di lusso. A Destra: Don Sisto Enrico di Borbone-Parma     nella conferenza di Tùnez, 10 Marzo 2012, in difesa degli oppressi ed esuli libici. 

La differenza profonda tra l'usurpazione liberale e la monarchia tradizionale autentica


"La monarchia Cristiana , responsabile e profondamente radicata nei cuori, offre il contrasto più brutale con la mostruosità NATA dal liberalismo, e il re costituzionale". Si toglie al re ciò che costituisce la dignità degli uomini: responsabilità per i loro atti. "E diventa un fantasma, un giocattolo dei partiti, un sigillo nelle mani di un Ministero della maggioranza, la beffa del popolo".

Vogelsang. Politique sociale

«Il monarca conserva gli onori,  e ufficialmente il rango sociale della antica regalità ;» ma, in realtà, essa non è altro che l'asta araldica della nuova oligarchia . «Così, sintetizzando, probabilmente al potere in Spagna non è una monarchia, ma una Poliarchia oligarchica e alternativa, con apparizioni araldiche dell'antica regalità ».

Juan Vázquez de Mella.«La Chiesa indipendente dallo stato ateo»



Mentre Juan Carlos, l'usurpatore, è a caccia durante un Safari di lusso nel mezzo di una crisi economica, S.A.R Don Sisto Enrico è coinvolto in tutte le cause in difesa dei principi della nostra civiltà.                                                                                                                                                        


Fonte:

http://www.carlismo.es/?p=1884

Scritto , tradotto e adattato da:

Il Principe dei Reazionari

L'UNGHERIA ABOLISCE LA REPUBBLICA ED INAUGURA LA SUA NUOVA COSTITUZIONE CRISTIANA


Pontifex.RomaCosa è successo in Ungheria, da provocare le lamentose doglianze delle pedocrazie UE e degli Stati Uniti d'America? E' stata forse proclamata una dittatura? Sono stati sciolti i partiti politici e sospese le cosiddette "garanzie costituzionali"? E' stata dichiarata la guerra a qualche stato confinante? Niente di tutto questo; il Parlamento ungherese ha solamente deciso di modificare la sua Carta Costituzionale rifiutando di uniformarsi a quelle europee ispirate ai principi della rivoluzione francese del 1789 ed istituzionalizzate nel 1791. Victor Orban, capo del governo, con il 1 gennaio 2012, ha intrapreso la strada per il recupero dell'identità nazionale. Con la nuova costituzione, l'Ungheria infatti rimette al centro delle proprie istituzioni Dio, la persona, e la profonda identità del suo popolo legata alla tradizione cristiana voluta e difesa da RE Stefano. Inoltre con legge dello stato, ha limitato notevolmente lo strapotere della banca centrale sottoponendola ...
... al controllo delle istituzioni liberamente elette dal popolo, tutto ciò è stato salutato da quasi tutti gli organi di regime europei come un rischio per la democrazia in Europa ma in verità le oligarchie temono l'espandersi di un fenomeno di rifiuto delle imposizioni e delle intromissioni di Bruxelles nella vita delle nazioni.
Nell'introduzione della nuove legge, inoltre, è scritto che viene "onorata la sacra la corona di re Stefano che da più di mille anni rappresenta l'unità della nazione" e si fa riferimento al cristianesimo come elemento fondante della nazione.
Un'altra misura seria è stata la ristatalizzazione dei fondi pensione e le maxitasse imposte ai grandi gruppi stranieri attivi in settori chiave quali distribuzione alimentare, telecomunicazioni e credito (questi gruppi hanno presentato ricorso in sede comunitaria). Infine, il governo ha limitato i margini di manovra della Banca centrale europea, attirandosi ulteriori e copiose critiche dall’Ue, che chiede a Orban di ripensarci.
La risposta è stata bella e perentoria: «Non c’è nessuno al mondo che possa dire ai deputati eletti dal popolo ungherese quali leggi possono o non possono votare», ha tagliato corto il primo ministro.
Nel testo della nuova costituzione scompare la dicitura Repubblica per lasciare il posto alla sola Ungheria di cui si invoca la benedizione di Dio; si chiede la punizioni per i crimini commessi dai comunisti sino al 1989 inclusi i responsabili dell'attuale partito socialista.
Si dichiara inoltre che l'essere umano è tale sin dal suo concepimento, ed è vietato il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Non si tratta di un ritorno alla fede cattolica; lo Stato ha ripristinato semplicemente i principi del diritto naturale, infatti, più del 20 % degli ungheresi non è cattolico ma calvinista, e costoro pare siano i più decisi avversari delle derive omosessualiste; questo dato ci consola, perchè fornisce la garanzia di una battaglia che sarà combattuta seriamente. Siamo invece indignati leggendo i toni del quotidiano cattolico francese "LA CROIX", (organo dei vescovi d'oltralpe) ove la vittoria degli anti-abortisti ungheresi è vista con disappunto, riprendendo gli stereotipi della stampa radicale e massonica; per noi ciò non costituisce novità, perchè sappiamo per esperianza che "la chiesa del vaticano II" prima di essere "cattolica", è anzitutto "anti-fascista".
In foto il Cardinale Jozsef Mindszenty, Primate d'Ungheria. Più volte torturato dai comunisti, si era rifugiato nell'Ambasciata americana di Budapest dopo l'insurrezione fallita del 1956. Contrario ad ogni politica di apertura all'URSS, seguita dai cardinali Villot e Casaroli, in linea con i dettami del Vaticano II, il prelato abbandonò la prigionia volontaria nell'Ambasciata, grazie al Presidente Richard Nixon solo nel 1971. Pressato da Paolo VI rifiutò le dimissioni da Primate, e quindi fu deposto d'autorità nel 1973.
R. Gatto
L'INFORMAZIONE CATTOLICA - CIRCOLARE DELL’ASSOCIAZIONE “SAN MICHELE ARCANGELO” - GENOVA

Dizionario corografico del ducato di Modena Di Mauro Sabbattini



Cliccare sul link sottostante per accedere al testo



Dalla Carboneria fiamme sulla Chiesa




di Angela Pellicciari

Distruggere il cattolicesimo, secondo documenti del 1818, sarebbe stato lo scopo dell’associazione.

[Da "La Padania", 27 luglio 2001]

Passato il ciclone Napoleone, a continuarne la battaglia rivoluzionaria restano i suoi eredi: militari che hanno acquisito ricchezza e potere, borghesi arricchiti con la legale spoliazione dei beni della Chiesa, cadetti delle casate nobiliari, studenti romanticamente attratti dall’ideale nazionale. I membri delle società segrete. "Chi pensava allora all’Italia, alla sua indipendenza, alla sua rigenerazione? Meno poche eccezioni, la schiuma sopraffina della canaglia, che si riuniva misteriosamente nelle vendite dei Carbonari": in termini così poco lusinghieri Massimo D’Azeglio descrive ne I miei ricordi la società segreta protagonista dei tentativi insurrezionali dei primi decenni dell’Ottocento. "Figliuola della Frammassoneria", come scrive nella Storia d’Italia pubblicata nel 1851 lo storico massone Giuseppe La Farina che parla, come sottolinea, con "cognizione di causa", la carboneria organizza i moti del 1817 a Macerata, del 1820 a Nola, Avellino, Napoli e Milano, del 1821 a Torino, del 1831 a Modena e nelle Legazioni. Gli intenti dell’Alta Vendita, vale a dire della direzione strategica della rivoluzione in quel periodo, sono chiaramente enunciati in documenti caduti in mano della polizia pontificia. Si tratta di un interessantissimo epistolario e di uno scritto noto col nome di Istruzione permanente redatto nel 1818. Sia l’Istruzione che le lettere sono testi estremamente significativi perché, tenendoli presente, si capisce qualcosa di più del come e del perché si sia giunti alla formazione del Regno d’Italia. Quale lo scopo della carboneria? Detto in parole povere la liberazione dell’Italia dal cattolicesimo. E l’unità e l’indipendenza? Favole, miti per gente semplice e credulona. Proprio così scrive Felice a Nubio - i nomi di battaglia dei carbonari non sono stati divulgati - l’11 giugno 1829: "l’indipendenza e l’unità d’Italia sono chimere. Pure queste chimere producono un certo effetto sopra le masse e sopra la bollente gioventù. Noi, caro Nubio, noi sappiamo quello che valgono questi principii. Sono palloni vuoti". Per capire con quali armi i rivoluzionari contassero di stroncare il cattolicesimo in Italia conviene citare per esteso i testi dei carbonari: si tratta di documenti che non è esagerato definire agghiaccianti. La calunnia, la maldicenza, l’infiltrazione nelle file del clero, la disintegrazione della famiglia, la corruzione, sono le armi spregiudicatamente scelte e consigliate per conseguire lo scopo prefisso.

Veniamo ai testi. "Il nostro scopo finale - sostiene l’Istruzione - è quello di Voltaire e della rivoluzione francese: cioè l’annichilimento completo del cattolicismo e perfino dell’idea cristiana"; l’Alta Vendita si prefigge una "rigenerazione universale", inconciliabile con la sopravvivenza del cristianesimo. Vindice scrive a Nubio: "Noi abbiamo intrapresa la fabbrica della corruzione alla grande; della corruzione del popolo per mezzo del clero e del clero per mezzo nostro. Questa corruzione dee condurci al seppellimento della Chiesa cattolica". L’Istruzione prevede che, dove non si arrivi con la corruzione, si debba supplire con la calunnia: "Schiacciate il nemico, quando è potente, a forza di maldicenze e di calunnie"; una parola ben inventata, "una parola può, qualche volta, uccidere un uomo. Come l’Inghilterra e la Francia, così l’Italia non mancherà mai di penne che sappiano dire bugie utili per la buona causa. Con un giornale in mano, il popolo non avrà bisogno di altre prove".

Ancora: "Dovete sembrare semplici come colombe, ma sarete prudenti come i serpenti. I vostri genitori, i vostri figli, le vostre stesse mogli devono sempre ignorare il segreto che portate in seno, e, se per meglio ingannare l’occhio inquisitore, decideste di andare spesso a confessarvi, siete a ragione autorizzati a conservare il più rigoroso segreto su queste cose". Le istruzioni continuano: "dovete presentarvi con tutte le apparenze dell’uomo serio e morale. Una volta che la vostra buona reputazione sia stabilita nei collegi, nei ginnasi, nelle università e nei seminari, una volta che abbiate catturato la confidenza di professori e studenti, fate in modo che a cercare la vostra compagnia siano soprattutto quanti sono arruolati nella milizia clericale. Si tratta di stabilire il regno degli eletti sul trono della prostituta di Babilonia: che il clero marci sotto la vostra bandiera mai dubitando di seguire quella delle chiavi apostoliche".

Da sempre le élite rivoluzionarie, considerando se stesse migliori del volgo, hanno creduto loro dovere insegnare al popolo cosa pensare. Da sempre lo hanno fatto poco a poco perché la popolazione non si ritraesse inorridita. Da sempre si è trattato di insinuarsi pian piano con abile propaganda per poi venire all’improvviso - e simultaneamente - allo scoperto. Vanno tanto diversamente le cose ai giorni nostri? Solo fino a qualche anno fa sarebbero state pensabili ostentazioni della diversità sessuale, uteri in affitto, sperimentazione sugli embrioni, clonazioni realizzate ed annunciate e via discorrendo?

Una guerra a colpi di scomuniche



di Angela Pellicciari

Un capitolo poco noto del Risorgimento: i rapporti tra Chiesa e Massoneria.

[Da "La Padania", 29 luglio 2001]

"La liberazione d’Italia - opera eminentemente massonica - fu sorretta, in ogni suo passaggio fondamentale, dalla iniziativa delle Comunioni massoniche d’oltralpe". Ad esprimersi così, nel 1988, è il gran maestro Armando Corona che prosegue: la massoneria "fu il vero ispiratore e motore" del Risorgimento "perché sua era l’idea guida della liberazione dei popoli". Dal momento che la massoneria è stata, per bocca dei suoi più autorevoli esponenti, protagonista del Risorgimento e dal momento che la popolazione italiana è da circa due millenni cattolica, vediamo cosa la Chiesa cattolica pensi della società che ha animato, insieme a quella italiana, le rivoluzioni degli ultimi secoli.

La Massoneria moderna nasce a Londra nel 1717 e la prima delle centinaia di scomuniche emesse dalla Chiesa nei suoi confronti è solo di qualche anno posteriore. Il 28 aprile 1738, nella bolla In eminenti, Clemente XII condanna il segreto che caratterizza le associazioni dei Liberi-Muratori, il silenzio imposto "intorno alle cose che esse compiono segretamente" (se non operassero iniquamente, "non odierebbero tanto decisamente la luce"), il disaccordo con le leggi civili e canoniche.

Clemente XII vuole scongiurare il pericolo che "questa razza di uomini non saccheggi la Casa come ladri, né come le volpi rovini la Vigna; affinché, cioè, non corrompa i cuori dei semplici né ferisca occultamente gl’innocenti". Tredici anni dopo è la volta di Benedetto XIV che, il 18 marzo del 1751, pubblica la bolla Providas Romanorum. Nulla di nuovo, si tratta semplicemente di reiterare le condanne già espresse: il papa è costretto a farlo perché "alcuni non hanno avuto difficoltà ad affermare e diffondere pubblicamente che la detta pena di scomunica imposta dal Nostro Predecessore non è più operante perché la relativa Costituzione non è poi stata da Noi confermata, quasi che sia necessaria, perché le Apostoliche Costituzioni mantengano validità, la conferma esplicita del successore".

Il 3 settembre 1821 è la volta di Pio VII con la bolla Ecclesiam a Jesu Christo. Il papa torna sull’argomento perché i "Carbonari pretendono, erroneamente, di non essere compresi nelle due Costituzioni di Clemente XII e di Benedetto XIV né di essere soggetti alle sentenze e alle sanzioni in esse previste".

Pio VII ammonisce di non prestare "alcun credito alle parole" dei carbonari, perché "costoro simulano un singolare rispetto e un certo straordinario zelo verso la Religione Cattolica e verso la persona e l’insegnamento di Gesù Cristo Nostro Salvatore, che talvolta osano sacrilegamente chiamare Rettore e grande Maestro della loro società. Ma questi discorsi, che sembrano ammorbiditi con l’olio, non sono altro che dardi scoccati con più sicurezza da uomini astuti, per ferire i meno cauti; quegli uomini si presentano in vesti di agnello ma nell’intimo sono lupi rapaci". Il pontefice ricorda che i carbonari sono all’origine dei tentativi rivoluzionari di quegli anni, e ribadisce che "nel sovvertire questa Sede Apostolica sono animati da un odio particolare". Pio VIII rinnova il monito nel 1829 e, sempre riferendosi alla Carboneria, afferma: "Tra tutte queste sette segrete Noi abbiamo risoluto di segnalarne alla vostra attenzione una speciale formata di recente: il cui scopo è di corrompere la gioventù educata nei ginnasii e nei licei". Non lasciatevi "sedurre da nessuna apparenza, né ingannare da veruna arte maliziosa", raccomanda il papa. I pronunciamenti della Chiesa contro la Massoneria si rinnovano nel tempo fino ad arrivare al più recente del 26 novembre del 1983. In questa data la Congregazione per la dottrina della fede emette un provvedimento solenne firmato dal Prefetto, card. Ratzinger, in cui si sostiene: "Rimane immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche [...] e perciò l’iscrizione ad esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla santa comunione".

Cosa dire di più? Una piccola citazione può mostrare l’attualità dell’argomento. La voce Massoneria di una delle più diffuse enciclopedie mondiali su dischetto (The 1995 Grolier Multimedia Encyclopedia) dopo aver ricordato che in passato l’Istituzione è stata aspramente combattuta dalla Chiesa specifica: "A papal ban on Roman Catholic membership in Masonic lodges was rescinded in 1983" (il divieto per i cattolici di far parte di logge massoniche è stato cancellato nel 1983). L’esatto contrario di quello che la chiesa ha solennemente ribadito. Niente di nuovo sotto il sole.

giovedì 26 aprile 2012

Memorie per la Storia del Giacobinismo (in cinque volumi, scritte dall’abate Agostino Barruel e tradotte dal francese) Un autentico capolavoro sulla congiura anticristiana ordita in Francia e in Europa, al tempo della nefanda rivoluzione, da massoni e illuministi contro la Chiesa e gli Stati cattolici




L’abate Agostino Barruel


Associazione legittimista Italica vi da la possibilità( in collaborazione con http://www.traditio.it/) di scaricare in formato PDF l'opera "Memorie per la Storia del Giacobinismo" (in cinque volumi, scritte dall’abate Agostino Barruel e tradotte dal francese). Alcuni capitoli del I° Tomo sono stati precedentemente pubblicati in questo sito.


http://www.traditio.it/SACRUM%20IMP/2009/settembre/7/Barruel_Memorie_Tomo_I.pdf


http://www.traditio.it/SACRUM%20IMP/2009/settembre/7/Barruel_Memorie_Tomo_II.pdf


http://www.traditio.it/SACRUM%20IMP/2009/settembre/7/Barruel_Memorie_Tomo_III.pdf


http://www.traditio.it/SACRUM%20IMP/2009/settembre/7/Barruel_Memorie_Tomo_IV.pdf


http://www.traditio.it/SACRUM%20IMP/2009/settembre/7/Barruel_Memorie_Tomo_V.pdf

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 31°): Si discute la controffensiva contro Garibaldi scontri a Triflisco viene approvato il piano di battaglia di Lamoricière



Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.



La sera del 30 Settembre, Ritucci ordinò all'esercito che si disponesse per la mattina seguente, ad una grande ricognizione armata.
Intanto al Generalissimo Napoletano era riuscito difficile avere precise notizie sullo stato del nemico, e sulle fortificazioni fatte da costui. Mancavano le spie, mancavano tutte quelle risorse necessarie ad un Generale che s'impegni ad assalire il suo avversario in una campale battaglia.
Non si fecero che semplici ricognizioni del terreno sul quale doveasi dar battaglia. Il Ritucci non fece eseguire alcuna seria ricognizione, per certe ragioni che mi sembrano speciose, cioè per non isvegliare l'attenzione, e mettere in guardia il nemico, (mentre costui era già informato di tutto); per non provocare parziali combattimenti; e perché il terreno sul quale doveasi combattere era ben conosciuto anche dal semplice soldato. Parmi però, che in simili circostanze, le ricognizioni si debbano principalmente seguire per vedere se il nemico avesse preparato qualche tranello a coloro che debbono assalirlo; e maggiormente quando si abbia per l'avversario un uomo poco scrupoloso nell'eseguire quelle leggi che nelle guerre son necessarie.
La sera del 30 settembre, si diede a tutta la truppa il pane e la carne lessata da mangiarsela il giorno seguente, ma i soldati tutto divorarono immediatamente; di modo che, pel giorno della battaglia rimasero digiuni ed assetati, e non si pensò come ristorarli.
Narrando l'eccidio del 1° ottobre, l'unica azione di guerra del 1860 e 1861 che merita il nome di Battaglia, se non si volesse chiamar tale il grosso fatto d'armi di Milazzo, io non verrò in tutte quelle particolarità e circostanze che annoierebbero il lettore, dirò le cose più rilevanti e necessarie a conoscersi.
Io che fui testimone oculare, essendomi trovato tutto quel giorno memorabile sul campo di battaglia, confortato dal mio dovere, e spesso spinto, - debbo confessarlo? - da indomabile e talora censurabile curiosità; mi feci a correre in mezzo a quella lotta terribile ove assai cose vidi, ed ascoltai! il mio ministero obbligandomi a correre in diversi punti, ed ove più fervea la mischia tra' combattenti, posso meglio che altri militari narrare quello che avveniva, perché costoro parlar possono solamente del luogo ove combatteano. Di dove non fui presente, dirò quanto mi venne detto dagli altri testimoni oculari, che trovo confermato da' rapporti militari dei regï, quando de' garibaldini.
La battaglia del 1° ottobre, non solo è interessante in sè stessa, ma fu l'ultima disgraziata prova che fece l'esercito napoletano con la quasi certezza di salvare la dinastia e il trono delle due Sicilie: ma indubitatamente fu quella la più solenne testimonianza dell'onore delle armi napoletane.
La mattina del 1° ottobre alle tre e mezzo uscivano le truppe da Capua per assalire il nemico. La divisione del maresciallo Gaetano Afan de Riviera, di cui faceva parte, ebbe l'ordine dal Capitano di Stato maggior Cav. de Torrenteros di investire la posizione di S. Angelo. La divisione del Generale Tabacchi dirigersi al centro verso S. Maria; e il Generale Segarsi con quattro squadroni di lancieri, e quattro cannoni, a destra contro S. Tammaro e Carditello. Furono lasciati tre battaglioni di riserva, comandati da Grenet; e il Comandante in Capo Ritucci quando in sul tardi di quell'azione inviò a richiederla nel momento del bisogno, non la trovò al posto assegnatole, e domandatone poi conto al Generale Tabacchi, questi che pur sapea chi usata l'avesse, volle presumere una responsabilità grave, e rispose: «ne ho disposto per quella libertà di azione che aver deve un Generale sul campo.» Badate che si andava ad investire le belle posizioni di S. Angelo, e S. Maria, che si erano abbandonate al nemico, il quale aveale ben munite e fortificate.
La brigata Polizzy, ov'io appartenea, fu la prima ad attaccar la pugna sotto S. Angelo, l'altra brigata Barbalonga dovea sostenerla. Il primo errore de' nostri Generali fu quello di far marciare i soldati in massa, invece dell'ordine aperto, sopra un terreno non esplorato.
Erano le cinque del mattino, il 10° cacciatori di vanguardia, comandato dal Tenente-colonnello Capecelatro, aprì il fuoco investendo il nemico sotto S. Angelo per la diritta della strada consolare, e fu quello il segnale della battaglia. Giunto quel battaglione vicino la Casina Longo, incalzando sempre i garibaldini de' posti avanzati, costoro scoversero una batteria di otto grossi cannoni co' quali sparsero la morte sopra quel Battaglione, che per sensibilissime perdite diede indietro. Si avanzò il 9° cacciatori, sostenuto dall'8°, ed alla corsa assaltò quella micidiale batteria. Il 1° Sergente Gennaro Ventimiglia del 9° cacciatori, con un drappello di soldati, fu il primo a slanciarsi sui pezzi. La lotta fu sanguinosa. Quando i soldati raggiunsero i cannoni, gli artiglieri garibaldini, che la maggior parte erano inglesi, non vollero cederli; quindi il contrasto divenne letteralmente corpo a corpo: ove a' sordi colpi di baionetta, ed a quelli sonori di fucile, faceano corona pugni, calci, morsi, e per fino utilizzavansi per ferire, le pietre....! Prevalse la bravura napoletana: i nemici parte fuggirono, parte furono uccisi, e qualcuno fu fatto prigioniero. I cannoni furono inchiodati. Si distinsero tra gli altri in quell'assalto, oltre del Ventimiglia, che si ebbe la medaglia d'oro di S. Giorgio, mentre avrebbe meritato di esser fatto uffiziale sul campo di battaglia, i soldati Lupo, e Giuzio anche del 9° cacciatori, e quest'ultimo fu fatto Sergente per ordine del Re. Tra i valorosi che vi lasciarono la vita fuvvi il giovane uffiziale La Faie, che spirò abbracciato ad un cannone, crivellato di ferite.
Impresa l'azione, i garibaldini appostati uscirono delle loro trincee, e si avanzarono contro la brigata Polizzy: entrarono perciò in azione l'8° e il 7° cacciatori; quest'ultimo guidato dal Prode Tenentecolonnello Tedeschi, fece prodigii di valore, come anche l'altro comandato dal Tenentecolonnello Antonino Nunziante. Entrò pure in azione il 2° cacciatori, comandato dal Maggiore Castellani, e siccome costui cadde dal cavallo, quel Battaglione fu guidato nell'attacco dal benemerito e distinto Capitano di Stato Maggiore Michele Bellucci. I nemici furono respinti, e corsero a salvarsi dietro le trincee dalle quali erano usciti. Giacomo Longo nipote del Generale de Sauget, antico uffiziale di artiglieria napoletana, e disertore sin dal 1848, cercò opporsi a' regï, e colpito in fronte, non validamente, fu salvato dai suoi. Allora fecesi avanti Avezzana con due battaglioni versi l'ala diritta de' regï. Nel medesimo tempo, Medici con la sua divisione si oppone di fronte, e dispone una batteria sulla china del monte S. Angelo. Quella batteria cominciò a fulminare a mitraglia il 9° cacciatori che si era avanzato più degli altri. Fu in quel punto che la lotta divenne davvero micidiale: regï e garibaldini ora retrocedevano, ora avanzavano con varia fortuna.
Vicino la Cupa Lucarelli avvenne un massacro, ma più di garibaldini, ad onta che costoro si fossero fortificati, al solito, in due casamenti; vennero assaltati alla baionetta, e cadeano a centinaia.
Dunn fu ferito con parecchi suoi uffiziali, ed altri vi lasciarono miseramente la vita.
Dopo quel combattimento accanito, i regï presero i cannoni di Medici, le trincee, e scacciarono Avezzana, ed un tal comandante Simonetti della divisione Medici.
I regï pria di entrare in S. Angelo trovarono il battaglione degli Ungaresi, i quali si batterono da valorosi, ma furono costretti a cedere. I soldati entrarono in S. Angelo ed assaltarono gli accantonamenti, non trovarono garibaldini, ma trovarono la loro zuppa pronta, ed in gran quantità di pane, prosciutti, e formelle di cacio. Ciò che avvenne mi è difficile descrivere.
I soldati che erano digiuni, anzi affamati, diedero l'assalto a tutti que' viveri, infischiandosi di una batteria nemica che tirava dalla montagna sopra S. Angelo spesso fulminandoli. Quindi si videro molti tra essi soldati, trascinar prosciutti e far fuoco da bravi contro il nemico. Se ne vedeano altri carichi di pane e pezze di formaggio, correr dietro sulla scoscesa di S. Angelo a qualche altro pane o forma di cacio che rotolava giù; e in mezzo a quella confusione, senza lasciar di combattere, si rideva e si diceano frizzi arguti e sagaci. Que' soldati, poi, che non ebbero il tempo di prender qualche cosa, o mangiarsi la zuppa di riso, condussero sul luogo del combattimento le caldaie piene, e coloro che doveano avanzarsi contro il nemico, si provvedevano di quella zuppa, mettendola ne' fazzoletti, o nell'estremità del cappotto. I soldati s'impossessarono pure di quattro carri, due ambulanze, tre cannoni e tre casse piene d'armi.
Garibaldi, che avea cominciato la battaglia dalla parte di S. Maria contro la divisione Tabacchi,
udendo che il rombo del cannone aumentava sempre dal suo fianco diritto, e vedendo fuggire i suoi da S. Angelo, corse in carrozza regia da quella parte, ma venne assalito da un drappello di soldati dell'11° cacciatori guidati dall'Alfiere Mariadangelo; costoro gli uccisero il cocchiere ed un cavallo, e stavano per far prigioniero lo stesso Dittatore! Costui si gittò dalla carrozza e fuggì; i soldati gli tirarono delle fucilate, ma nol colpirono. Garibaldi non fu riconosciuto da' regï, altrimenti non l'avrebbero fatto scappare a qualunque costo. Da questo fatto, e da un sontuoso feretro uscito il 2 ottobre dal palazzo d'Angri ebbe origine la diceria popolare, cioè che Garibaldi fosse stato ucciso in S. Angelo, e che lo sostituisse politicamente un altro che gli rassomigliava.
Un uffiziale ch'era in carrozza col Dittatore, fu preso da alcuni villani, e consegnato a' soldati. Garibaldi sfuggito a quel serio pericolo, per vie oblique riuscì ove si trovava Medici; e tra lo scompiglio de' suoi, raccomandò che tenessero fermo, mentre egli saliva la vetta di S. Jorio per guardare il campo di battaglia. Ivi trovò i garibaldini che erano stati messi a difendere S. Angelo, e vide i regï oramai padroni di quel punto strategico che mangiavano la zuppa preparata per la sua gente. Fu allora che diede ordine di tirare contro costoro con cannoni carichi a granate. Egli per animare i suoi dicea aver vittoria su tutta la linea; però la sua gente fuggiva sempre verso Caserta avendo prove in contrario ed evidentissime.
Garibaldi comprese il pericolo che avrebbe corso, se i regi di S. Angelo fossero andati a percuoterlo sulla diritta verso S. Maria, lasciò quelli che difeso aveano S. Angelo, i quali eransi riparati sulle creste de' monti, e corse verso S. Maria, dando ordine a Turr, che si avanzasse da Caserta con la riserva per soccorrere la divisione Milbitz, e di opporsi a' regi di S. Angelo, se costoro so fossero determinati a girare per la sua diritta.
I soldati padroni di S. Angelo e di tutte le posizioni che aveano occupate i garibaldini, non aveano più nemici da combattere sulla loro sinistra. Il capitano Ferdinando Campanino dell'11° Cacciatori, da prode, con la gente a' suoi ordini, s'impadronì alla cresta del monte, d'un fortino nemico, inchiodando due pezzi da campo, e menando seco altri due obici di trascino, armi, munizioni, e facendo anche de' prigionieri. Egli in questo brillante fatto di guerra fu coadiuvato dal 1° tenente del genio Catazeriti, dal Capitano Emmanuele Russo dell'8° Cacciatori, dal tenente de Merich dell'11°, dall'alfiere Giovanni Greco, anche dell'11°, e da altri cui sarebbe giustizia ricordare i nomi per patrio orgoglio se io tutti li sapessi.
Il Maresciallo Afan de Riviera, avrebbe dovuto profittare della vittoria e dell'entusiasmo de' soldati della sua divisione per slanciarsi sulla destra di Garibaldi, e prendere di fianco S. Maria, in quel tempo stesso che di fronte combattea l'altra divisione comandata dal generale Tabacchi. Ma egli non diede alcun ordine, anzi in tutto il tempo della battaglia non si lasciò punto vedere, e tutti ignoravano persino ove si trovasse il Comandante la divisione. Mancando così la direzione e la sorveglianza del capo di quella truppa, non pochi subalterni abbandonarono i soldati, coricandosi sotto i piccoli ponti, nelle cupe, e nelle case circonvicine.
I capi Battaglioni fecero tutti il proprio dovere chi più chi meno, ma quello che più si distinse davvero fu il prode ed infaticabile Tenente Colonnello Tedeschi, comandante il 7° Cacciatori.
Il Comandante il 9° Cacciatori Tenente Colonnello Francesco Scappaticci conveniunt rebus nomina saepe suis - sin dal principio della battaglia abbandonò il Battaglione, e scappò per rifugiarsi sotto le batterie di Capua. E quando il tenente Baracaracciolo suo dipendente, (mi dispiace che non ricordo il nome di questo distinto uffiziale) lo cercò per dirgli che i soldati mancavano di cartucce, lo Scappaticci rispose: Eccomi qui, vado io stesso dentro Capua, e vi mando le cartucce. Avea tanta paura che neppure teneasi sicuro sotto le batterie di quella piazza! Scappaticci era stato messo a comandare il 9° Battaglione Cacciatori dal Ministro Pianelli, ad onta delle osservazioni in contrario fatte dal Generale Bosco che lo conoscea; ma a quella gemma di Ministro liberale conveniva affidare quel distinto Battaglione a tanto prode Comandante.
La divisione di Afan de Riviera, vincitrice in tutta la linea, rimase inoperosa nelle posizioni di S. Angelo, già tolte a' garibaldini: e ciò avveniva, mentre che le sorti della battaglia pendeano indecise in S. Maria. Io, il chirurgo del 9° cacciatori Dedominicis, il cappellano Vozza dell'8°, l'altro del 2° della stessa arma, Pardi, il chirurgo D. Pasquale Netti, che giravano il campo per soccorrere i feriti ed i moribondi; non ci davamo pace nel vedere tutta quella truppa vittoriosa, sbandata per que' campi e senza far nulla. Un chirurgo disse a parecchi gruppi di soldati: «è giusto che così vi fermiate inoperosi, mentre il resto dell'esercito combatte in S. Maria e poco lungi da qui? «E costoro risposero ad una voce: «Noi non desideriamo che soccorrere i nostri compagni, ma chi ci guida? ove sono i nostri superiori? «Fatale verità...!
Impresa l'azione verso S. Angelo, il generalissimo Ritucci mandò ordine al colonnello Raffaele Ferrara comandante il Battaglione Tiragliatori della guardia, onde le quattro compagnie da lui dipendenti (le altre quattro erano aggregate alla divisione Rivera, brigata Barbalonga, e comandate dal distinto Capitano Paolo Laus) si fossero avanzate in ordine aperto sul Campo Santo, di Santa Maria. Primo a spiegarsi e spingersi fu la compagnia comandata dal Capitano Pasquale Palladino, seguito da altre agli ordini de' capitani Raffaele Caracciolo e Ferdinando Frezza. Il Capitano Palladino si avanzò combattendo sempre fino alla compromissione. Soccorso in tempo da truppe che lo seguirono, potè coi suoi salvarsi tra le stragi e la morte. In quella lotta, fra gli uccisi fuvvi il distinto giovane Capitano de Mellot del 3° cacciatori della guardia.
Il Tenente-colonnello Giovanni de Cosiron, che comandava il terzo Battaglione del terzo Reggimento della guardia, essendo di sostegno alle quattro compagnie de' Tiragliatori, fece prodigii di valore; ed io lessi in una nota scritta di proprio pugno dal Generale in Capo Ritucci le seguenti parole che riguardano il de Cosiron: «Con zelo e coraggio spinse la truppa più volte sotto S. Maria, dando esempio di bravura. Di tal chè per lui la giornata non sarebbe mancata di essere la più brillante.
I garibaldini già respinti, incalzati con le baionette a' reni fino alle prime case di S. Maria, ebbero a ventura sentir battere la ritirata de' regï, e de Cosiron con la sua gente stupì a quell'ordine, che a malincuore eseguì. Ripiegando vide avanzare la guardia reale dipendente dal Colonnello Giovanni d'Orgemont, tirando fucilate all'impazzate, e se i tiragliatori e i cacciatori della guardia non si fosse gettati ne' fossati, e sinuosità de' terreni laterali, sarebbero stati massacrati dagli stessi compagni d'armi. Sono fatti incredibili, ma disgraziatamente veri...!
Nell'assalto di S. Maria la divisione Tabacchi fu disposta in tre piccole colonne di attacco, una comandata dal distintissimo conte Colonnello Marulli comandante il 1° granatieri della guardia, muoveva verso l'Anfiteatro di S. Maria: un'altra comandata da d'Orgemont si avanzò verso il Convento de' Cappuccini, e la terza con due reggimenti ed una compagnia di tiragliatori rimasero di riserva col Tabacchi. Il Prode Colonnello Negri comandava l'artiglieria, e Segardi la Cavalleria. Costui volgeva a S. Tammaro, ove assalirà i garibaldini comandati da Fardella, i quali fuggirono. Segardi però rimase inoperoso, onde lo stesso Fardella potè riunirsi agli altri garibaldini comandati da un Melenchini, che si trovavano dalla parte della strada ferrata, ove i regi avrebbero dovuto dare il maggiore assalto.
Negri pose l'artiglieria ove la strada che da Capua mena a S. Maria fa gomito, ed ivi coperto da una casa, tirava a mitraglia sopra l'Anfiteatro, dietro il quale si erano riuniti i garibaldini condotti da Fardella e Melenchini.
Quando la pugna erasi generalizzata, la riserva comandata da Grenet, dovea attendere gli ordini di Ritucci, però si spinse, o fu fatta spingere pure ad attaccare il nemico.
I regï si avanzavano, e quando credeano di aver superati gli ostacoli e le barricate, altre ne trovavano insuperabili. Tutta la via era ingombra di difese, e gremita di gros si cannoni diretti da uffiziali napoletani disertori, con artiglieri piemontesi ed inglesi, i quali tiravano a scaglia contro i regï in quella strada lunga e diritta per la quale si avanzavano. L'uffiziale Giordano che si era troppo inoltrato con l'artiglieria, fu ucciso, e con esso altri uffiziali e soldati. Gli animali di tiro quali morti, quali feriti, resero impossibile il maneggio di quella sezione di artiglieria; che si dovette abbandonare, salvandosi in dietro i superstiti.
Alle otto del mattino la truppa che avea assalito l'Anfiteatro ripiegava, e di già cominciava a disordinarsi, quando giunsero sul campo i fratelli del Re, il Conte di Trani e quello di Caserta; costoro si gettarono in mezzo a' combattenti, e li fecero ritornare ad un assalto vigoroso. Marulli si slanciò contro il centro ov'era la maggiore resistenza; La Masa, dopo un'ostinata difesa, ripiegò. Allora Milbitz, appiattato dietro l'Anfiteatro, uscì per opporsi a' regï, e fu pure respinto.
II10° di linea, che si era più di tutti avanzato, alla corsa occupò le prime case di S. Maria, destando gran panico ne' garibaldini. La popolazione di quella città, di già mettea pannilini bianchi a' balconi, gridando Viva il Re, e chiedendo armi per dare addosso a' rivoluzionarii quali fuggenti, quali in disordine.
Il 10° di linea non fu seguito d'altri reggimenti, e da S. Maria domandava rinforzo per ispingersi avanti.
I granatieri della guardia furono sordi all'incoraggiamento, che col proprio esempio lor davano i Principi reali, e lo intrepido Colonnello Marulli. Si perdette un tempo prezioso, ed il nemico seppe approfittarne. Fu allora che Garibaldi chiamò le sue riserve da Caserta e d'Aversa; giunsero all'infretta in S. Maria altre divisioni di garibaldini con artiglierie ed artiglieri sardi ed inglesi, ed attaccarono nuovamente i regï. Il 10° di linea, assalito da forze imponenti, fu costretto a ripiegare verso Capua, ma senza confusione, anzi facendo fuoco di ritirata, ed arrecando al nemico non poche perdite. Il resto della divisione Tabacchi retrocesse verso Capua senza opporre una grande resistenza. Quelli però che si fecero notare per vigliaccheria furono i granatieri della guardia: e facea vergogna vedere non pochi uffiziali di quei reggimenti, uscire dalle file, o per fuggire o per nascondersi! Però vi furono degli uffiziali che si distinsero, e li nominerò tra non guari. Que' reggimenti della guardia erano i meglio trattati in tutto, tanto in tempo di pace che in quello di guerra: essi per amor di casta disprezzavano, in guarnigione, gli altri corpi dell'esercito; e gli uffiziali si credeano i più distinti perché con ricco uniforme bella mostra faceano nelle parate!
De' reggimenti della guardia i soli Tiragliatori fecero il loro dovere, anzi combatterono da valorosi.
I granatieri della guardia si ritirarono solleciti in grande disordine. Lo stesso Re si buttò nella mischia de' combattenti, ed assieme allo zio Conte di Trapani che dal mattino erano sul Campo di battaglia, or di S. Angelo, ed or di S. Maria, fecero di tutto con la voce e co' loro esempio per animare i fuggiaschi, e spingerli contro il nemico; come dice il Ritucci ne' suoi comenti, i granatieri furono anche sordi alla voce del Re.
Fu allora che avvennero fatti troppo vergognosi, che per carità di patria dovrebbonsi tacere: ma lo storico deve dir tutto. Trascrivo qui un brano di un opuscolo su' fatti del 1° Ottobre del distinto generale Marchese Palmieri:
"....Ritucci continua a dire che la maggior parte della Guardia allora si rifiutava di prendere l'offensiva; il che è verissimo, tanto che a me alcuni soldati impegnarono i fucili, allorchè volea obbligarli a ritornare al posto, ed astretti dagli Ussari, che fingevano volerli caricare con un plotone, glieli scaricarono difatti. Quando io rimproverava un uffiziale superiore del 1° Granatieri che rimaneva seduto con più centinaia di soldati al ridosso di un casamento, mi rispondea: Oh! ho capito, neppure qui sto quieto; avanti figliuoli, andiamo altrove: credete sig. Generale che siamo di ferro? da ieri che siamo in moto e digiuni, e da nove ore che inutilmente stiamo combattendo contro le mura.
Sig. Generale Palmieri, voi non mi conoscete, ma io vi conosco, e vi rispetto perché siete stato sempre un ottimo gentiluomo ed un fedele soldato: spinto però dalla mia abituale franchezza debbo dirvi, che avete fatto male tacere il nome di quell'insubordinato uffiziale superiore del 1° Granatieri: era a voi porlo alla gogna: ma voi vi siete consigliato con la vostra carità, e non pensaste che ledevate la giustizia punitiva. Spiacciemi non poter io mettere alla gogna quell'uffiziale superiore, il farei senza tema,
consigliato dalla mia stessa carità per rendere giustizia al valore, e al buon volere de' vinti. Colui che a quel modo vi rispose, ed altra men gentile risposta fece ad altro superiore dicesi essere uno de' beneficati dei Borboni...! Così gran parte di costoro retribuirono la troppa clemenza del Re.
Il Re, disilluso sul valore della Guardia Reale in quella prova solenne, spinse contro il nemico altri reggimenti di fanteria. Anche il tenente colonnello Pisacane per far mostra di sè uscì avanti con due squadroni del 2° Usseri. Milbitz che comandava i garibaldini, riparò, al solito, dietro le trincee, e con l'artiglieria giuntagli allora da Caserta, fece trarre contro a' regï. Pisacane ed i suoi cavalieri colti di fronte, voltaron faccia, e lungi di usare quella calma e lentezza tanto lodata nelle ritirate, sieno esse finte, necessarie ed obbligatorie, usarono non il troppo, non il galoppo, ma la corsa. Quell'esempio in pieno campo S. Lazzaro, passando sul corpo stesso de' feriti e degli affranti, gittò lo sgomento, sorpresa ed il panico. Disse un valoroso uffiziale in quella riprovevolissima congiuntura: «Sembra che Pisacane non si accorse essere giunto sotto le mura di Capua, che volesse arrivare salvo in Gaeta!»
Il Generale in capo, rivoltosi al suo Stato Maggiore, ordinò prendersi nota di quella fuga esizialissima, e l'indomani il Re dispose al Ritucci di destituire il Pisacane, mentre lo si volea sottoporre ad un consiglio di guerra; ma lo stesso Ritucci, ledendo la giustizia punitiva, calmò facilmente lo sdegno del clemente monarca. Le sopraggiunte dispiacevoli circostanze, non meno che le protezioni sorte per quell'uffiziale superiore, valsero a salvarlo. Costui è fratello germano al Pisacane di Sapri; e fin'oggi i Borboni gli danno pensione in Francia! vedi elemosina..!!
Il Re, conoscendo che non si potea vincere di fronte, ordinò che il Maresciallo Afan de Rivera con la sua divisione vincitrice in S. Angelo, e Sergardi con la cavalleria, dessero nel fianco diritto del nemico manovra che si sarebbe dovuta eseguire sin dopo la vittoria riportata in S. Angelo L'ordine si mandò al Capo divisione Afan de Rivera, e questi non si trovò; io già l'ho detto che neppure apparve quando i suoi dipendenti erano vittoriosi.
I capi brigata dipendenti da quell'introvabile Maresciallo, Barbalonga e Polizzy, prima dichiararono che i soldati vincitori di S. Angelo erano stanchi (quanta carità!) poi costretti dagli ordini sovrano impiegarono molto tempo per riunire i loro dipendenti, spingendoli senza direzione e senza guida; e con poca voglia li conduceano sul fianco diritto del nemico: era già troppo tardi! Garibaldi avea ricevuto grandi rinforzi d'armi e di armati giunti da Napoli, e si era circondato di cannoni; avendoli fatti collocare in tutti i punti ove i regï avrebbero potuto assalirlo.
Sergardi assaltò S. Tammaro con la cavalleria, ed entrò in quel paesetto, fugando i garibaldini, e molti ne fece prigionieri: fu accolto dalla popolazione col grido Viva il Re. Egli da S. Tammaro chiede un battaglione per investire il fianco di S. Maria, non potè averlo, rimase inoperoso, e si ritirò poi per ordine del Generale in capo.
La divisione di S. Angelo, dopo lungo indugiare venne di nuovo a battaglia dalla parte destra di S. Maria, ma senza ordine perché mancava l'unità di comando; affievolito era l'entusiasmo perché i soldati non aveano più fiducia ne' loro Generali,
non vi era slancio perché erano tutti sofferenti più che per la fame, per la sete. Erano circa le cinque pomeridiane: sgominate le fila de' corpi della guardia, era tristo e nauseante spettacolo vedere soldati animosi seguire lo infaticato zelo dei singoli valorosi uffiziali, mentre gran parte ricoverati nelle sinuosità e fossati del terreno, giaceano indifferenti alle voci dell'onore, e persino ai lamenti de' feriti compagni.
L'intrepido Ritucci, dopo essere rimasto assai lungo tempo esposto col suo seguito ai colpi micidialissimi di una batteria nemica, percorse l'estrema linea de' combattimenti in avanti, ed accertatosi che più nulla gli restava a sperare, mancatagli la riserva e lo appoggio di molti Generali sul campo, inviò a prendere gli ordini del Re, nel campo stesso, il quale udite come andavano le cose, ordinò la ritirata di tutte le truppe nella vicina Capua. E notate, caso strano, il quale dimostra una volta di più quali fossero una parte de' Generali che comandavano la truppa il 1° Ottobre: mentre si battea la ritirata, i sempre distinti Tiragliatori della guardia, e pochi altri uffiziali e soldati di fanteria, entravano nella contrastata S. Maria, fugando da per ogni dove il nemico ne' suoi stessi trinceramenti.
All'udir la ritirata, né potendo fermarsi sulle vinte posizioni, in bell'ordine si ritrassero in Capua.
Da questo solo fatto si può ben arguire, che, come i garibaldini, anche i regï combattessero in quel giorno senz'ordine e senza regole militari.
Ma i duci rivoluzionarii sfidavano i pericoli e la morte, mentre i regï più cauti serbavansi più che alla gloria, a vivere!
La battaglia del 1° Ottobre militarmente parlando, se non si può dire assolutamente vinta da' regï, moralmente lo fu, perché l'esercito piemontese dovette soccorrere poi quello a metà disfatto de' garibaldini. L'aureola di Garibaldi fu annientata in Capua da que' fidi soldati, e da que' pochi uffiziali che seppero lavare nel sangue le patite vergogne di Sicilia e di Calabria. Spogliato l'esercito regio della maggior parte de' traditori, dimostrò che non a' mille di Garibaldi è dovuto il trionfo della rivoluzione ma a' compri duci napoletani.
Infine dopo un fiume di sangue versato in quella giornata del 1° Ottobre, l'esercito napoletano rientrava nelle antiche sue posizioni, lasciando quelle che avea acquistate a prezzo di crudelissimi massacri.
Pria di ragionare de' fatti di guerra, avvenuti a' Ponti della Valle ed a Caserta Vecchia, è necessario che faccia conoscere i nomi di coloro che si distinsero nella battaglia del 1° Ottobre.
Molte furono le cagioni per le quali i regï non conseguirono il premio della vittoria nella campale giornata del 1° Ottobre. Oltre il mancato aiuto di Meckel e Ruiz, come dirò tra non guari, il Generale in capo Ritucci ne enumera i casi ne' suoi comenti confutatorii; i principali sono: l'abbandono dal Maresciallo Afan de Rivera della sua divisione, avendola lasciata senza comando e senza guida. Quel Maresciallo, il 1° Ottobre, meritò lo sdegno ed i rimproveri del Generale in Capo e del Re: e dopo pochi giorni gli si diede il comando della guardia reale, che fu mandata indietro, in terza linea, segregata (come lebbrosa!) dal resto dell'esercito.
Quel duce sembrò degno di comandare quella guardia! Ma fu questo un condegno castigo..?
Le altre cagioni enumerate della perdita della battaglia del 1° ottobre sono: l'errore d'Orgemont, che comandava una brigata, sin dal principio dell'azione guerresca sotto S. Maria; sebbene fosse stato in parte riparato dal Colonnello Marulli: il nessuno aiuto dato da Grenet lasciato in riserva con tre battaglioni sul Poligono di Capua, e la viltà di tutti i corpi della guardia, detti scelti, tanto di cavalieri che di fanti, ad eccezione de' Tiragliatori, che quel giorno fecero prodigii di valore.
Il Ritucci ne' suddetti commenti dice delle parole amare contro i corpi della guardia reale, e contro gli usseri, ecco come si esprime a pag. 77.
«Comincio dal Comandante la divisione generale Tabacchi, ove fu, che fece? più non lo vidi (ricercandolo e facendolo ricercare da ogni lato) che solo la sera dopo la eseguita ritirata dentro Capua.»
Il delli Franci, sotto capo dello Stato Maggiore di Ritucci, ecco quanto scrive nella sua Cronaca della Campagna d'autunno 1860 a pag. 68:
«L'abbattimento d'animo delle truppe della divisione della guardia, fu sopra ogni dire fatale, perché fu la sola cagione della non riportata vittoria. Il Re, che fin della prima ora del combattimento stava sul campo di battaglia, seguito dal conte di Trapani, e da quello di Trani e di Caserta per dare esempio di virtù guerriera, vedeva con dolore che questa parte di soldatesca bella di aspetto, era divenuta sorda ad ogni stimolo, ed era vana opera incitarla alla pugna.»
Dopo che ho ragionato in generale della viltà de' corpi della guardia reale, giustizia vuole che io nomini gli uffiziali, che sebbene facessero parte di que' corpi, non pertanto il 1° ottobre si distinsero con la bravura ed operosità.
Comincio dal sempre distinto Colonnello conte Marulli comandante una brigata della guardia reale. Ecco quanto dice il generale in Capo Ritucci in una nota de' suo commenti a pag. 76: «Massimamente designar devo lo zelo senza pari del Colonnello conte Marulli, il quale ferito gravemente nel braccio sinistro in Sicilia, e non ancora guarito, col braccio al petto, faceasi situare a cavallo per essere di ammirevole ed incoraggiante esempio al Reggimento di suo comando 1° granatieri, ed in tale stato assunse con fervore ed abnegazione il comando di una di quelle colonne di attacco, impiegando ogni mezzo a spingerla, comunque invano, alla gloria; e tenendosi costantemente unito all'ultima frazione di essa rimasta a fronteggiare il nemico fino alla ritirata, onde non vada confuso con quei graduati di condotta opposta.»
Oh! qual consolazione per me quando mi imbatto in simili rarissimi duci come il Marulli. Costui non mi conosce, ma io cominciai ad ammirarlo sin da quando Egli cominciò a battersi da valoroso in Palermo col suo Reggimento il 9° di linea, a Porta Macqueda, e che fece tanto onore alle armi napoletane nell'entrata di Garibaldi in Palermo. Oh! se gli altri duci avessero a metà imitato il Marulli..!! di costui potrà dirsi «era il prode de' prodi.» Oh! se si fosse trovato sotto S. Angelo a capo della divisione che comandava Afan de Rivera! Ah! mi ero dimenticato questi avea il titolo di Maresciallo....
Il prode Colonnello Marulli al ritorno di Gaeta a Napoli, fu assassinato.... dico assassinato, perché i sicarii l'han creduto morto ed in pieno giorno lo lasciarono disteso a terra a vico Baglivo. Marulli vive per consolazione de' suoi amici, ed è un ricordo del valore dell'esercito delle due Sicilie.
Del 1° Reggimento Granatieri trovo segnati tra i distinti dallo stesso Generale in Capo il Tenentecolonnello Gioacchino de Litala i capitani Testa, Vincenzo Nini, Luciani, Mizzola, e Correale; il 1° Tenente Carlo Deidier e Piolen; il secondo tenente Chiarazzi, e l'Alfiere Neomburgo.
Del 2° Reggimento Granatieri, il Tenente Colonnello Nicola Cetrangolo, il Maggiore Onofrio Perez, i Capitani Giuseppe Cagnetti, Francesco Canzano, Gioacchino Gagliardi; i primi tenenti Gennaro Marzio, Giovanni Gagliardi, Achille Caracciolo e Raffaele Ruggiero; i secondi tenenti Federico Giordano, Luigi Giordano e Francesco d'Itri; e gli alfieri Campagna e del Grande.
Trovo nota speciale del Comandante in capo Ritucci pel Capitano Gaetano Cessari che salvò la bandiera del Reggimento del 3° della Guardia Cacciatori; i distinti furono il tenentecolonnello Giovan Battista Pescara, Giovanni de Cosiron, il Capitano Francesco Flores; i primi tenenti Salvatore Giardina, Gaetano Scalfaro, Nicola Laviano; i secondi tenenti Alfonso Alcalà, e Giuseppe Barrese.
A far rimarcare la specialità di valore, mi piace nominare il Capitano del 1° Reggimento Granatieri della guardia Odorisio de Sangro che trovo segnato da Ritucci. Quel capitano fu ammirevole nel suo zelo, ed operosità col riunire replicate volte i disordinati soldati, incoraggiandoli e spingendoli alla pugna.
Ne' documenti che ho sottocchi, leggo i nomi de' capitani Sarno, Prignano, Pescara e Gagliardi, e de' primi tenenti Cipriani e Vargas, distinti per coraggio ed operosità nella battaglia del 1° Ottobre, tra l'onte e le vergogne de' corpi privilegiati.
Del valoroso Battaglione de' Tiragliatori della Guardia tutti si distinsero, ma più d'ogni altro, oltre al suo Colonnello Raffaele Ferrara, e il già nominato Capitano Pasquale Palladino, i capitani Frezza, Laus, e Caracciolo; si distinsero pure i secondi tenenti Michele Ricciardi e Giuseppe Gaetani, non che l'alfiere Vito Ferrara. Grande operosità e valore mostrò il Chirurgo Raffaele Davino, che ferito anch'esso soccorrendo i feriti, fu lodevole e pietoso esempio di abnegazione.
Appena cominciai a scrivere questo mio viaggio, da persone che io appena conoscea, gentilmente mi furono consegnati alcuni documenti autentici che sono fonte ricchissima ed indubitata di notizie interessanti sulla disgraziata guerra del 1860 e 61. Si è per questa ragione che questo mio viaggio da Boccadifalco a Gaeta o memorie della rivoluzione del 1860 e 1861 han preso altre proporzioni che io non volea, e non potea darvi, avuto riguardo a' pochi documenti che dapprincipio io avea raccolti. E poichè la fonte ove io attingo i nomi onorati di coloro che si mostrarono non solo fedeli al proprio giuramento seguendo il Re al Volturno, ma generosi del loro sangue difendendo la patria bandiera a loro affidata, è di inappuntabile autenticità, non voglio defraudare i contemporanei ed i posteri di conoscere i nomi degli uffiziali distinti che faceano parte del prode e disgraziato esercito delle due Sicilie.
Moltissime lettere mi sono giunte da chè pubblico questo mio qualunque siasi lavoro, non poche anonime; il credereste? alcune mi han pure del rivoluzionario! e non avendomi potuto attaccare di falsità, si lagnano perché ho trattati con severità i vili e i traditori. Mio Dio! voi lo sapete, io avrei voluto trovar tutti prodi ed innocenti, anche per l'onore di questa misera mia Patria; non son'io che li condanno, ma sono i fatti, ed io altro non ho fatto che esporli quali li vidi, e quali li trovo segnati in documenti inoppugnabili. Gli epiteti da me prodigati son dovuti alle persone delle quali ragiono, sian essi di lode o di biasimo; ed io non avrei potuto far diversamente. Difatti alcuni mi dicono «di quel tale avete detto troppo poco; altri, l'avete trattato con severità "; ma io ho scelta sempre la via di mezzo senza ledere la verità storica; e sorvolando sopra alcuni fatti vergognosi non necessari alla storia, ho creduto così usar carità verso i colpevoli.
Intanto, chi vuole la pelle, chi le ossa questo povero prete: (vi assicuro che costui è una preda troppo meschina.) Ma cari miei, siate ragionevoli una volta: giacchè mi vollero mettere la penna nelle dita per iscrivere i fatti del 1860 e 1861, ogni stato ha i suoi doveri, ed io non potea e non posso occultare quella verità che chiara e smagliante risulta da que' fatti, noti alla maggior parte, e confermati da documenti che non ammettono discussioni. Io ho pure nelle mie mani biglietti, lettere e rapporti originali di coloro che si dolgono di me perché non li tratto bene. Alcuni mi scrivono: voi siete inesorabile, voi sconoscete la virtù del perdono. Oh bella! come se io fossi l'offeso! Almeno, soggiungono, usate carità: e siamo sempre lì! La carità è una bellissima virtù, tanto encomiata da S. Paolo, ma si dovrà fare a proprie spese, e non già a spese del rispettabile pubblico, il quale deve sapere, essere sempre riprovevole colui che tradisce i proprii doveri verso un re ed un governo costituito: e che presto o tardi i vili ed i traditori saranno messi alla gogna.
La carità è una bella virtù tanto raccomandata dal Divin Redentore, ma non si dovrà ledere giammai la giustizia distributiva e punitiva. Unuicuique summ, ecco la mia divisa.
Ora però che m'imbatto in alcuni militari prodi ed onorati, quali rari nantes in gurgito vasto, con sommo mio compiacimento voglio segnalarli a' presenti ed a posteri. Solo per amore di brevità spigolerò que' nomi degli uffiziali che meritano lodi maggiori, e che per le solenni prove del loro valore dimostrato, sono superiori a qualsiasi elogio, e alle basse detrazioni degli invidiosi, dei vili e delle spade discreditate.
Il mio carattere di Sacerdote, la intemerata coscienza con la quale ho scritto e scrivo le tante mie impressioni di quel periodo di tempo sì nefasto alla patria nostra, mi pongono al coverto dell'invidia e dall'umile preferenze verso gli elogiati. Io dico ciò che sò, e che è giustificato incontrastabilmente da' fatti e documenti. Io non voglio punto ringraziamenti da coloro che meritamente elogio: li avrei biasimati se li avessi trovati colpevoli: io sono indifferente con tutti, quindi non merito né di essere ringraziato quando elogio, né di essere censurato per le vergogne che svelo. Accetto qualunque osservazione, emenderò anche i possibili errori; dapoichè un solo su questa terra è infallibile,
cioè il Sommo Pontefice, il Vicario di Gesù Cristo e quando parla come dottore della Chiesa. Coloro che si crederanno maltrattati mel facciano sentire; non dovranno però esporre ciarle, ma documenti autentici che distruggano quelli che ho nelle miei mani. La calunnia e le ciarle han fatto il loro tempo, e dopo 15 anni sappiamo tutti come si vinse, e chi furono i vinti, quale condotta essi serbarono ne' giorni del pericolo, e quale contegno essi tennero dopo la subita catastrofe!
Comincio da' Generali.
Il Comandante in capo, Giosuè Ritucci, nella battaglia del 1° ottobre, si espose come il più bravo de' suoi soldati; ed il delli Franci encomia la sua bravura. Lo storico cavaliere de Sivo dice: «Ritucci reggeva impavido al fuoco nemico, e si mostrò prode soldato, ma pessimo Capitano «ed è questo anche il mio giudizio su quel Generale in capo. Il Re, nonptertanto, a rimunerare la fede e il valore gli conferì la Gran Croce dell'ordine militare di S. Giorgio la Riunione.
Salzano e de Corné erano nella Piazza di Capua; i Marescialli Rivera e Tabacchi avrebbero fatto meglio se avessero declinato l'onore di comandar truppe in quella giornata principalmente. Il Maresciallo Colonna, che tanto lodevolmente avea guardata la diritta riva del Volturno da Triflisco a Pontelatone, avrebbe aggiunto gloria al suo bel nome, se sotto Gaeta non avesse chiesto la dimissione, con l'altro generale Barbalonga, ricusandosi entrambi eseguire un diversivo militare, che in tutti i modi li avrebbe distinti tra la gente di onore, e seriamente devota al proprio dovere. Il brigadiere Ruggiero, di cavalleria, fu fedele, ma per età mancogli l'energia, e quantunque il genio del comandante in capo non seppe impiegare l'opera della cavalleria, pure Ruggiero trovasi segnato come una sventura militare, allorchè una parte dell'esercito di Capua toccò lo Stato Pontificio, cedendo le armi ai francesi, mentre avrebbe potuto gittarsi negli Abruzzi, e non sarebbe stato insultato codardamente assieme a' suoi dipendenti dal Savoiardo de Sonnaz. I brigadieri Giuseppe Palmieri ed Antonio Ecanitz, anche di cavalleria, stettero lodevolmente al loro posto, ma non trovo specialità a ricordare, meno di una devozione al Re degna di lode.
Il brigadiere Won Meckel per quanto valoroso e fido, altrettanto fu testardo: a Lui, e più che a lui al suo dipendente Ruiz deesi l'incompleta vittoria del 1° ottobre, come ho promesso dire tra non guari. Il brigadiere Vincenzo Polizzy fu quegli che non contribuì a far perdere la gloria delle truppe sotto S. Angelo, ma si mostrò fiacco ed indeciso. Il brigadiere Tommaso Bertolini capo dello Stato Maggiore è una splendida figura militare; di lui si hanno i migliori ricordi di valore, ingegno ed operosità. Avea emuli ed invidiosi, e non ebbe sempre la soddisfazione di essere consultato.
Pel Colonnello Matteo Negri dello Stato Maggiore, per l'affare del 1° ottobre mi servo delle parole stesse di Ritucci: «Sempre a fianco del Comandante in capo, e pronto a qualunque ordine, e sempre lesto ed impavido a rianimare e ben dirigere le artiglierie ne' combattimenti, dando prova più che mai d'incomparabile abnegazione in tutta la linea degli attacchi, e più marcatamente nel dirigere le batteria di posizioni innanzi S. Maria, ove il Comandante in capo stesso si tratteneva, con la quale fece tacere più volte le batterie nemiche, sotto il più scoverto pericolo.»
Pel Maggiore Giovanni delli Franci sotto capo dello Stato Maggiore, dice il Ritucci che: «Fu impassibile ad ogni pericolo, e negli adempimenti degli ordini ricevuti, ed eseguiti con singolare valore, gli venne ferito il cavallo.»
Identica nota fa il Ritucci del capitano di Stato maggiore Giovanni de Torrenteros, cui come al delli Franci, e più validamente veniagli ferito il cavallo su cui era montato; e fu promosso maggiore sul campo di battaglia, invertita tale promozione con la croce dell'insigne Ordine di S. Ferdinando: ricevendo poi, in Gaeta, il brevetto di quel grado. Trovo negli autentici documenti altri lodevoli appunti che sono di gloria vera al suo nome e di orgoglio agli amici, ai quali mi onoro di appartenere; onde non mi dilungo su altri particolari, perché egli prode quanto modesto potrebbe dispiacer la mia lode. Ma siccome il de Torrenteros ha cuore di vero amico, mi piace rammentare la seguente circostanza che gli riguarda. Mentre egli recavasi a' posti avanzati e comunicava taluni ordini al valoroso capitano del 10° Reggimento di linea, Antonio Cioffi, che trovavasi vicino all'Anfiteatro di S. Maria, costui cadde ferito: era un carissimo amico del de Torrenteros! Questi lo prende tra le sue braccia, lo soccorre, lo abbraccia, lo bacia; fa di tutto per metterlo in salvo, inviandolo all'ambulanza e prendendo il momentaneo comando di quella compagnia già condannata dall'amico, lo vendica da bravo, spingendosi sino a S. Maria; e fu appunto quando il 10° di linea entrò in quella città.
Il capitano Giovanni de Giorgio pure dello Stato maggiore, così è raccomandato dal Ritucci: «Sempre esatto e valoroso. Il 1° ottobre per animare i Granatieri della Guardia, ed assaltare S. Maria, prese una bandiera della Guardia stessa, e con essa si slanciava coraggiosamente innanzi, esortando tutti a seguirlo, in questo fatto riportava gloriosa ferita.»
Del ripetuto Stato maggiore il capitano Emmanuele Occhionero è segnato pure tra i più distinti; di questo uffiziale trovo una nota molto onorevole:«Giunto da Gaeta, la sera del 30 settembre, senza cavallo, il Generale in capo volea dispensarlo a prender parte alla pugna, ma egli si procurò un cavallo, e volle dividere i pericoli e le glorie del 1° ottobre con i suoi compagni d'armi, e da prode ed intelligente adempì i suoi doveri.»
Gli altri capitani Francesco Saverio del Re, Giovanni Giobbe, Luigi Bianchi, lo svizzero Docoumoins, sono registrati tra i distinti, come gli aggiunti Valcarcel, d'Andrea, Dusmet, Scerti, Speranza, Pandolfi, Loriol, e Fiore.
Dello Stato Maggiore presso le Divisioni e le brigate, molto lodati sono i nomi del capitano Pietro Sarria, del 1° tenente Velasco, ed Alfiere Forte. Pel Capitano Mariano Purman, trovo scritto: «Da Capo dello Stato Maggiore della 4a divisione mostrossi sempre pronto e facile in tutte le commissioni, guidando la colonna della 2a brigata, giunse sino al fosso di cinta, e fattolo colmare ad un punto sotto la mitraglia nemica, distrusse una barricata, e portò innanzi una batteria, mostrando esemplare coraggio e fermezza militare.»
Trovo molto encomiati i due Capitani Michel Bellucci e Luigi Dusmet; quest'ultimo ferito al braccio sotto S. Angelo; per i primi tenenti Francesco Salmieri, che si era pure ben distinto in Milazzo e Francesco Dragonetti, leggo anche nobili encomii. Come pure trovo elogiato il 1° Tenente Vincenzo Bruzzese, Aiutante di campo del Generale in capo, offeso al braccio per caduta da cavallo.
Della dotta e valorosa artiglieria trovo segnati tra i più distinti un Colonnello, Gabriele Ussani, un Pasquale Antonelli, un Carlo Corsi, un Paolo Pacca, un Ludovico Quandel, un Giuseppe Jovane, un Lorenzo de Leonardis, un Aniello Solofra, un Eduardo Sanvisente, un Michele de Rada, un de Laus, un Enrico Fevôt, un Tenente de Blasi. Tutti costoro sono stati la più splendida e gloriosa memoria della giornata del 1° Ottobre.
Duolmi che per amore di brevità, tacer debbo de' sottuffiziali e truppa delle batterie che da essi dipendevano, e per non essere di noia alla generalità de' lettori.
Tra i distinti della fanteria di linea mi piace ripetere il nome del Colonnello Girolamo De Liguori comandante il valoroso 9° Reggimento di linea, del capitano Pistorio, de' primi tenenti Pasquale Bilancia ed Odoardo Calascibetta, quest'ultimo ferito gravemente. Del 10° di linea il capitano Diego Campanile, i primi tenenti Sciarrone e La Rocca.
Del 2° Battaglione Cacciatori il tenentecolonnello Comandante Angelo Castellano, e tenente Ferdinando Punzo, che fece buona preda di armi e vettovaglie nel villaggio di S. Angelo. Del 7° Cacciatori il distintissimo tenentecolonnello Vincenzo Tedeschi, il capitano Alessandro Ignesti, e il 1° tenente Luigi Valenzuela. Dell'8 Cacciatori i due aiutanti Maggiori Salem e Fondacaro, i capitani Emmanuele Russo, Carlo Antonini e Michele del Palma. Del 9° Cacciatori, il bravo Aiutante Maggiore Raffaele del Giudice, gli Alfieri del Bono e Barracaracciolo.
Sono rimasto maravigliato nel trovar segnati solo tre uffiziali tra' distinti del 9° Battaglione cacciatori, mentre consta a me che altri uffiziali fecero prodigi di valore, e tra gli altri i capitani Carrubba, Mazzarella e Romeo; questi due ultimi si erano ben distinti anche ne' fatti d'armi di Sicilia. Però cessa la maraviglia quando si riflette che quel valoroso Battaglione fu abbandonato dal suo comandante Scappaticci, ed Iddio s chi abbia fatto lo stato de' distinti.
Del 10° cacciatori il tenentecolonnello comandante Luigi Capecelatro, gravemente ferito, il capitano Placido Carito. Dell'1 1° il Tenentecolonnello Comandante Federico de Lozza, il capitano Ferdinando Campanino, Francesco Paolo Roma, il 1° tenente Giovanni de Merich, gli alfieri Angelomaria, Giovanni Greco, e l'altro alfiere Beniamino Bilotta che fu ferito.
Del 14° cacciatori il colonnello Raffaele Vecchione comandante, il capitano Sinibaldo Orlando; i primi tenenti Giuseppe Giosuè, e l'aiutante di battaglione Giacomo Malinconico, e l'alfiere Ferdinando Moxedano.
Del 15° cacciatori il Tenentecolonnello Errico Pianelli; gli Aiutanti Maggiori Celio e de Curtis, i capitani Pellegrino, Enea ed Arpaia, il 1° tenente Antonio d'Agostino
(al seguito di S.A.R. il Conte di Trani) e l'alfiere Luigi Bellini.
Del 1° Reggimento Usseri il 1° tenente Marino Centola, al seguito di S.A.R. il conte di Trani.
Del 2° Usseri il Porta Stendardo Vincenzo Ciaburri.
Del 1° Lancieri il colonnello Raffaele Pironti, il Tenentecolonnello Francesco d'Arone, il Maggiore Michele Pollio, il Capitano Nicola Navas, il 2° tenente Luigi Girone, e gli alfieri Genovese, Cavaliere, de Gaetano, Vanetti, e Sergardi.
De' cacciatori a cavallo, il Colonnello comandante Vincenzo Sanchez de Luna, il Maggiore Nicolò d'Arone, il Capitano Colombo, e il tenente La Fratta.
De' Carabinieri a cavallo, il Colonnello comandante Michele Puzio, il Tenentecolonnello Ferdinando Termini, il Maggiore Achille Cosenza, il Capitano Francesco Romano, il 2° tenente Vincenzo d'Ambrosio, e il porta stendardo Salvatore Valerio.
Del 2° Reggimento Dragoni il Colonnello comandante Antonio Russo, il Capitano Gaetano Lanza, il tenente Raffaele Coco, e l'alfiere Nicola de Falco.
Tutti i soprannominati uffiziali, come ho già detto, li trovo segnati tra i distinti per bravura, operosità ed intelligenza dimostrata nella battaglia del 1° ottobre, in que' documenti inoppugnabili!
E prima che io chiuda questa onorata menzione di coloro che fecero onore al disgraziato esercito napoletano, mi pregio di scrivere i nomi che trovo tanto encomiati, cioè de' colonnelli di artiglieria Campanella e Ferrante, il primo Direttore dell'Opificio e l'altro della sala d'armi in Capua. Essi con l'opera loro furono un potente aiuto a quella parte di esercito che scarseggiava d'armi e munizioni, e non poche volte coraggiosamente divisero i pericoli di quella giornata. Un ricordo ancora a' due Commissarii di Guerra Layezza e Simonetti, come a' chirurgi Calabria, Netti e De Dominicis, non che al farmacista Domenico Arpaia, ed a' cappellani militari Pardi del 2° cacciatori, Vozza dell'8°, Libroia del 15° e La Rosa de' Tiragliatori.
Questi ultimi, informati dal vero spirito evangelico, su' campi di battaglia, sfidando tutti i pericoli, non solo esercitarono lodevolmente, e con carità cristiana il sublime ministero del sacerdote cattolico, ma da veri figli di S. Vincenzo de Paoli faceano da infermieri...! Era bello vedere que' ministri di carità, abbracciarsi e caricarsi sulle spalle i feriti nemici, condurli alle ambulanze o agli ospedali provvisorii: spesso stracciare le proprie vesti per fasciare le ferite di coloro che oggi odiano e perseguitano i Preti!
Che importa! Caritas.... omnia suffert.... non quaerit quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum.

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).

La verità sugli uomini e sulle cose del regno d’Italia. Rivelazioni di J. A. Antico agente secreto del conte Cavour (Versione scaricabile in formato PDF)

Filippo Curletti


'O surdato 'e Gaeta di Ferdinando Russo

Ferdinando Russo (Napoli, 25 novembre 1866Napoli, 30 gennaio 1927)





1.a
Comme stongo ccà dinto? E che ne saccio!
Nce sto pe ccarità, signore mio!
Miezo cecato... me manca nu vraccio...
Nun mporta! Tutto p’ ‘o vulere ‘e Ddio!
Comme me chiammo? Michele Migliaccio
fu Giesummino e fu Carmela Pio.
Cinco campagne. Nativo di Meta.
Dicorato alla presa di Gaeta!
2.a
Mo.... so’ pezzente dello Spizzio! Tanno,
tenevo a Meta na massariella.
Scampuliavo, ncapo e npede l' anno,
c’ ‘o ggranone, ‘o purciello e ‘a vaccarella.
Campàvamo na vita senza affanno,
ma, doppo muorte tata e ‘a vicchiarella,
me sentette talmente abbandunato
ca pigliaie e me jette a fa’ suldato...
3.a
Era l' epoca bona ‘e 1’abbundanza
sott’ ‘o Burbone Che dicite?.... No?....
E ve ngannate 1’ anema! Ogne panza,
senza ‘a vacantaria ca nce sta mo!
O piso, jeva justo, cu ‘a valanza!
Parola mia !.... Crediteme, signò,
ca si nun fosse stato 'o tradimente
io nun starria ccà dinto a fa ‘o pezzente...
4.a
Comme dicite? Mo, a sittantott’ anne,
vicino ‘a fossa addò me chiamma ‘a Morte,
io me ngannasse l' anema? Sti panne
ca porto ncuollo, so’ vriogna forte!
‘A sola e vera causa ‘e tutt’ ‘e nganne,
de tutte ‘e patimente, ‘e tutt’ ‘e tuorte,
fuie ‘o cuntegno ‘e cierti tale e quale
ca nce chiammàino frate! ‘E libberale!
5.a
‘O bbedite? Redite n’ ata vota!
E tuttuquante rideno, ccà dinto !....
Ma si ‘a furtuna arriva a cagnà rota,
sa’ quante faciarranno ‘o musso astrinto?
Dio sulo, ncielo, n’ ha pigliato nota,
de chello ch’ è succiesso! E n’ è cunvinto!
Stu vraccio c’aggio perzo, chisto ccà,
nun l’ha cercata mai, ‘a carità!
6.a
Stu vraccio fui distrutto ‘a na granata,
e l' aggio perzo p’ ‘o paese mio!
Francischiello, a Gaeta, 1’ ha guardata
nfi’ a dint’ all’ uocchie, ‘a Morte, nnanz’ a Dio!
L’ avimmo canusciuta, ‘a cannunata!
Ma doppo? ‘O ttuio è chesto? E m’ ‘o ppigl’ io!
L’ avimmo dato ‘o sango, ‘a Patria bella,
e ‘a Patria stenta a darce na panella!
7.a
Ch’ è? Nun redite cchiù?.... Storia vivente,
io m’ arricordo tutta ‘a funzione!
Maria Sufia, ‘o Rre, strille, lamiente,
‘a famma, ‘o tifo, ‘e mbomme a battaglione,
‘a forza ‘e core ‘e chilli reggimente,
‘a lampa nnanz’ 'a vocca d' 'o cannone,
case cadute, cchiesie sgarrupate,
e Francischiello nzieme cu ‘e suldate!
8.a
Ch’ era succiesso? S’ era apierto ‘o nfierno?
“Maistà, ccà nc’ è pericolo!.... ,, - “Nun mporta!,,
Isso, ‘a Riggina, ‘e Principe, uno pierno!
E ‘o pericolo sempe, arreto ‘a porta!
Nun murive stasera? Era nu terno!
Senza rancio? E che fa! Fuma e supporta!
P’ ‘o buono esempio, manco ‘o Rre, ha magnato...!
Tu si’ napulitano e si’ suldato!
9.a
Ch’ è stu fracasso, pe ttramente viglie
Cu ll’ uocchie ‘e pazzo ‘a reto ‘a saittera?
Strille, suone ‘e trummette, parapiglie
E scuppiata n’ ata pulveriera !...
Correno, leste, cinco se’ squatriglie:
“Tradimento, Maistà !...,, Propio chell’ era!
N’ ato fracasso ?.... Cade nu castiello
Ferite, muorte, ‘ncèndie.... Nu maciello!
10.a
Chest’ è Gaeta! Tuttuquante, tutte,
napulitane e svizzere, p’ ‘o Rre!
E mmiezo a nui na rètena ‘e frabbutte
ca tradevano a Patria! E attocca a me
de cacciarve da ‘e fatte sti custrutte,
pecchè Gaeta, mio signò, chest’ è!
Resistenza p’ ‘o core d’ ‘e suldate,
tradimento d’ ‘e cchiù beneficate!
II.
11.a
Era ‘o mese ‘e Dicembre d’ ‘o Sissanta...
Faceva friddo peggio ‘e na Siberia!
Io stevo arravugliato int’ ‘a na manta,
a ‘e ttre d’ ‘a notte, (mannaggia ‘a miseria!)
quanno me veco cammenà pe nnanta
n’ ombra ca s’ avvicina seria seria....
“Chi va là? ,,- “Bravo! Io veglio comm’ ‘a te!,,
Me venette nu triemmolo! Era ‘o Rre!
12.a
Era o Rre nuosto! Francischiello nuosto,
ca mai s’ ‘e alluntanato ‘a coppa ‘e mmura!
Nce aveva fatto o callo e o core tuosto,
e nun sapeva che vo’ di’ paura!
Signò, sentite ‘o servitore vuosto!
Nun ce vuleva, chella jettatura!
O chiammàvano scemo e Lasagnone,
ma annascunneva ‘o core ‘e nu lione!
13.a
E ‘a Riggina! Signò !... Quant’ era bella!
E che core teneva! E che maniere!
Mo na bona parola ‘a sentinella,
mo na strignuta ‘e mana a l’ artigliere....
Steva sempe cu nui!... Muntava nsella
currenno e ncuraggianno, juorne e sere,
mo ccà, mo llà.... V’ ‘o ggiuro nnanz’ ‘e sante!
Nn’ èramo nnammurate tuttuquante!
14.a
Cu chillo cappellino ‘a cacciatora,
vui qua’ Riggina! Chella era na Fata!
E t’ era buonaùrio e t’ era sora,
quanno cchiù scassiava ‘a cannunata !....
Era capace ‘e se fermà pe n’ ora,
e dispenzava buglie ‘e ciucculata
Ire ferito? E t’ asciuttava ‘a faccia....
Cadive muorto? Te teneva mbraccia....
15.a
‘E ppalle le fiscavano pe nnanza,
ma che ssa’... le parevano cunfiette!
Teneva nu curaggio e na baldanza,
ca uno le zumpava ‘o core ‘a piette!
Te purtava ‘e ferite all’ ambulanza,
steva sempe presente a capo ‘e liette...
E tutte, chi ‘a chiammava e chi mureva,
‘a stevano ‘a guardà cu ll’ uocchie ‘e freva....
16.a
Murì p’ Essa! Era ‘o suonno ‘e tuttuquante!
Desiderà nu vaso nfronte ‘a chella,
segnifecava: “ Mettimmoce nnante
pe fa na morte ca se chiamma bella!,,
Npietto, p’ avè n’aucchiata a sta Rignante,
te facive arapì na furnacella !....
Propio accussì, signore mio !.... Vedite?....
V’ ‘o sto cuntanno e chiagno... e vui redite
17.a
No !... Nun me piglio collera !... Se sape !...
Vuie site troppo giovane....! Nun mporta !...
Ma, ‘a tanno a mo !... se so’ mbrugliate ‘e ccape !...
V’ hanno mparato a ghì p’ ‘a strata storta !...
‘E piamuntise? Chille erano ‘crape !...
Ma 1’ avetteno nzuonno, ‘a bona sciorta!
E a Calibbardo ca metteva ‘e gghionte
ched’ è? nun ‘o sparàino, a Naspramonte?!
18.a
Gnorsì, songo nu povero pezzente!
So’ nu povero viecchio rimbambito....
Me diceno ca nun capisco niente!
Me chiammano burbonico e patito....!
Ma chille v’ hanno fatto ‘o tradimente
quanno v' hanno ammentato ‘o Prebbiscito !....
Chella è stata na ténta carmusina,
sta Libbertà vestuta ‘a culumbrina!
19.a
Perciò, turnammo a nui, ch’ è meglio assaie!
Avite che sentì! So’ rose e sciure!
Ma ‘a vera storia nun s’ è scritta maie,
e so’ pigliat’ asse pe figure!
Vulesse scriver’ io, tutte sti guaie!
V’ ‘e subbissasse, a sti repassature!
Che d’ è?... p’ ‘a risa ve vene ‘o selluzzo ?...
Ma ‘a Verità cadette nfunn’ ‘o puzzo!
20.a
Sulo loro, hanno fatto ‘e gguapparie!
Sultanto ‘e libberale !... E basta ccà!
So’ ghiute nnanze, v’ hanno aperte ‘e vvie !...
Gente ‘e curaggio e generusità !...
Ma ‘o Rre, ‘a Riggina, ‘ncopp’ ‘e battarie,
nisciuno mai l' ha viste arresecà?
Nisciuno ha ntiso, appriesso a Francischiello,
chella Marcia Riale ‘e Paisiello? !...
III.
21.a
Già stevamo ‘a nu mese resistenno,
e ‘o primmo traditore jette bello!
Io, pe 1’ arraggia, ancora sto chiagnenno!
Passai, arme ‘e bagaglie, ‘o culunnello!
Cialdino, lusinganno e prumettenno,
s'aveva cumbinato a Pianello!
E chist’ amico, stu galantumone,
se cunzignai cu tutt’ ‘o battaglione!
22.a
Embè, dico accussì, chesto sta bene?
Quann’ uno dà parola ‘e fedeltà,
si tene tanto ‘e sango, dint’ ‘e vvene,
p’ ‘o Rre, p’ ‘a Patria, s’ ha da fa scannà!
Ma no! Se ne luvaie ‘a dint’ ‘e ppene!
Avette ‘e llire pe putè scialà,
e vutai fuoglio! Da che munno è munno,
chi nasce quatro nun po’ muri tunno!
23.a
Crediteme, signò, ca chest’ è ‘a storia!
Pe quant’ è certo ‘o juorno d’ ogge! È chesta!
‘A tengo ribbazzata int’ ‘a memoria,
dint’ ‘o penziero fisso ca me resta!
Chello ca primma era cafe, è cecoria!
e se n’ è fatta na mala menesta!
V’ hanno ngannato! E 'o ditto dice buone:
Vieste Ceccone ca pare barone!
24.a
V’ hanno vestuta ‘a Verità sincera
comm’ a na mascarella ferrarese!
Ma chella, ‘a Storia overamente overa,
‘a sanno tutt’ ‘e pprete d’ ‘o paese!
Ve 1’ hanno scritta de n’ ata manèra,
e Francischiello n’ ha pavato ‘e spese!
Nfamità, nfamità, signore mio !
Nfamità grosse, sott’ all’ uocchie ‘e Dio!
25.a
Tre mise e miezo ‘e patimente cane,
e a tridece ‘e frevaro Sissantune
capitulammo nfra ‘e sbattute ‘e mane
d’ ‘e libberale fauze e scavuzune!
Belli fratielle! Belli crestiane!
Belli ppagnotte! Belli carugnune!
Vi’ che vittoria! E che cuscienzia! E c’ arte!
Quanta Napuliune Bonaparte!
26.a
Tutte, cu ‘e piette nnanza, àute e ntufate,
salvaino ‘a Patria, e ‘a Libbertà venette.
‘E cammurriste fuino accarezzate,
‘e mariuncielle avetteno ‘e cunfiette....
E nui, maletrattate e suspettate,
cu ‘annore nfaccia e cu ‘e fferite mpiette,
nui suppurtaimo, nfra delure e schiante,
‘e malefiggie nire ‘e tuttuquante!
27.a
Francischiello cadette! Abbandunaie
‘o Regno e se mettette a viaggià!
Chi fui beneficato ‘o ngiuriaie,
ma ll’ uocchie le lucevano ‘e buntà!
Era nu patre! Nun s’ è visto maie
n’ esempio meglio, ‘e core e carità!
Perciò murette all’ estero! E cu isso
è muorto n’ ato Cristo crucefisso !
28.a
N’ ato Cristo, gnorsì! Cu ‘a spogna ‘e fele,
‘e vase fàuze, ‘e spine, e tutt’ ‘o riesto!
Se credeva ca Tizio era fedele?
E chillo ‘o mpapucchiava lestu lesto....
Vulevano a Vittoriamanuele
e perciò ‘e nfame s’ ‘o spicciaino priesto....
Quanno nisciuno amico ‘o succurreva,
Isso, sulo, a Gaeta, resisteva!
29.a
E resiste ogge, resiste dimane,
e resiste e resiste, finalmente,
comme vuò fa? Viscere ‘e crestiane
nun sanno tullerà sventure e stiente!
Primma ‘e nce fa trattà peggio d’ ‘e cane,
primma ‘e nce fa muri mmiezo ‘e turmiente,
isso dicette: “ - No! Basta! Fernimmo!
Sarraggio Rre, ma ve so patre, apprimmo! ,,
30.a
Diciteme vuie mo: quanta rignante
penzano cu stu core e cu st’ ammore?
Annummenatemmille tuttuquante,
e po’ vedimmo chi ha tenuto core!
Ma che! Rignante vene a di’ birbante,
quanno, vedenno ca ‘o paese more,
1’ ajuta a ben murì na vota e bona,
sultanto pe nun perdere ‘a curona!.....
31.a
L’ ha fatto, chesto, Francischiello ?... Maie!
Dicette: “Preferisco ‘e ve salvà! ,,
‘E ggenerale attuorno se chiammaie
e lle spiegai che lle restava a fa!
- “Voglio luvà ‘e suldate ‘a miez’ ‘e guaie
‘E ttrattative voglio accummincià !....
Jate a cercà na tregua, ncopp’ ‘a botta!
Stàteme a sentì a me, luvammo ‘a sotta ! ,,
32.a
E comme?! Accumminciammo ‘e ttrattative,
e tu, Cialdine, nun suspienne ‘o ffuoco?
Nce vulive adderitto atterrà vive,
ca te spassave a seguità stu juoco?!
‘E ggranate, (pe sfreggio, pe currive,
pe nfamità? che ssaccio!?) mai nu poco
cessaino ‘e smantellà sta chiazzaforte,
dinto Gaeta semmenanno a morte!
33.a
Ma che v'ha fatto, Dio, ca le lanzate,
tutte sti mbomme ncopp’ ‘a casa soia?!
‘E spitale, stracarreche ‘e malate,
so’ state causa ‘e pruvucà sta foia!?
‘Nce avite assassenate e massacrate
a coppa e ‘a sotta, cu nu core ‘e boja,
e nun v’ abbasta?! Jate ascianno ‘o rieste,
quann’ uno ha ditto cunzummatummeste?!
34.a
Tenite ancora sete ‘e stragge? Ancora?!
E nun ve ne mettite ancora scuorno?!
Sempe granate e mbomme ‘a dinto e ‘a fora
da mezanotte a quanno schiara juorno?
Animale feruce d’ ‘a Mmalora!
E nce cannuniàino tuorno tuorno,
cu tutt’ arraggia d’ ‘a vigliaccaria,
pe fà sapè a Cavurro ‘a guapparia!
IV.
35.a
Che cchiù ve pozzo dicere ?... Che ssaccio?
L’ urdemo juorno ‘o tengo scritto ‘ncore,
pecchè fui tanno ca perdette ‘o vraccio!
Ma ciento vracce guadagnai d’ annore !
Po'... nce passaino tutte pe setaccio!
Venette ‘a Libbertà, caro signore !
Ne cacciai ritto nfatto ‘o tempurale,
e... ascette ‘o Sole custituzzionale!
36.a
E sceruppatevillo cu ‘a salute!
O v’ ‘o vulite fa’ ndurato e fritto?
Rispunnisteve sì! Ch’ avite avute?
V’ ‘o vvulite annià ?... M’ aggia sta zitto?
‘E ttasse chi 1’ aveva canusciute?
Facitelo pe Cristo beneditto!
Nun me facite jastemmà cchiù forte
tutt’ ‘o sango d’ ‘a razza e chi v’ mmuorte !
37.a
Scusateme.... scusateme.... ‘O bbedite ?....
Chest’ è quanno te saglie ‘o sango ncapa!
So’ nu gnurante.... vuie perciò redite....
Ma là nce avette colpa pure ‘o Papa!
Site, vicario ‘e Cristo, o nun ce site?
E chillo generale Mezacapa?!
Manco ne sape niente! E d’ Agustino?
E ‘o Rre, a sti sierpe, s’ ‘e scarfava nzino!
38.a
Nu Nazzareno e ciento Scariote!
Nu core d’ ommo e ciente core ‘e cane !
E 1’ avvisaino cientumilia vote
pure ‘o Conte ‘e Caserta e ‘o Conte ‘e Trane!
Niente! Nun ne vuleva piglià note!
Ma finalmente, po’, ‘a tuccai cu ‘e mmane,
‘a Verità, redotta na petaccia,
quanno a Gaeta 1’ avutaino ‘a faccia!
39.a
Ll’ articolo quattuordece, diceva,
dint’ ‘a Cummenzione, ca ‘e suldate,
(ognuno ‘e nui!) ‘a casa se ne jeva
Cu tanto ‘o juorno, struppie o mutilate.....
Chi prumetteva se cumprumetteva!
Ma tuttuquante fuimo abbandunate!
Nisciuno avette nu cuppino ‘e pasta!!
Prumetteva Cialdino! E tanto basta!
40.a
Chisto Cialdino teneva nu core
ca nun ghieva, signò, manco tre calle!
Sapeva sulo fa ‘o bummardatore
ncoppa Gaeta, cu granate e palle!
E se vedette, (m’ ‘o rricordo ancora!)
stu core suio, cu ‘o fatto d’ e cavalle!
Fatto succiesso, ma succiesso overo!
Fatto, ca, si se conta, nun se crere!
41.a
Dinto Gaeta se suffreva ‘a famma,
e fernette ‘o furaggio all’ animale!
‘O figlio sparpetava mpietto ‘a mamma;
mancava l’uoglio, ‘o vino, ‘o ppane, ‘o ssale....
Accumminciava a murmurà, ‘a mazzamma,
buttizzata da quacche libberale,
e poche juorne doppo ‘o Primmo 'e 1’ anno
‘o popolo se steva arrevutanno!
42.a
‘E cavalle diune e affamate,
jevano comm’ a pazze, ‘a sotto e ‘a coppa!
Apprimma già s’ avevano magnate
‘e saccune cu ‘e sbreglie, ‘e sseggie ‘e stoppa..
Po’ truvaimo carrette rusecate,
albere, porte, mure.... E a chioppa a chioppa
se sbranavano peggio d’ ‘e liune,
quanno nun muzzecavano ‘e guagliune.
43.a
Passavano, ‘e cavalle, comm’ ‘o viente!
Nun te devano ‘o tiempo ‘e chiammà ajuto !
Passanno, t’ azzannàvano !... E che diente!
Ogne muorzo facea nu fuosso futo!
Mmaggenàteve vui, mo’, sti spaviente,
ogne mumento, ogn’ ora, ogne minuto!
Tenive appena ‘o tiempo ‘e te fa ‘a rassa.....
“Sarva! Sarva !.... ‘E cavalle!,, E ‘a chiorma passa...
44.a
Embè.... quanno dicettemo a Cialdine
Pigliateville, datele a magnà,
v’ ‘e rrialammo, so’ animale fine,
ponno servì cchiù a vui ca dinto ccà;
sa’ comme rispunnette stu Cialdine?
Rispunnette: Nun aggio che ne fa !.....
Stanno buone addò stanno! So’ affamate?
Sbranateve nfra vui, l' une cu ll’ ate !...
45.a
Sia beneditto Giesù Cristo ‘ncroce!
Nce ha casticate a nui, chi sa pecchè!
Erano prete, e scamazzàino ‘a noce,
pe fa 1’ Italia e scamettà nu Rre!
E se sapeva! ‘O franfellicco è doce,
e tu che vuò? ca t’ ‘a cunzegno a tte?!
Venette ‘o tiempo, avetteno ‘a furtuna,
e ‘o franfellicco fui 1’ Italia Una!
V.
46.a
Mo, d’ ‘e cumpagne miei, caro signore,
cierte so’ muorte ‘e famma, ma ciert’ ate,
uno è cucchiere, n’ auto scupatore,
n’ ato vènne puntette ‘e scurriate!
Io po’, ccà dinto, so’ nu mperatore,
caro signore mio! Nce pazziate?
Loro stesse m’ ‘o ddiceno !... “ Te lagne?
Ringrazzia a Dio, ca duorme, vive e magne !... ,,
47.a
Embè.... Gnorsi! Magnammo e po’ vevimmo
nfi’ a che nce sta lucigno a la lucerna!
Lassa fa a Dio, ca doppo nc’ ‘e vvedimmo,
sti ffacce noste! Dint’ ‘a vita eterna!
Sa’ quanta belli smorfie nce facimmo?
Tanno, signò, voglio piglià ‘a quaterna!
Quanto le dico justo doi parole!
Quanto ‘e cchiammo fetiente e mariuole!
48.a
Mo’ passo ‘e juorne a ricurdarme ‘e fatte
de chilli quatto mise maleditte,
e veco ‘e mbomme ncopp’ ‘e ccasematte,
e sento ‘e chiante ‘e tanta ggente afflitte !....
Sa’ quant’ ‘e lloro se so’ fatte chiatte?
Che ne parlammo a fa? Stàmmoce zitte!
Ma, sempe ca m’ avota ‘o cereviello,
io me vaso ‘a meraglia ‘e Francischiello
49.a
‘A tengo comm’ ‘a na relliquia santa,
pecchè me 1’ aggio mmeretata overe!
‘A porto ncopp’ ‘o core da ‘o Sissanta!
So’ cinquantasej’ anne! E pare ajere!
P’ essa darria sta vita tuttaquanta!
Sott’ ‘o cuscino ‘a stipo tutt’ ‘e ssere,
e quanno murarraggio, dint’ ‘a fossa
l’ hanno ‘a fa sta! Vicino a sti qquatt’ ossa!
50.a
Mo sta ccà, sott’ ‘a giubba.... Che dicite?
Pecchè me 1’ annasconno ?... Embè.... signò!...
Nun me songo spiegato ? Nun capite ?...
Site giovene e strutto, mo nce vo’.....!
Io me l’ aggio abbuscata p’ ‘e fferite,
p’ ‘o vraccio muzzo !.... È na relliquia o no?
E ‘a putesse purtà, sta gloria mia,
ncopp’ ‘a livrera d’ ‘a Pezzentaria?