venerdì 30 settembre 2011

Giustizia Borbonica e giustizia Sabauda:Il vero Re buono Ferdinando II° di Borbone-Due Sicilie

La fedeltà di un popolo verso la vera patria e il Re legittimo.

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due-Sicilie(1860-1861):Il timore di garibaldi e l'armistizio farsa:Parte6.

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.



 Quartiere Quattro Venti, un telone e' steso dai sovversivi attraverso la strada per impedire le comunicazioni visuali delle truppe Duo Siciliane,esso è stato "issato" come molte barricate durante i giorni dell'armistizio,quando tali operazioni non sono consentite.



La Masa che si trovava nel combattimento di Porta di Termini, vedendo i soldati, quantunque decimati, avanzarsi imperturbabili, corse al Palazzo Pretorio, e disse a Garibaldi, che tutto era perduto, le squadre ed i volontari del continente tutti in fuga, i soldati avanzarsi senza più trovare ostacoli, tra breve invadere tutta la Città, e quindi il loro pericolo di essere fatti prigionieri, imminente. Il Dittatore che stava dubbioso sulla sorte de' suoi, perché avea inteso il fuoco della moschetteria sempre avvicinarsi a lui, udendo le notizie che gli recava la Masa, ex abundantia cordis,
esclamò: «Tradimento! mi hanno tradito! «Stava per uscire dal Palazzo Pretorio per mettersi in salvo, forse sopra qualche legno sardo o inglese che si trovavano nel porto; e veramente a quelle persone che gli si paravano innanzi anelante domandava: «Qual'è la strada più vicina che conduce al Porto? "
Però, prima di fuggire, consigliato dagli amici che lo circondavano, volle tentare di nuovo la fortuna con ottenere qualche cosa dal generale Lanza, cui mandò subito una persona fidata. Questo tristissimo Generale che era inaccessibile ed invisibile a tutti, ricevè immediatamente il messo di Garibaldi. Fu allora che il Lanza spiccò l'ordine a Meckel di cessare dalle ostilità, e non avanzarsi di più nella città: e non contento di avere mandato quest'ordine col capitano Nicoletti, temendo che questi potesse avere del male in quella baruffa, ne spiccò un altro simile e lo mandò anche a Meckel col capitano Bellucci. Quanta premura e prevvidenza quando si trattava di agevolare il nemico!
Garibaldi rassicurato dagli ordini dati da Lanza al Meckel, si atteggiò nuovamente a Dittatore della Sicilia, ad eroe da commedia.
La penna mi cade dalle mani scrivendo questi fatti che non hanno esempi nella storia delle umane malvagità. Quella sospensione d'armi non solo fu il crollo della monarchia de' Borboni, e della autonomia secolare del Regno delle Due Sicilie, ma inoltre fu inesauribile fonte di lagrime e di sangue. Oh! la caduta de' Troni legittimi schiaccia sotto i suoi rottami e popoli e Regni!
Garibaldi mandò un altro messo al Lanza per affrettare la discussione de' patti e la firma dell'armistizio. Il Lanza che in tutto e per tutto volea contentare il duce rivoluzionario, mandò i generali Letizia de Chretien a sottoscrivere in suo nome.
I due generali si recarono al Lazzaretto, ove trovarono Garibaldi in mezzo al suo Stato maggiore, e tutti montarono su l'Annibale
legno inglese, ed ivi alla presenza di Mundy abborracciarono senza discussione una tregua di 24 ore.
Letizia portava alta la testa, si vantava delle sue passate prodezze, pretensione che fece ridere tutti.
Firmata la tregua i due Generali tornarono da Lanza orgogliosi e baldi come se avessero vinta una grande battaglia. Regno disgraziato servito da simili Generali!
Garibaldi stremato di forze, battuto dentro Palermo, circondato da un esercito di circa ventiquattromila uomini, in procinto di fuggire all'entrata della sola brigata Meckel che si batteva per davvero, e che si era raccomandato a Lanza per esser salvo, ed ottenere la tregua, dopo i fatti di Fieravecchia, annunziava all'attonita Sicilia di aver conceduta quella tregua per mera umanità.
Palermitani però non credeano che veramente il Lanza avesse concesso un armistizio. Essi, dopo tutto quello che aveano veduto, non poteano credere che il duce della rivoluzione avesse ancora qualche autorità in Palermo. Aveano veduto i soldati avanzarsi senza ostacolo nella città, i garibaldini fuggire per ogni dove, le squadre sparite per incanto: la notizia di quell'armistizio chi la giudicava una favola garibaldesca, chi un'astuzia del Lanza.
Tenente Savino, e il Capitano Nicoletti, i quali traversarono la città immediatamente dopo aver firmato l'armistizio, mi raccontarono più volte, che ricevettero da' Palermitani moltissimi segni di profonda riverenza e proteste di sottomissione.
Io sono testimone, che moltissimi Palermitani d'ogni condizione, dopo firmato l'armistizio, venivano nel campo della Fieravecchia a raccomandarsi a me, facendo a tutti proteste di devozione alla causa dell'ordine e del Re.
Si era stabilito che il giorno seguente si dovesse assalire la città con tre colonne: una comandata da Wittembach dalla parte del Papireto, la seconda comandata da Sury dalla parte di Ballarò, la terza dal celebre Landi di Calatafimi per la via del Cassero. L'essere stato quest'ultimo scelto all'operazione più difficile, dimostrava chiaro che non si voleva vincere.
Il Tenente-Colonnello Buonopane intimo del Lanza, fece di tutto affinchè non avvenisse quell'assalto che si era designato: fece osservare che la città non si sarebbe potuta assalire, conciosiachè fosse stata barricata da' garibaldini: quindi proponeva un prolungamento d'armistizio d'altri tre giorni: Lanza approvava un consiglio cotanto sapiente.
Vedete, lettori miei, quanta insipienza e stupidaggine! Se in una notte la città fu barricata in un modo che la truppa ne avrebbe patito gran danno assaltandola, con altri tre giorni di tregua Palermo non sarebbe divenuto inespugnabile? Intanto così ragionavano que' duci gallonati, privi di quel buon comune che fa difetto né pure agli idioti: se poi non si volesse ritenere di buona fede, meriterebbero quegli epiteti che voi sapete.
È legge di guerra che nella tregua nessuna delle parti belligeranti possa fare opera di fortificazioni qualunque siano: tuttavia i garibaldini ne faceano quanto più poteano, ed i soldati spettatori di quelle opere che servivano a loro danno non poteano impedirle per divieto de' loro duci. I garibaldini fecero di più: contrariamente a' patti della tregua impedirono alla truppa di fornirsi di vettovaglie, impossessandosi de' carri pieni di viveri destinati a' soldati. Lanza e gli altri generali della sua qualità non trovavano nulla da osservare a queste infrazioni dell'armistizio.
Il generalissimo Lanza facendo tesoro delle ragioni sciorinate dal Buonopane contro i progetti di assalire la città, mandò il solito Letizia al palazzo Pretorio, acciocchè chiedesse a Garibaldi un prolungamento d'armistizio.
Ecco i patti del novello armistizio firmato da Crispi come segretario di Stato del Dittatore: art. 1° Consegna del Banco di Palermo con tutti i danari (bravo Crispi); art. 2° Prolungamento della tregua per tre giorni; art. 3° libero passaggio de' viveri dall'una e l'altra parte; art. 4° Imbarcarsi i feriti regi con le famiglie; art. 5° Scambio di prigionieri d'ogni garibaldino con due regi.
Avete mai letto nelle storie delle guerre che, nella conchiusione di una tregua solo profittevole al vinto, si consegnassero a questo i danari dello Stato? Io non l'ho mai inteso dire né letto, e suppongo che una simile cosa non sia mai stata al mondo. I duci napoletani, ignoranti, inetti, e, com'è in voce presso tutti, traditori, non contenti di accordare al nemico tutti i vantaggi possibili per distruggere quell'armata ch'essi medesimi comandavano, consegnarono allo stesso nemico il danaro dello Stato e de' privati, per metterlo nella posizione più comoda e sicura di far la guerra ad oltranza, come possessore di quell'attraente metallo che tutto può e vince.
Il Crispi, creato allora ministro delle Finanze, trovò nel Banco (attento Crispi), cinque milioni di ducati, moneta sonante già s'intende, perché il Regno delle Due Sicilie non era Regno di carta che spesse volte diventa stomachevolmente sudice.
Si vuole che il vero scopo dell'armistizio fosse stato la cessione di quel Banco a Garibaldi, dapoichè vi era da far contenti e quelli che davano, e quelli che riceveano. Fu detto e stampato che Lanza, di que' cinque milioni rosicchiò per parte sua ducati sessantamila. Io me ne lavo le mani, vi racconto, lettori miei, quello che solamente si disse e si stampò in que' tempi: e trattandosi di danari, è un affar serio; quid non mortalia pectoria cogit auri sacra fames?
Ai soldati si era imposto con inganno, l'ordine di non avanzarsi nella città, dico con inganno, non solo perché si disse che la rivoluzione era abbattuta e sottomessa, ma perché l'armistizio vantato e protestato dal Lanza al Meckel, non era stato ancora né firmato né discusso, ma in parola, e Meckel potea misconoscerlo: e quando essi intesero il secondo armistizio,e i vergognosi patti, inviperirono di un modo che mettea paura. Già cominciavano a disubbidire, gridavano al tradimento, e a qualunque costo voleano slanciarsi contro i rivoluzionari.
La notte di quel giorno che si firmò il secondo armistizio, parecchi capi di reggimenti e di battaglioni erano dello stesso avviso de' soldati. Ma ecco il genio malefico del Tenente Colonnello Buonopane, mandato da Lanza, a perorare la causa della tregua, or con preghiere, or con minacce, mettendo sempre in mezzo i voleri del Re. La truppa educata ad una severa disciplina, se per un momento la dimenticava, tosto se ne correggeva, specialmente udendo il nome del Re, cui idolatrava, si sottomettea a tutto, ma non senza fremere di rabbia.
Dopo la firma del secondo armistizio, i soliti intimi del Lanza, Buonopane e Letizia partirono per Napoli. Questi due tristi militari fecero al Re una descrizione della truppa la più sconfortante, ed un'altra brillantissima dello stato de' garibaldini in Palermo. Que' due volponi consigliarono a quel giovine e buon sovrano - il quale né pure sospettava la nequizia di que' due tanto beneficati - di approvare assolutamente l'armistizio, ordinare la ritirata della truppa a' Quattroventi, e prolungare per un termine indefinito l'armistizio. Il Re per allora approvò il solo armistizio.
Il 2 giugno questi stessi ritornarono trionfanti a Palermo: prima di recarsi dal Lanza si abboccarono con Garibaldi: pretendeano di avere pieni poteri dal Re: quindi opponevano qualche contrasto al Generale in capo Lanza: e tutto questo perché trasportati dal grande desiderio di cedere la città a Garibaldi in nome proprio.
Essi ripartirono subito per Napoli, e consigliarono al sovrano di cedere Palermo a Garibaldi, facendogli osservare che la città era divenuta inespugnabile, che i soldati erano demoralizzati, non ubbidivano, e non voleano battersi menzogne ed infamie!
Il giovin Re, pio e aborrente dal sangue, diede loro ordine di condurre la truppa a' Quattroventi, e di là imbarcarsi e lasciare Palermo in balia di Garibaldi e dei suoi. Letizia e Buonopane il 5 giugno ritornarono a Palermo sul vaporetto la Saetta,
e spacciarono come un gran trionfo gli ordini carpiti al tradito sovrano.
È indescrivibile il furore de' soldati e degli uffiziali all'annunzio che si dovesse abbandonare Palermo. Io mi aspettava da un momento all'altro una rivoluzione soldatesca.
Nel tempo che si rimaneva inoperosi alla Fieravecchia, le diserzioni de' soldati ed uffiziali erano già cominciate largamente: però all'annunzio di dar Palermo a Garibaldi e della nostra partenza da quella città, le diserzioni aumentarono in un modo allarmante. Alcuni uffiziali diceano di essere tentati a quel vergognoso passo per non sopportare la maggiore vergogna di ubbidire e servire sotto Generali inetti, vili, e traditori. Questi furono i pochissimi, i quali nella guerra aveano fatto il loro dovere, la maggior parte disertarono, adescati dal danaro (era quello del Banco), che spargeano i messi Garibaldi, pel desiderio di ottenere gradi maggiori nell'armata rivoluzionaria, e riposo, perché erano vili. Questi uffiziali disertori, salvo pochi, erano stati lo scandalo della truppa: in pace burbanzosi e fieri, in guerra si nascondeano in faccia al nemico.
Chinnici Capitano della compagnia d'armi di Palermo disertò al nemico, ma questi invece di premiarlo lo mandò alla Vicaria, d'onde dopo poco tempo fuggì e riparò a Malta: e si potrebbe dire di quel Capitano, «a Dio spiacente ed a' nemici sui».
Il 6 giugno, il generale Letizia e il Tenente Colonnello Buonopane ottennero il favore tanto desiderato di trattare con Garibaldi lo sgombro della truppa dalla Città, presenti gli ammiragli francese ed inglese. Ecco quanto si stabilì. Lo esercito dovea ritirarsi per mare con armi, bagagli e tutti gli animali di tiro che si trovassero nell'armata.
Liberi gli uffiziali di imbarcarsi con le loro famiglia e roba. Scambio di prigionieri.
Liberazione de' prigionieri politici.
Si disse che Lanza, Letizia e Buonopane per far cosa grata a Garibaldi gli avessero promesso che avrebbero fatto consegnare i fucili a' soldati, e gli avrebbero lasciato l'artiglieria: però questa promessa non l'adempirono perché il contegno degli uffiziali fedeli e de' soldati era poco rassicurante.
Si gridò tanto e si grida ancora contro l'armata napoletana per avere bombardato Palermo, saccheggiati ed uccisi molti cittadini, abbruciati palazzi e case con dentrovi intiere famiglie.
Lord Palmerston si fece scrivere tutto questo dal suo Ammiraglio Mundy, e i giornali inglesi lo strombazzavano a' quattro venti della terra, ed erano poi ricopiati dal giornalismo europeo ed americano come oracoli di fede. Io, qual testimone oculare, dirò coscienziosamente quello che vi è di vero e di calunnioso.
Circa il bombardamento di Palermo ho già detto che non fu ordinato dal Re, ma provocato e voluto da' suoi perfidi Generali per discreditare la causa del proprio sovrano. Di fatti fu un bombardamento senza scopo militare, non essendo stato seguito dall'assalto della truppa alla città, come si dovea secondo le leggi di guerra. Fu detto pure quali case e palazzi fossero arsi dai soldati, e di chi fosse la colpa, cioè de' rivoluzionarii, i quali in cambio di battersi a campo aperto, si fortificavano nelle abitazioni altrui ed ivi non veduti faceano fuoco sulla truppa. È assolutamente calunnioso il dire che vi furono intiere famiglie bruciate vive. L'incendio de' palazzi accadde a porta di Termini: ora que' palazzi erano stati già abbandonati da' loro abitatori quando li occuparono i garibaldini, quindi nessuna famiglia fu vittima dell'incendio. Concesso pure che qualche famiglia fosse stata bruciata nella propria abitazione, dovea darsene la colpa a' soldati? no certamente, bensì a' rivoluzionarii: conciosiachè i soldati non aveano il potere di ordinare al fuoco che abbruciasse i soli nemici e perdonasse alle famiglie innocenti, le quali si contennero malissimo rimanendo in quelle abitazioni trasformate in fortezze, ove non potea essere sicurezza né quiete. Dopo l'assalto di porta di Termini, io girai pe' palazzi
incendiati con lo scopo di recare soccorso a qualche disgraziato moribondo, ove mi toccò vedere de' cadaveri a' quali ancora rimanea qualche lembo di camicia rossa, ma non vidi alcun vestigio né di ragazzi né di donne consumate dal fuoco. Del pari è calunnioso che i soldati saccheggiarono que' palazzi: i proprietarii,
prima di abbandonarli, si crede fermamente avessero portato seco le cose migliori che aveano: in seguito vennero le squadre e i garibaldini, che non erano tutti fior di onestà, e lo provano i decreti di Garibaldi il quale condannava in que' giorni i ladri alla morte. I mobili di que' palazzi servirono alle barricate, il resto fu consumato dal fuoco: ai soldati rimanea di saccheggiare le sole mura. Voi lo vedete, io qui non difendo i soldati napoletani con passione, vi dico fatti: in Parco ove la brigata Colonna saccheggiò i magazzini di vino fu trattata come meritava: ma ne' palazzi della Fieravecchia e porta di Termini, se i soldati avessero voluto saccheggiare loro sarebbe mancata la materia. Mi si dirà che i soldati saccheggiarono alcuni palazzi ove non entrarono i rivoluzionarii, ed io rispondo che que' palazzi furono saccheggiati da' ladri palermitani. In fatti la notte veniva molta gente nella strada di porta di Termini e della Fieravecchia, e si annunziava a' soldati padrone di tale o tal altro palazzo; saliva, facea fagotto, e via.
Meckel, di ciò avvisato, diede ordine a' soldati, che faceano la sentinella nella strada, di non fare entrare in alcun palazzo tutti coloro che si spacciassero padroni. Purnondimeno i ladri palermitani trovarono un altro mezzo per rubare, cioè nella notte faceano un buco alla parte opposta di quelle abitazioni, e vi si introduceano senza che le sentinelle se ne accorgessero. Spesso, que' ladri entravano in un palazzo e da questo passavano a quello contiguo, forando il muro intermedio.
Il solo saccheggio che si può imputare alla truppa - se tale potesse chiamarsi - fu quello di aver tolto a sè campi intieri di pomi di terra che erano nelle vicinanze di porta di Termini, e di aver falciato il grano ancor verde per darlo a' cavalli e muli. Ciò fu permesso da Meckel per la ragione della mancanza de' viveri.
Fuori di porta di Termini, dalla parte di mare, vi era un deposito di vini esteri e nostrani: le squadre e i garibaldini lo aveano scassinato e mezzo saccheggiato; i soldati quando sopraggiunsero fecero anche la loro parte. Meckel, onestissimo e rigoroso qual era, impedì non solo quell'atto a' soldati, ma punì costoro, fece serrare le porte del magazzino, e stabilì una sentinella per guardarlo.
Del resto, nelle guerre civili, ed anche in quelle di eserciti regolari, accadono sempre simili saccheggi; avvengono spesso incendii e altri mali peggiori. Basta aprire la storia di tutte le guerre per accertarsi che questa piaga sociale esiste da per tutto, eziandio negli eserciti che si vantano tra i più civili d'Europa.
Lord Palmerston, quando calunniava il Re di Napoli e l'armata napoletana vedeva il fuscello negli occhi altrui e non vedeva la trave nei suoi. Il mondo sa come erano trattati da' soldati inglesi i poveri indiani. Quindi calunniare in quel modo un'armate infelice e tradita non è onesto e generoso.


(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).

giovedì 29 settembre 2011

Kaiserjäger:storia di valorosi soldati.


I cacciatori Austriaci, meglio noti anche in Italia col nome tedesco di Jäger o  Kaiser-Jäger, entrarono a far parte dell'esercito permanente in epoca relativamente tarda. E' solo nel 1801 che i primi 3 battaglioni di cacciatori regolari (ognuno di 6 compagnie), ebbero pianta stabile nell'armata austriaca, riunendosi nel reggimento cacciatori Tirolesi, che nell'ambito della fanteria ebbe il numero 64 e che dal nome del suo primo proprietario veniva denominato "marchese Chasteler". Prima di allora esistevano numerosi corpi franchi di varia formazione, composti da sudditi dei territori montani abili nel tiro col fucile, che una volta sciolti appena terminava un conflitto, erano pronti a riprendere le armi appena si profilava una minaccia ai confini dell'impero.
E' curioso rilevare che i Tirolesi arruolati nel 1788, in una delle tante guerre contro i Turchi, vennero armati col fucile ad aria compressa ideato dall'ampezzano Girardoni.
Sciolto nel 1808 il reggimento Chasteler, i suoi componenti andarono a costituire il nucleo principale dei 9 battaglioni autonomi che si formarono nei territori della corona (Boemia, Austria e Moravia). In seguito due di questi battaglioni saranno composti da militari lombardo veneti.
Successivamente, terminate le guerre napoleoniche e sciolti i reparti di volontari formatisi nelle regioni alpine di Tirolo e Voralberg, cioè quei volontari denominati cacciatori di Fenner, che tanto si erano distinto nelle ultime campagne di guerra, si ricostituì con essi il nuovo reggimento Tirolese, inizialmente su 4 battaglioni. Da quel momento suo proprietario sarà l'imperatore in persona, davanti al quale il reggimento sfilerà a Innsbruck per la prima volta nel 18016.
In quanto ai battaglioni autonomi essi, saliti a 12 grazie anche alle nuove acquisizioni territoriali, vennero portati addirittura a 25 dopo le guerre del 1848-49, con un incremento di ben 13 unità e, finita la campagna del 1859, i battaglioni cacciatori aumentarono a 32 (gli ultimi due provenienti dai volontari di Vienna), nonostante che, a seguito della cessione della Lombardia, la riduzione territoriale avesse comportato la perdita dei 3 battaglioni italiani reclutati in quella regione.
Arruolati nelle file del reggimento Imperatore, i sudditi Trentini, che appartenevano al Tirolo meridionale, parteciparono numerosi alle campagne militari del Risorgimento, distinguendosi un po' ovunque. Diverso invece il grado di fedeltà all'imperatore da parte dei cacciatori lombardo veneti, i quali, dal 1823 al 1830, venivano arruolati nelle file dei battaglioni N° 11 e 12 e successivamente in quelle del N° 8 e del N° 11. Nel 1848 le scarne schiere di questi battaglioni, cominciarono a rinfoltirsi solo dopo che, a campagna ormai vittoriosamente conclusa, il maresciallo Radetzky aveva proclamato il perdono generale per tutti i militari di truppa che avevano disertato.
Negli anni che seguirono, il vertice militare austriaco, nella rinnovata fiducia che l'imperatore Francesco Giuseppe aveva riposto nei sudditi italiani, contuinuò a levare nelle regioni lombardo venete consistenti quote di reclute da assegnare al corpo dei cacciatori. Infatti, mentre dal 1849 al 1859 il N° 25 veniva reclutato nelle Venezie, dove nel 1859 subentrò il N° 26, nel 1857 erano diventati lombardi anche i battaglioni N° 6 e 18.
Nel 1866 i due battaglioni N° 8 e 26, gli unici due di cacciatori dei battaglioni autonomi composti da italiani a militare nell'armata ustriaca in quell'epoca, pagheranno anch'essi un alto tributo di sangue sui campi di battaglia della Boemia, guadagnandosi numerosi riconoscimenti di valore.
Combatteranno per l'ultima volta al servizio della Patria e dell'Imperatore durante la I°  Guerra Mondiale (1914-1918)distinguendosi ancora una volta per il loro grandisimo valore.



 Nota
Dal 1849 il battaglione N° 10 possiede una tromba in argento con la dedica "Al valoroso 10° battaglione cacciatori, dall'armata d'Italia condotta dal vincitore Radetzky 1848". Sullo strumento è applicata l'aquila bicipite con il motto "Monte Berico - Kopal chiama!"



Vicende durante la campagna del 1859:

Il 29 aprile il 13° battaglione cacciatori da campo lascia Torretta e alle h 4 del pomeriggio supera il Ticino, passando così il confine austriaco.
Il battaglione si formò in quadrato su di un prato dove vennero letti gli ordini d’Armata (dell’imperatore e il N° 12), poi prestato il giuramento si caricarono le armi. Questo atto festoso produsse una solida impressione sia negli ufficiali sia nella truppa e si concluse con un ‘evviva’ all’imperatore.
La sera il battaglione arrivò a Carbonara dove si dispose a bivaccare.
Il 30 aprile, sotto una pioggia battente, marciò su Dorno dove mise il campo.
...
Ora il ponte ferroviario di Valenza si doveva fare saltare in aria dalla parte occupata dagli austriaci.
Il 1° maggio il battaglione era avanzato fino a Torre dei Berretti, dove si avvicendava col reggimento fanti N° 27 negli avamposti lungo il Po, nei pressi del ponte ferroviario e stradale.
Valenza era occupata da truppe nemiche (Piemontesi) le quali avevano rafforzato la sponda destra del Po mediante trinceramenti e batterie. Inoltre, nel corso della marcia di avvicinamento si trovarono alcuni tratti di strada interrotti da scavi trasversali.
Dalle due sponde avvennero anche alcune scaramucce tra pattuglie e sentinelle e ciò accrebbe la voglia di combattere nei cacciatori che non vedevano l’ora di misurarsi sul serio col nemico.
A protezione dei lavori di mina e del riempimento delle camere necessari al brillamento del ponte di Valenza venne affidato alla nostra brigata.
Il tempo assolutamente pessimo e la durezza della pietra con cui è costruito il ponte, causarono grandi difficoltà nell’esecuzione dei lavori.
Già il 2 maggio, alle h 8 di sera, una divisione del reggimento fanti N° 27 fu fatta avanzare lungo il terrapieno ferroviario, col compito di proteggere la costruzione di una piazzola d’artiglieria per due cannoni da 12 libbre e di impedire una eventuale irruzione del nemico lungo il terrapieno.
Allo stesso tempo fu ordinato al reparto pionieri di brigata, al comando del primo tenente Hüttenbrenner del reggimento fanti N° 27, di rimuovere i binari della strada ferrata e di distruggere la linea telegrafica. All’altro capo del ponte il nemico, che aveva piazzato una batteria di 2 pezzi da 16 libbre, di tanto in tanto tirava qualche cannonata al reparto che stava lavorando senza tuttavia arrecargli il pur minimo danno.

Poiché non era prudente stare solamente ad osservare il nemico, che avrebbe potuto cogliere l’occasione di transitare sulla sponda sinistra, si rinforzarono gli avamposti con altre 4 compagnie del reggimento fanti N° 27 e due cannoni che si piazzarono sul terrapieno ferroviario.
I due cannoni da 12 libbre fecero qualche tiro, senza tuttavia pervenire a risultati importanti in quanto la distanza fino alle batterie nemiche assommava a circa 2.000 passi.
Il 3 maggio la linea degli avamposti si spinse lungo tutto il braccio del Po che va da Casa Bisognosa attraverso la strada ferrata fino a Casa Bochiane.
Alle h 2 del pomeriggio la 1ª compagnia del battaglione cacciatori N° 13 fu mandata con 2 pezzi di racchette sull’isolotto sito a nord del ponte ferroviario, in prossimità della sponda sinistra, per prendere sul fianco le posizioni nemiche. Tuttavia, a causa della grande distanza, solo alcuni lanci riuscirono a raggiungere la batteria nemica; la compagnia venne fatta ritirare subito dopo.
Il capitano di Stato Maggiore generale Hilleprandt, addetto alla brigata, ricevette l’incarico di portarsi avanti con le truppe necessarie alla protezione dei lavori di brillamento e di fare rapporto sulle condizioni del ponte.
Alle h 7.30 di sera, detto capitano condusse per ambedue i lati del terrapieno, mezza compagnia del reggimento fanti N° 27, e raggiunse il ponte senza essere notato dal nemico. Era questo un massiccio ponte in pietra ad archi con 20 piloni, ognuno di 25 passi di luce.
Il colonnello del genio von Rado si mise subite a dirigere i lavori che iniziarono dal primo pilone. L’impresa non poté essere tenuta nascosta del tutto al nemico perché questi, subito dopo l’inizio dei lavori, tirò dalla sua sponda alcuni colpi di cannone ai quali rispose la nostra artiglieria.


Scaramuccia di Valenza, 4 maggio 1859

Il 4 maggio, alle h 10 di mattina, il nostro battaglione si spinse avanti per dare il cambio al 27° reggimento. Per noi questo fu una giornata di notevole importanza in quanto oggi si sarebbe avuto il battesimo del fuoco.
La 2ª e la 4ª compagnia presero posizione proprio accanto al ponte, mentre le altre due rimasero in riserva davanti al ponte dove si trova il casello ferroviario.
Dopo le h 3 di pomeriggio, sulla sponda opposta, comparvero ufficiali a cavallo e alcuni reparti che col loro fuoco resero alquanto difficoltosa la posa delle mine.
Il cadetto facente funzione di sergente Ernst Wolff, il cadetto facente funzione di caporale Ladislaus Benischko von Dobroslaw, il vice-caporale Josef Hofbauer, i cacciatori Johann Weiß e Johann Teuschel della 2ª compagnia, poi il sergente Johann Bergmann, i cacciatori Anton Sachs, Vincenz Maurer, Josef Schestauber, Johann Dudek e Josef Körner della 4ª compagnia, si presentarono volontari per avanzare fino al casello che stava all’altezza del 3 pilone e da questa posizione, per quanto pericolosa, far passare al nemico la voglia di disturbare i lavori di mina.
Protetti dal parapetto contro il violento fuoco nemico, questo manipolo di coraggiosi riuscì a raggiungere il casello. Da qui i cacciatori aprirono un fuoco calmo e preciso, cosicché quasi ogni colpo andava a segno e così il nemico, dopo aver subito numerose perdite tra gli ufficiali e la truppa, non osò più mostrarsi dalle posizioni al coperto.
In questa azione il cadetto Wolff, aveva preso di mira un ufficiale a cavallo che sembrava persona di grande importanza tra i suoi, e in un istante i Piemontesi avevano perso uno dei loro migliori ufficiali di artiglieria, il capitano Ribotti.
Il fuoco di artiglieria rivolto subito contro il casello, non riuscì a stanare da lì gli ostinati cacciatori. Quattro granate nemiche scoppiarono loro davanti e a fianco e una scheggia portò via dal capo il cappello del cacciatore Maurer. Il cadetto Ernst Wolff, Georg Benischko cavaliere von Dobroslaw e il vice-caporale Josef Hofbauer, rimasero feriti. Questi tre prodi furono i primi del battaglione a versare il loro sangue per la gloria dello stesso. Ma nulla poté attenuare la loro volontà di combattere. Esaurite le munizioni, essi ne fecero richiesta al tenente Hauschild, che se ne stava a circa 150 passi col suo reparto.
Ricevute altre 84 cartucce, ripresero a far fuoco con tale successo che ogni salva di fila era seguita da trambusto e confusione che provenivano dalla sponda dove stavano schierati i reparti del nemico, cosa che faceva pensare di avergli arrecato perdite considerevoli.

Dimostrarono coraggio e tenacia anche il sergente maggiore Wenzel Hurka, il sergente Josef Flath, il caporale Vincenz Thymann ed il cacciatore Johann Holly della 1ª compagnia. Trovate varie barche del nemico in prossimità del ponte ferroviario, lungo la sponda destra del Po, questi andarono volontariamente a compiere una ricognizione del fiume. Da posizione favorevole, arrecarono notevoli danni al nemico con i loro colpi ben aggiustati e uno di questi sparato dall’infallibile Stutzen del cacciatore Johann Holly abbatté un ufficiale nemico spintosi in avanscoperta.
Spintasi fino all’acqua, una seconda schiera della medesima compagnia, composta dal caporale Anton Hausner e dai cacciatori Wenzel Czerny, Josef Fränzl e Paul Hauschka, scambiarono parecchie fucilate con i tiratori nemici, alcuni dei quali furono messi fuori combattimento. Al cacciatore Hauschka una palla bucò il cappello. Da citare infine il cacciatore Franz Pappert della 3ª compagnia, che seppe influire favorevolmente sui compagni con frasi spiritose e di incitamento, presentandosi poi volontario come vedetta; egli si spinse fino al terzo pilone oltre il casello e da questa posizione completamente esposta al fuoco nemico, riuscì ad abbattere in breve tempo due soldati nemici.
Nel frattempo il colonnello Rado aveva continuato con i lavori di mina, ma non poté portarli a termine perché gli attrezzi divennero inservibili a causa del durissimo materiale con cui è costruito il ponte.
Durante la notte i Piemontesi tentarono di attraversare il fiume su barconi, ma l’impresa fallì grazie all’attenzione dei posti di guardia.
La mattina del 5 maggio, l’improvviso innalzamento delle acque del fiume, che inondarono le camere di mina non ancora completate, ci costrinse a rinviare l’impresa. Gli avamposti furono fatti arretrare fino all’argine di piena. Il nemico ci prese sotto un fuoco violento che continuò con brevi pause fino alle h 3 di pomeriggio del 5 maggio, allorché la brigata Hartung ci dette il cambio.
La brigata Ramming occupò gli accantonamenti di Montariolo; il battaglione si insediò a Tibiano.
...
Il 7 maggio il comandante di battaglione, tenente colonnello Hugo Schupp, in seguito al suo precario stato di salute chiese un permesso prolungato e partì per Laxenburg.
Il capitano Willibald Wachwest prese il comando interinale del battaglione.
Lo stesso giorno la brigata Ramming partì per Castel d’Agogna, il battaglione raggiunse Casina Nova e, il 9, Torrione dove venne promulgato un severo ordine del giorno di battaglione, in quanto alcuni cacciatori si sbarazzarono delle loro Czutter (le borracce di legno) e delle ghette. Il 10 il battaglione si accantonò a Castel d’Agogna; qui il primo tenente Strachofsky venne elogiato dal comando di battaglione per la sua dimostrazione di energia e di instancabile attività nell’aumento di effettivi nel battaglione e nella costituzione della compagnia deposito.
...
Un ordine d’armata (del 16 maggio) imponeva che venissero preservati gli alberi da frutto, e soprattutto i gelsi, e poi i campi coltivati a cereali e a riso, e che questi non dovevano essere impiegati per la costruzione di capanne o per altre necessità campali; a tale scopo potevano essere utilizzate siepaglie o anche alberi che non portavano frutto.
Sempre in maggio, poiché era capitato che, vuoi per baldanza vuoi per cattiveria, venissero incendiati i ricoveri di ramaglie e di paglia abbandonati negli accampamenti dalle truppe in partenza, cosicché i compagni delle truppe che seguivano, anziché agevolazioni trovavano degli incendi, fu emanato un altro severo ordine d’Armata in tal senso.
A maggio vi furono anche singoli casi di saccheggio e abusi da parte di truppe non sempre approvvigionate a sufficienza, cosa che indusse ad emanare un ordine d’Armata dove si ammoniva che sarebbero state inflitte le pene più severe contro questi comportamenti. Purtroppo anche nel battaglione successe un caso simile in cui degli uomini alloggiati vicino a Trumello in una cascina abbandonata dai proprietari, tentarono di appropriarsi delle provviste custodite sotto chiave. Il sergente da cui dipendevano gli autori della trasgressione fu degradato dal comando di battaglione e i cacciatori vennero puniti con la pena della verga. Si agì anche nei confronti di due comandanti di posti di guardia che si resero responsabili di piccole negligenza, comminando loro una degradazione di 14 giorni.
I battaglioni di fanteria della prima schiera si spiegarono in colonne di divisione, con tiratori sulla fronte; quelli della seconda schiera con due colonne di divisione ognuno in prima linea e quelli della terza a sostegno più indietro.
Il 13° battaglione aveva la 1ª, 2ª e 3ª compagnia in prima linea, la in riserva più arretrata; ognuna delle compagnie che stavano davanti sciolsero in tiraglieri due plotoni mentre gli altri due seguivano a sostegno.
Negli intervalli tra i battaglioni di prima schiera stavano: mezza batteria a cavallo N° 12/I e mezza batteria racchette N° 18, infine, assegnata a questi, vi era metà della batteria di brigata; l’altra metà si trovava con la seconda schiera.
Le prima citate batterie, a cavallo e racchette, costrette prima a ritirarsi dalle circostanze belliche, si erano unite alla brigata di loro spontanea volontà.
Alcuni reparti del reggimento di fanteria N° 54, che occupavano la stazione di Ponte Nuovo di Magenta, erano troppo deboli per poter resistere con successo all’assalto dei Francesi e il brigadiere GM Gablenz stava già pensando di sgomberarla, allorché giunse il tanto ben accetto aiuto; infatti a quell’ora (le h 5 di sera) la brigata Ramming aveva raggiunto Ponte Vecchio di Magenta e la strada che congiunge questa località con Magenta.
La vegetazione tipicamente italiana, caratterizzata dai numerosi filari di gelsi uniti tra loro da piante di vite i cui tralci erano sostenuti da filo di ferro, rendevano oltremodo difficile il procedere, in particolare per l’artiglieria impedendo in non minore misura il campo di tiro.
Ponte Vecchio di Magenta rappresentava il perno dell’ala sinistra della brigata e perciò di estrema importanza per lei. Questa località era occupata da 1 divisione del 2° reggimento confinario Banale la quale, in quel momento, era in procinto di abbandonare la parte orientale dell’abitato, perché rimasto isolata a causa del brillamento del ponte stradale sul Naviglio.

Il FML Schönberger ordinò ai confinari di occupare nuovamente Ponte Vecchio di Magenta e diede ordine al capitano Wachwest di rinforzare la posizione con il 13° battaglione cacciatori. I confinari tuttavia non sembrava avessero eseguito con precisione quest’ordine perché, poco dopo, il capitano Franz dello Stato Maggiore generale del Corpo, mandato a verificare la situazione, trovò i confinari ancora una volta in ritirata.
Intanto la località era stata fortemente occupata dai Francesi e così la divisione dei confinari, mandata alle spalle del nemico, non poté fare più nulla. Il comandante del 13° battaglione cacciatori, compresa subito la situazione e consapevole dell’importanza che questa parte di paese aveva per una avanzata generale, ordinò di attaccare.
Con grande bravura il battaglione cacciatori, a cui si era unita una parte del 3° battaglione del reggimento fanti N° 27, si lanciò contro la parte orientale di questa località, ne scacciò i Francesi alla baionetta e ne occupò i margini con due compagnie, mentre il resto del battaglione procedette verso Casa Girola.
Lungo il Naviglio, due cannoni a cavallo iniziarono a far fuoco. Due compagnie del 13° cacciatori, il 3° del 27° a cui alla sua destra restò collegata la 2ª divisione di questo reggimento, si portarono irresistibilmente in avanti e, nonostante che dal ponte ferroviari vennero accolti dal fuoco violento dei granatieri della Guardia, dal 6° battaglione cacciatori e dai cannoni francesi, ricacciarono i Francesi fino al terrapieno della ferrovia, inseguendoli con un fuoco nutrito e preciso.
I Francesi, che si stavano rinforzando sempre di più, scagliavano una salva dopo l’altra su questa schiera di prodi la cui situazione divenne sempre più critica dato che ormai molti ufficiali e soldati avevano intriso di sangue quel suolo così duramente conquistato.
Poiché un assalto isolato su Ponte Nuovo di Magenta, portato contro un nemico soverchiante, non aveva alcuna prospettiva di successo, allora venne occupata e valorosamente difesa, la linea Ponte Nuovo di Magenta – Casa Girola – Mainaga, nonché un tratto di terrapieno.
Intanto, sulla sponda destra del Naviglio, i Francesi, con nove battaglioni, erano riusciti a conseguire dei vantaggi nei confronti della brigata Hartung, riprendendo quella parte di Ponte Vecchio di Magenta. Il nemico aprì subito il fuoco sul fianco ed alle spalle del 13° battaglione cacciatori, assalì con grande impeto e spinse parecchi battaglioni negli spazi lasciati liberi dalle nostre truppe.
Il numero di gran lunga soverchiante, costrinse il battaglione, fortemente assottigliato, che però grazie al suo fuoco preciso inflisse enormi perdite ai Francesi, ad abbandonare la parte orientale così tenacemente difesa di questa località.
A questo punto il brigadiere, radunati contingenti di vari reggimenti di fanteria, riparte nuovamente all’attacco di quel luogo tanto conteso; questo movimento è sufficiente per infondere nuovo coraggio e ridare impulso al battaglione cacciatori che si riporta in avanti. A sprezzo del pericolo e con l’ardente desiderio di vendicare il sangue versato dai camerati caduti, questo si lancia di nuovo dentro il paese che aveva appena abbandonato e rientra a viva forza in suo possesso, facendo uso per lo più di calcio del fucile e di baionetta. Molti cadaveri di Francesi ricoprono le vie e gli spiazzi della località; le case devono essere riprese con la forza una per una. Ma i bravi cacciatori non si attenuano in quel lavoro cruento, finché non è riconquistato il suolo perduto.
Per rifarsi di quello scacco, i Francesi, rinforzatisi potentemente e guidati dal generale Vinoy, si portano nuovamente avanti in numero soverchiante.
I cacciatori e quelli del 27°, assottigliati nel numero e stremati da ore di combattimenti, difettando le munizioni, si ritirano fino a Casa Limido solo dopo una eroica difesa. In un secondo tempo essi, col concorso dei bravi Stiriani del reggimento Re dei Belgi, riescono, compiendo sforzi inauditi, anche a riprendere possesso per due volte, sia pure temporaneamente, di Ponte Vecchio di Magenta, ma ogni forma di eroismo, ogni entusiastico sprezzo del pericolo e i fiumi di sangue versato, non poterono cambiare le sorti della giornata.

Il battaglione aveva subito le seguenti perdite:
  • morti: 1 ufficiale (primo tenente Ferdinand Mocker, una palla di fucile e alcuni colpi di baionetta), 1 cadetto (Emil Gallina) e 12 uomini,
  • dispersi: 26 uomini da doversi considerare morti in quanto manca qualsiasi notizia della loro sorte;
  • feriti: 5 ufficiali (capitano Adolf Wolffersdorf, 1 palla al petto e sul braccio sinistro; capitano Eduard Grund, palla al petto; tenenti Emanuel Richter, Theodor von Neumayer, Franz Häring e Eduard Gamlich, ferite di striscio), 1 cadetto (barone Maximilian von Sanleque, palla sul braccio sinistro e colpo di baionetta al collo), 88 uomini, 9 dei quali morirono in seguito alle ferite;
  • feriti e prigionieri: 1 ufficiale, 43 uomini;
  • prigioniero illeso: 1.
  • Totale: 7 ufficiali, 2 cadetti, 170 uomini.
Alla battaglia presero parte diretta: 13 ufficiali, 780 uomini; le perdite rappresentavano dunque il 54% degli ufficiali e il 22% della truppa.
...
Per alleggerire le truppe il più possibile, sua maestà dette ordine di spedire in luogo sicuro
le tuniche,
le ghette ed
i guanti,
dovendo la truppa fare uso del solo kittel di lino fino a nuovo ordine. Tale agevolazione andava estesa anche agli ufficiali. Il battaglione fece trasportare questi effetti a Mantova.
...
Il 17 luglio il battaglione ricevette l’ordine di ritirare gli zaini e le tuniche depositati a Mantova.






mercoledì 28 settembre 2011

Il popolo del XIX° Secolo:Coscente,inteligente e coerente.

Francesco IV° D'Asburgo-Este al Congresso di Verona nell'Ottobre 1822: Le riforme costituzionaliste ?un pretesto, non ragione della Rivoluzione.

Francesco  IV° D'Asburgo-Este.


Ecco il documento (testo fedele ), ossia la Memoria presentata dal Duca di Modena Francesco IV° D'Asburgo-Este  a Verona nell’ottobre-dicembre 1822, al Congresso degli Stati Europei per stroncare ogni altra congiura dei liberali , dopo quel "sapore di libertà" provata nel periodo napoleonico. Da Metternich chiamata "rivolta degli spiriti" che dovremmo sfruttare ora a nostro vantaggio, mettersi noi alla loro testa".

"Ai potenti saggi d'Europa"
 ... Se si considera lo stato precedente in cui si trovava l’Italia prima della rivoluzione di Francia, il carattere e i costumi differenti dei differenti popoli d’Italia, se non vi si mette rimedio pronto ed efficace, e quali sarebbero i rimedii principali che bisognerebbe avere in vista per assicurare la felicità di questi popoli e ottenervi una durevole tranquillità. I principali difetti adunque possono ridursi ai seguenti:

1. La mancanza di religione e l’avvilimento nel quale si è voluto gettarla, come la guerra costante che si è fatta ai suoi principii, alle sue prattiche e ai suoi ministri.


2. La diminuzione del Clero e l’avvilimento nel quale si è voluto gettarlo, come la sua indipendenza dal Capo della Chiesa, che si è voluto introdurvi.

3. L’annientamento della Nobiltà, privandola di tutte le sue prerogative, volendola impoverire, avvilire ed eguagliare alle classi inferiori.

4. La limitazione dell’autorità paterna, di quell’autorità stabilita da Dio stesso, ed è voluta dalla natura.

5. La suddivisione delle fortune per mezzo di leggi e concessioni fatali, che dissolvono le famiglie e tutti i loro beni, e tendono a ridurre a poco a poco gli individui egualmente infelici.

6. La milizia troppo mercenaria, guasta nei principii, e indifferente a servire chicchessia, se la paga bene, ed a cambiare padrone se spera migliorare la sua sorte.

7. La corruzione dei costumi voluta e stabilita come principio a meglio sradicare la religione, i buoni sentimenti, l’onore, e rendere gli uomini brutali, a fine di poter meglio servirsene come istrumenti nell’esecuzione di tutti i più perfidi disegni; poiché l’uomo che si lascia prendere la mano dalle passioni brutali, perde ogni energia, ogni capacità, diviene una specie di bestia o di macchina.

8. La corruzione della dottrina e dei principii, ciò che si effettuò con la libertà della stampa, e con la grande premura di spargere cattivi libri, di allontanare i buoni, e di far sì che tutte le classi imparino a leggere e scrivere, ed abbiano qualche idea di studii per avere il mezzo di influenzarle.

9. La buona educazione della gioventù impedita, e la cattiva facilitata, incoraggiata, ecc.

10. L’abolizione delle Corporazioni religiose e delle Corporazioni secolari, come quelle delle arti e mestieri, che distinguono le classi degli uomini, le tengono in una necessaria e salutare disciplina, e che servono ad occuparli.

11. La pericolosa e viziosa moltiplicazione degli impiegati e il "male è" che ciascuno possa aspirare a
qualunque carica, senza differenza di stato e di condizione.

12. I troppi riguardi e la considerazione che si dà, senza distinzione di merito, ad ogni uomo letterato, e la soverchia moltiplicazione di professori d’ogni sorta, il troppo potere e diritto che loro si concede, la troppo grande facilità stabilita ovunque per la gioventù di studiare, ciò che rende tanta gente infelice e scontenta; poiché non tutta trova ad occuparsi, e i soverchii studii che si sono fatti fare a ciascuno, fanno sì che in fondo non imparino niente, e divengano presuntuosi.

"È d’uopo qui aggiungere alcune altre cause di rivoluzioni, alle quali è necessario cercare di rimediare, e sono:

I - L’ozio, che è molto amato in Italia e che bisogna vincerlo e combatterlo, giacché trascina tutti i vizii ed è una grande sorgente di rivoluzioni.


II - Il grande amalgamamento continuo con tanti forastieri che sono incessantemente in moto per tutta Italia, e che portano dappertutto la corruzione dei costumi, e guastano lo spirito nazionale e i buoni principii.


III - La soverchia lungaggine nell’amministrazione della giustizia, vuoi nei processi civili, vuoi nei criminali.

IV - La instabilità delle imposte, che è talvolta più sensibile e dispiace più della gravezza delle medesime.


V - Certe imposte vessatorie nel modo di percezione, o che non sono ben proporzionate e divise; come ancora, allorché per uno squilibrio delle finanze si è obbligati a sopraccaricare il popolo di tasse.

VI -  Le leggi che inceppano il libero commercio delle derrate, principalmente quelle di prima necessità, dei commestibili, ecc.; giacché la mancanza o la penuria dei medesimi suscitano egualmente lagnanze e mormorazioni, come la loro troppa grande abbondanza che ne avvilisce il prezzo e avvezza troppo la plebe a una felicità, che, non potendo durare, la rende infelice, allorché finisce; invece che il libero commercio di quelle derrate la tiene sempre in certo equilibrio"

Duca di Modena Francesco  IV° D'Asburgo-Este.





Il Palazzo Canossa che  ha ospitato nel 1822 il Congresso di Verona.
      .

La bandiera cispadana del 1797


 
 
 
 
 
Il pensiero liberale-massonico, e quello dei suoi fautori, ha creato nel corso degli ultimi tre secoli una rete di Simboli (oggetti, avvenimenti, personaggi) che servono quali punto di riferimento e di orientamento nel mare del relativismo. L’intento fu quella di rimpiazzare, attraverso un piano a lunghissimo termine, le certezze della verità assoluta del Cristianesimo cattolico, con l’individualismo borghese, spostando il baricentro del Potere verso la sfera anglosassone, mettendo in moto meccanismi economici in grado di rompere l’equilibrio mondiale sopravvissuto fino alla fine del ‘700. Si creò (magistralmente, bisogna ammetterlo) una sorta di effetto-catena che, se da un lato promuoveva come propri i valori di uguaglianza e libertà, dall’altro relegava nel negletto e nel desueto tutto ciò che poteva contrastare il proprio cammino. L’arma vincente fu la propaganda retorica, e la sua capacità di far sognare, di trascinare, di indurre gli uomini a fare ciò che non avrebbero mai avuto intenzione di fare. I simboli, quali le bandiere, rientrano in questa tecnica coinvolgente. Sono serviti, eccome! Se è vero, come è vero, che ad esempio milioni di uomini sono andati in guerra, si sono immolati, e tante mamme hanno lasciato che ciò accadesse. L’azione liberale massonica si basa sul divenire, sul non equilibrio: ha generato progresso economico, ma anche conflitti spaventosi, dinamiche incontrollabili. In tal senso, si può sostenere che il pensiero liberale sia innaturale: la natura infatti si basa sull’equilibrio, sulla conservazione della specie e non sull’individuo. Il vento erode i dislivelli, le differenze di potenziale si compensano rapidamente, i tempi dell’evoluzione non sono avvertibili dall’uomo. Invece il pensiero liberale non contempla stasi, e si basa sulla dialettica del materialismo storico. Ha certamente fallito nel suo scopo più nobile: dare ad ognuno di noi la libertà di scelta, dare ai popoli la democrazia. Lo dimostravano già le parole del Gran Maestro Lemmi verso la fine dell’800: “L’opinione pubblica va creata, e quindi guidata”. È ancora oggi questo il maggior pericolo dell’uomo occidentale: venir influenzato, coinvolto, influenzato, manipolato. L’arma è sempre la stessa: la retorica rassicurante che ti fa sognare, che fa leva sulle tue passioni più care, che ti convince a morire per un pezzo di stoffa denominato “bandiera”.
Dopo aver preso coscienza di quanto sopra, possiamo anche leggere l'articolo che segue. Narra della bandiera cispadana, e contiene qualche cenno storico (incompleto: la Legione Lombarda si macchiò di orrendi delitti contro il popolo). Lo proponiamo perché leggerlo vale, a nostro avviso, più di mille spiegazioni sulla retorica.
Il Tricolore celebrato a Reggio nel 1797 come vessillo della Repubblica Cispadana (1)
Il tricolore non è semplice insegna di Stato. È un vessillo di libertà, di una libertà conquistata da un popolo che si riconosce unito, che trova la sua identità nei principi di fratellanza, di uguaglianza, di giustizia, nei valori della propria storia e della propria civiltà. Per questo, adoperiamoci perché in ogni famiglia, in ogni casa ci sia un tricolore a testimoniare i sentimenti che ci uniscono fin dai giorni del glorioso Risorgimento". Con queste parole il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi concludeva il suo intervento alla cerimonia di commemorazione del caduti nelle battaglie di S. Martino e Solferino, il 4 novembre 2001. Sono parole che hanno avuto una vasta eco nel Paese e che hanno ancora una volta confermato il costante impegno profuso dal Capo dello Stato nell'opera di rivitalizzazione dei simboli della nostra identità nazionale, del Tricolore e dell'Inno Nazionale in primo luogo. Un impegno che troverà una nuova, importante occasione del ( …) 207° anniversario della nascita della nostra bandiera. Ai reggiani piace pensare che all'opera di Ciampi per una più piena valorizzazione della storia e del significato del Tricolore non sia del tutto estranea la suggestione esercitata su di lui dalla Sala del Tricolore nel corso di un'altra visita che egli rece a Reggio il 7 gennaio 1999, questa volta in veste di Ministro del Tesoro. Anche in questa circostanza il suo discorso sottolineò con forza il significato della bandiera italiana come simbolo di appartenenza, ma in un'ottica di "valori condivisi da tutti i popoli d'Europa", quelli che sono a fondamento della civiltà europea e che sono sintetizzati nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Per chi ama il Tricolore e ciò che ha rappresentato nella storia moderna del nostro Paese, Reggio Emilia diventa dunque una tappa obbligata. Così come una visita alla Sala del Tricolore e all'annesso Museo rappresenta un momento indispensabile per scoprire una delle anime della città, 1'anima ribelle che ha lottato per scrollarsi di dosso antiche servitù e per conquistare il proprio futuro nella liberta e nell'eguaglianza. Non a caso il Foscolo definì Reggio "città animatrice d'Italia" e proprio ai reggiani "primi veri italiani e liberi Cittadini" volle dedicare la sua Ode a Bonaparte Liberatore. Erano i giorni della pacifica rivoluzione, della nascita della Repubblica Reggiana nell'agosto del 1796 e dell'impresa di Montechiarugolo che vide la Guardia Civica reggiana vittoriosa nello scontro con un contingente di soldati austriaci. Napoleone stesso, inviando al Direttorio esecutivo una relazione sull'accaduto, scrive che i due reggiani caduti nello scontro a fuoco sono i primi ad aver versato il sangue per la liberta dell'Italia. Reggio diventa nelle sue parole "le pays d’Italie Ie plus prononcé pour la liberté". La rivoluzione reggiana e la vittoria di Montechiarugolo suscitarono anche 1'entusiasmo dei patrioti italiani e assicurarono ai reggiani una duratura fama di coraggio e di patriottismo: il Monti nella Mascheroniana ricorda che "Reggio ancor non oblia che dal suo seno / La favilla scoppio, donde primiero / Di nostra libertà corse il baleno", mentre ancora dieci anni dopo Sthendal scriverà che "Reggio est, pour le patriotisme en Italie, ce que I'Alsace est en France. La vivacité et Ie courage de ses habitants sont celebres".  È dunque a Reggio  Emilia che, accogliendo le sollecitazioni di Bonaparte, i deputati  delle quattro città libere dell'Emilia Reggio, Modena, Bologna e Ferrara si riuniscono a congresso il 27 dicembre 1796 per proclamare la costituzione della Repubblica Cispadana "una e indivisibile". Le sedute del Congresso, che può considerarsi il primo parlamento italiano dell'epoca moderna, si tengono presso il Palazzo Comunale, nel grande salone progettato nel 1772 dall'architetto bolognese Lodovico Bolognini come sede dell'archivio generale del Ducato e ultimate nel 1785, ma rimasto in seguito inutilizzato. La Sala Patriottica, come allora era chiamata, era stata "già prima preparata con addobbi e trofei allusivi alla gran causa": i capitelli delle colonne erano stati decorati con le rappresentazioni delle principali vittorie napoleoniche in Italia e con quella della "presa fatta dai Reggiani dei tedeschi a Monte Chierugolo", mentre nella volta "apparivano la Dea della ragione, ed un puttino che incideva in marmo Costituzione; indi il genio dell'entusiasmo, che porta in una fascia il giuramento sacro di libertà, o di morte". Nella seduta che si tenne tra le 11 e le 16 del 7 gennaio 1797, Giuseppe Compagnoni di Lugo, uno del principali protagonisti Del Congresso, fa approvare la mozione che “si renda universale lo Stendardo o Bandiera di tre colori, Verde, Bianco e Rosso": nasce così il Tricolore, bandiera di uno Stato sovrano, destinata a diventare presto il simbolo dell'indipendenza e dell'unita nazionale. II vessillo cispadano ha i colon disposti in tre strisce orizzontali: il rosso in alto, il bianco in mezzo, il verde in basso. Al centro è raffigurato il turcasso o faretra con quattro frecce, a simboleggiare 1'unione dei quattro popoli che hanno aderito alla Repubblica, mentre ai lati  sono poste le iniziali di "Repubblica Cispadana".  Ma come si e giunti alla scelta di questi tre colori? Agli occhi dei patrioti italiani che fraternizzavano con le truppe napoleoniche durante la campagna d'Italia, tra il 1796 e il 1799, i nuovi ideali di liberta, di uguaglianza e di fraternità trovavano il loro simbolo più forte nel tricolore francese che sventolava vittorioso contro il dispotismo degli antichi Stati assoluti. Era perciò naturale che le "repubbliche giacobine" nella scelta dei loro emblemi si ispirassero a quel modello per richiamare i principi democratici di cui era portatore, adattandolo tuttavia alle tradizioni ed alle esigenze locali. Cosi ad esempio gia nell'aprile del 1796 il celebre giacobino piemontese Giovanni Antonio Ranza ideava una coccarda simile a quella francese, ma sostituendo il bianco, “che è l’emblema del realismo", con 1'arancione, preso a emblema della democrazia "di cui è simbolo il melarancio col suoi spicchi uniti e eguali". La Repubblica Anconetana adottava invece nel novembre dell'anno successivo un tricolore blu, rosso e giallo, mentre per i colon della bandiera della Repubblica Romana nel febbraio del 1798 si sceglieva il bianco, il rosso ed il nero. Anche i reparti militari "italiani" costituiti all'epoca per affiancare le truppe francesi adottarono uniformi e stendardi con fogge e colon propri, non solo per la necessità dl rendersi riconoscibili in battaglia, ma anche per evidenti ragioni politiche. Una forza militare "nazionale" rappresentava anch'essa un simbolo, quello di un nuovo Stato che, nella strategia di Napoleone, doveva essere satellite della Franciae soppiantare la potenza austriaca nell'Italia settentrionale. Così le uniformi della Legione Lombarda e della Legione Italiana, fortemente volute da Bonaparte, si distinguevano da quelle francesi per avere, al posto del blu, il verde, mutuato con ogni probabilità dal tradizionale colore delle uniformi della Guardia Civica milanese. Il Prospetto della Formazione della Legione Lombarda, del 9 ottobre 1796, prescrive che "Ogni coorte avrà il suo Stendardo tricolorato Nazionale Lombardo distinto per numero, ed ornato degli emblemi della Liberta". Tre giorni dopo lo stesso Bonaparte scriverà al Direttorio Esecutivo di Parigi: "Les couleurs nationales qu 'Us [les patriotes] ont adoptes sont le vert, le blanc et Ie rouge".  Scrive poi Luigi Viani nella sua Cronaca reggiana, sotto la data del dicembre 1796: “Organizzata dunque la Coorte Reggiana, si videro per la prima volta sventolare i vessilli Italiani coi suoi colori verde, rosso e bianco, e tale era pure l’abito de’ soldati, cioè abito verde, paramano rosso listato a bianco con uguale sottabito. Alla sera dei 12 dicembre 1796 pervenne a Reggio la Coorte di Ferrara portando gli eguali vessilli, abiti e colori". Il bianco, il rosso e il verde, diventavano sempre più nell'immaginario collettivo i colon italiani e fu certamente questo il motivo che spinse la Repubblica Cispadana ad adottarli nella propria bandiera.  Fu cosi che il vecchio tricolore cispadano, anche dopo la conclusione dell'epoca napoleonica, rimase nella coscienza di molte generazioni di patrioti il simbolo per eccellenza della riscossa nazionale, la massima espressione degli ideali di indipendenza e di unità che alimentarono il nostro Risorgimento. E fu così che da emblema dinastico e militare si trasformò nel simbolo di un popolo, di una nazione. Per questo ogni anno il 7 gennaio "giornata nazionale della bandiera", nella Sala che la vide nascere, la città di Reggio Emilia rinnova 1'antico patto dei deputati cispadani per una repubblica "una e indivisibile".

lunedì 26 settembre 2011

Le bellissime parole dette dal Duca Francesco V° D'Asburgo-Este e dalla Duchessa Adelgonda di Baviera ai loro fedeli soldati nel giorno dello scioglimento della Brigata Estense .



“Nell’augurarvi da Dio ogni bene, desideriamo di potervi trovare un giorno nel numero maggiore possibile, riuniti di nuovo attorno a queste onorate bandiere, che conserveremo preziosamente presso di noi, facendo voti di poter tutti assieme contribuire al trionfo della causa della Religione e della Giustizia”.

Francesco V°
Adelgonda di Baviera.

Giacinto De Sivo testimonia la realtà di come venne fatta "L'Italia".


Anche molti studiosi e intellettuali si opposero all’Unità d’Italia. Scriveva lo storico Giacinto De Sivo:

“Chi adunque nel reame vuole l’unità? Non la nobiltà, non il clero, non gli scienziati, non le milizie, non gli artigiani, non i contadini, e non i commercianti. Voglionla i contrabbandieri, i galeotti, i camorristi, ed uomini oziosi, lanciati per errore o per bisogno o per ambizione nel caos delle sette. Questi han preso le cime degli uffizii, questi strepitano, scrivono, spauriscono, pugnalano, fucilano, e si chiamano popolo e nazione. Ma il popolo del regno non vuole l’Italia una”.

Giacinto De Sivo.

La considerazione di Garibaldi verso il Popolo che giustamente non lo appoggiava.



E' incredibile lo stato di cretinismo e di timore in cui il prete a ridotto codesti discendenti delle antiche legioni di Mario e di Scipione.

Giuseppe Garibaldi.

L'inteligente quesito di Francesco V° D'Asburgo-Este.



Se il mio governo fosse stato cosi arbitrario ,perché le mie truppe abbandonerebbero il loro paese e le loro famiglie per un tempo indefinito resistendo a seduzioni di ogni sorta e a minacce rivoluzionarie?perché infine truppe tenute lontane dal proprio paese dovrebbero continuare a rinforzare i loro ranghi persino molto meglio di quando io teneva il potere nelle mie mani?.

Il giusto pensiero di Cesare Balbo.



l'italia non situata non conforme a un sol regno è destinata ad essere come sempre fu divisa in parecchie provincie ,felice quando queste sono conformi alla natura,savia quando cercherà confermarle , infelice e stolta quando il vano desiderio di un solo stato la distolse o dilstorra da quella che è  condizione naturale.
Cesare Balbo.

domenica 25 settembre 2011

La testimonianza di Francesco V° D'Asburgo-Este riguardo la "Rivoluzione" nel Ducato di Modena del 1859.


L'insurrezione si restringeva alle citta e ad una classe incorreggibile di frequentatori di caffè,bordelli,case da gioco e teatri, le masse erano del tutto estranee.



Francesco V° D'Asburgo-Este.

Discorso di Francesco II° di Borbone-Due Sicilie al suo esercito il 30 Settembre 1860 .




Quelli lo chiamano risorgimento,ma che significa risorgimento?risorgimento lo si dice di una cosa che è gia esistita, ma a voi forse risulta che l'Italia sia già esistita? no l'italia non è mai esistita da che mondo e mondo,e allora come puo risorgere?

Francesco II° di Borbone-Due Sicilie,30 settembre 1860.

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due-Sicilie(1860-1861):Il tradimento di Lanza e l'entrata dei Garibaldini a Palermo:Parte 5°.

Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.


Palermo 1860.

Partiti da Corleone invece di camminare a marcie forzate, come richiedeva il bisogno, si fece alto alla Ficuzza, poche miglia distante da Corleone, ed ivi si passò la notte del 28 maggio.
Meckel era un prode soldato, onestissimo, devoto alla causa del Re, cui serviva, però avea il gran difetto, non raro negli allemanni, di essere testardo, e freddo nelle operazioni militari. Fu questa la causa della disgrazia del Regno e della Dinastia: sebbene la maggior parte de' duci regii non tradirono, pur nondimeno coadiuvarono la causa della rivoluzione col contenersi ora da presuntuosi, ora da vili, da inetti sempre.
La mattina del 29, alle 7 del mattino, con tutto il nostro comodo, la brigata si mosse, facendo alto ogni momento. Si giunse a Marineo a mezzo giorno, ove si dimorò molto senza ragione alcuna. La marcia da questo paese a Misilmeri fu lenta ed uniforme. La sera, a tarda ora si giunse a Villabate, tre miglia lontano da Palermo al sudest, e si ristette in quelle campagne.
La notizia della rotta a Parco di Garibaldi, sgomentò i rivoluzionarii di Palermo. I così detti liberali di quella città, tronfii dopo Calatafimi, abbassavano la cresta dopo i fatti di Parco: e taluni più prudenti tacevano e si nascondevano. Lanza venne in loro aiuto colla sua inerzia, e con la sua inesplicabile condotta. Costui giunto a Palermo si chiuse nel Palazzo reale, ed era invisibile come un Imperatore del celeste impero. Era però circondato da' suoi parenti di Palermo, i quali erano in voce di liberali. Lanza andava in fama di pessimo amministratore, di mentre grossa, e tuttavia si credeva che sapesse menar le mani, e le facesse muovere a' soldati.
E davvero per domare la rivoluzione siciliana non si richiedeva un Generale strategico e di grande istruzione, come un Satriano: sarebbe stato sufficiente un militare qualunque sia, anche un borghese, il quale non avesse impedito a' soldati di battersi ed inseguire il nemico. Alla naturale inettezza di Lanza si aggiungevano le liberali insinuazioni de' suoi parenti, i quali istillavano il loro liberalismo a quel gallonato fanciullone. È questa la sola ed unica ragione che si potrebbe addurre per ispiegare la condotta tenuta in Palermo nel tempo della sua luogotenenza con l'alter-ego.
La truppa che difendeva Palermo era spartita a' Quattroventi, a Castellammare, alle Finanze, ed al Palazzo reale: non contando i battaglioni ch'erano in Monreale, e la brigata Meckel andata in cerca di Garibaldi. Lanza non pensò a fornire la truppa di viveri, onde provvedere a tutto quello che suole avvenire in tempo di guerra.
Egli, invisibile nel Palazzo reale, qualche volta cacciava il naso dalla sua camera e domandava al suo stato maggiore: "che si fa? che si dice?" Bel tipo di Generale in capo! se se ne avesse uno per ogni Stato sarebbe la delizia de' rivoluzionari. Lanza, il solo ordine che diede appena giunse in Palermo fu quello che si togliessero dal Banco settecentomila ducati: trattandosi di danaro è un altro affare, l'attività non manca mai, tanto a' codini, quanto, e più di tutti a' liberali.
Il 28 maggio giunsero a Palermo due battaglioni esteri, i quali appena toccato il porto voleano sbarcare con animo di battersi. Il Comandante Migy si recò subito da Lanza e lo pregò a dar l'ordine che la sua gente sbarcasse, esprimendogli il desiderio ed il valore che aveano que' soldati di contenere un tentativo, che avrebbero potuto fare gli invasori. Il Lanza si ricusò assolutamente, e lasciò que' soldati a bordo che poi fece sbarcare il giorno appresso per adunarli attorno al Palazzo reale, permettendo che restassero inoperosi, come inoperosi erano ivi tutti gli altri battaglioni napoletani. Si disse che il maggiore Migy avesse rotta la spada in faccia al Luogotenente generale Lanza, quando questi lo condannò all'inazione.
Lanza fu avvertito da molte persone degne di fede, che Garibaldi marciasse sopra Palermo, che entrerebbe per Porta di Termini la mattina del 27 maggio, e che la città si leverebbe a rivoluzione.
La sera del 26 si leggeva pubblicamente per le vie di Palermo una lettera di Garibaldi diretta al Barone Cozzo, presidente del Comitato rivoluzionario, con la quale lo avvisava come egli entrerebbe in città dalla Porta di Termini il giorno seguente sull'alba, come volea trovar barricate pronte, e sentire le campane sonare a stormo in segno di generale rivoluzione.
Lanza sapea tutto e a nulla volea provvedere.
A chi gli facea osservare come non dovesse tenere oziosi tanti battaglioni intorno al Palazzo reale, ma spingerli contro Garibaldi, egli rispondeva: "Lasciatelo scendere a Palermo che tel concerò io per le feste."
Il generale Colonna, che si era distaccato da Meckel con la sua brigata alla Piana de' Greci per opporsi a Garibaldi nell'entrare a Palermo, ebbe ordine da Lanza, appena giunto a Villabate, di lasciare quella posizione e ritirarsi nel piano del Palazzo reale ov'era altra truppa accampata e che stava in ozio; perocchè Villabate era il punto strategico per difendere Palermo dalla parte del Sud, da dove si attendeano i garibaldini e le bande siciliane. Lo stesso generale Colonna pregava Lanza di mettere de' soldati nelle strade principali della città, essendo certo ed imminente lo scoppio della rivoluzione; e costui rispondeva: "Non voglio far nulla, se si rivoltano bombardo.
Il generale Marra fece leggere una lettera al Lanza scritta da un signore devoto al Re, il quale lo preveniva, e lo assicurava, che nella prossima notte sarebbe scoppiata la rivoluzione, e che Garibaldi sarebbe entrato in Palermo sull'alba del giorno seguente. Il Generalissimo Lanza dopo di aver letta quella lettera, la restituì a Marra, e gli disse freddamente: «Bombarderò» Sciagurato! Era egli ben invaso dalla bombardomanìa? Bombardare una popolosa e monumentale città senza scopo militare,mentre avea tutti i mezzi di impedire la rivolta popolare, e l'entrata di Garibaldi in Palermo, è il maximum del delitto, dell'infamia e della pazzia. Però, Lanza non era pazzo, egli sapea quel che facea: col bombardare Palermo raggiungeva lo scopo di far odiare l'innocente e tradito sovrano. Di fatti l'esecutore di quello scellerato bombardamento fu il colonnello Briganti conveniunt rebus nomina saepe suis -
il quale comandava allora il Forte di Castellammare: quello stesso Briganti, poi generale, che mentre in Calabria comandava una brigata, andava giornalmente a confabulare e pranzare con Garibaldi, e fu ucciso da' soldati non potendo costoro sopportare un traditore tanto audace.
Era questo traditore l'amico e il confidente del generalissimo Lanza, l'esecutore de' più tenebrosi delitti. Io anticipo gli avvenimenti, acciò si sappia da tutti, che Francesco II non ordinò punto il bombardamento di Palermo, e quando gli fu annunziato l'atroce e pazzo agire del generalissimo Lanza, si mostrò oltre ogni dire adirato e dolente, e disapprovò altamente quel bombardamento di già consumato. Quel giovane e pio Sovrano - che i popoli ebbero la disgrazia di non conoscere - per riparare il danno che avea sofferto quella città, invece di ordinare poi di conquistarla insanguinandola, si contentò di ritirare le truppe ed abbandonarla a Garibaldi: esempio sublime, unico nella storia de' popoli. Oh! i popoli, maledicono sempre il vinto e lo calunniano ingiustamente. Ma che Palermo intanto non ignori, come la principale anzi l'unica ragione per la quale Francesco II abbandonò a Garibaldi quasi l'intera Isola fu quella di non insanguinarla di più di quanto l'avea insanguinata furbescamente il generalissimo Lanza. Cessi dunque la meraviglia che 24 mila uomini di buonissima truppa abbandonassero una città già conquistata, e si ritirassero in sembianza di vinti sul continente napoletano.
Lanza, attese le notizie che avea ricevute, in cambio di rinforzare Porta di Termini, e l'altra vicina di S.Antonino, la sera del 26 maggio, quando Garibaldi si trovava vicino a quelle porte, richiamò la metà della truppa che le guardava. A Porta S.Antonino lasciò 260 reclute, giudicate inabili a seguire il 2° cacciatori che trovavasi con Meckel: a Porta di Termini 59 soldati del 9° di linea. È pur troppo evidente, Lanza preparava la facile entrata di Garibaldi in Palermo per la mattina del 27.
Garibaldi dopo la confabulazione tenuta al trivio della Ficuzza, importunato da' suoi amici si avviò a malincuore verso Palermo per la via di Marineo e Misilmeri. Udito che la brigata Meckel non l'inseguisse, prima di giungere a Marineo si ascose con i suoi in una foresta sotto la Ficuzza ove passò la notte.
La mattina del 26 scese a Marineo, indi si avanzò sino a Misilmeri. In questo paese fu incontrato da parecchi membri del comitato rivoluzionario di Palermo, e da un certo Ebar inglese corrispondente del magno giornale il Times,
residente pure in Palermo, il quale Eber fu poi il duce di una divisione garibaldina.
Garibaldi ad onta de' consigli di Crispi e di Turr, tuttochè si trovasse a poche miglia lontano da Palermo, non avea cuore di avventurarsi alla temeraria impresa, di cacciarsi dentro questa città. Ma i membri del comitato rivoluzionario di Palermo, e lo stesso Eber lo persuasero a compiere la cominciata opera, avendogli
descritto le posizioni che occupava la truppa, e che a Porta Termini e a quella di S.Antonino si trovassero pochissimi soldati. Forse gli rivelarono le loro relazioni con qualche duce regio, e le promesse che da costui avevano ricevute. In fine gli assicurarono che la popolazione di Palermo sarebbe tutta per lui, appena apparissero le bande garibaldine.
Si erano riunite nelle vicinanze di Misilmeri molte bande siciliane, una, condotta da La Masa era venuta da Mezzoiuso, un'altra condotta da Fuxa della Bagaria, ed altre condotte da' fratelli Mastricchi.
Garibaldi animato da tutto quello che avea inteso dal comitato rivoluzionario di Palermo, purtuttavia volle passare a rivista le bande di La Masa, di Fuxa e de' fratelli Mastricchi, e persuaso che quelle bande erano desiderose di battersi e seguirlo dovunque, si decise a buttarsi sopra Palermo la mattina seguente, giorno 27 maggio.
La notte del 26 maggio, Lanza e gli altri duci napoletani dormivano tranquillamente come ne' beati tempi di perfetta pace; la soldatesca naturalmente l'imitava. I garibaldini però vegliavano ed operavano energicamente; essi si unirono alle bande siciliane, e tutti formarono un'armata di circa 4000 uomini. Quella stesa notte del 26 si avanzarono sulla sponda destra del piccolo fiume Oreto, e si divisero in due colonne. Quando appena spuntava l'alba del 27 maggio, una colonna si slanciò per ponte dell'Ammiragliato, l'altra pel ponte delle Teste. La prima colonna assalì i soldati di porta S. Antonino, la seconda quelli di Porta di Termini.
Le reclute che guardavano Porta S.Antonino destate improvvisamente, se bene in disordine, purtuttavia fecero il loro dovere, e respinsero per più fiate gli assalitori. Il loro capitano, non so se vile o compro della setta, fingendosi ferito, con parole e grida sconfortò tutti, e li abbandonò poi per recarsi a Porta di Termini, e sconfortare con i suoi piagnistei quegli altri soldati. L'avanguardia garibaldesca era guidata da un certo Tukery inglese, che si avanzava in mezzo a' carri per assalire Porta S.Antonino: nondimeno sofferse gran danno; Tukery fu poi ucciso, e surrogato da Nino Bixio. Le reclute dopo di aver fatta una valida resistenza, abbandonate dal proprio Capitano, e sopraffatte dal numero degli assalitori, si ritirarono combattendo verso il Palazzo reale.


Entrata in Palermo dei Garibaldini.

A Porta di Termini succedeva la medesima scena con piccole differenze. Que' 59 soldati del 9° di linea, fecero pure una vigorosa resistenza, ma sempre in disordine; ed oppressi dal numero de' nemici, attaccati alle spalle da' rivoluzionari della città, furono costretti di ripiegare alla volta del Palazzo reale.
Lanza, duce supremo, Luogotenente del Re con alter ego, dormiva saporitamente, invece di di vigilare per non farsi sorprendere da un nemico audace, che già si sapeva essere alle porte di Palermo. Egli, destato dal rumore, fece capolino dalla sua ben munita stanza, e domandò con voce rauca a qualcheduno del suo stato maggiore: «Che si dice? che si fa? «E mentre facea quest'insulsa domanda, egli forse sapea meglio di tutti quello che si dicesse e si facesse in quella notte, ed in quella mattina memoranda. Sollecitato a dare i suoi ordini per respingere quel nemico che dovea acconciare per le feste, esitò, e furbescamente fece passare assai tempo per risolversi. Costretto a prendere una risoluzione per acquietare la soldatesca che gridava e strepitava, perché volea correre per dare addosso a' rivoluzionari e agli invasori, di tanti battaglioni disponibili che avea ne mandò uno solo, con quattro cannoni comandati dal capitano de Sauget: però giunsero troppo tardi. I garibaldini si erano di già intromessi nella città, riuniti ai rivoluzionari di dentro, e tutti uniti, ergeano ripari, barricate e prendevano posti ne' palazzi per fulminare la truppa senza essere né offesi né visti.
Il capitano de Sauget con i suoi quattro cannoni tirò parecchie cannonate ove non si trovavano nemici, e poi si vantava di essere stato l'unico che avesse offeso il nemico invasore; mentre né pure gli torse un capello.
Dopo che i garibaldini si erano fortificati, il Lanza, sul tardi, fece avanzare Landi con una brigata, e il Tenente colonnello Marulli col 9° di linea, il primo per i quattro cantoni della Città, il secondo per Porta Macqueda. L'eroe di Calatafimi, Landi, appena vide il nemico, come dovea prevedersi, diede indietro frettolosamente senza far tirare un colpo di fucile a' suoi soldati, lasciando scoperto e compromesso il Marulli a Porta Macqueda, il quale assaltava le barricate col suo reggimento. I garibaldini vedendosi liberi d'altri nemici diedero tutti addosso al Marulli, fulminandolo non visti da tutti i punti. Costui si difese energicamente, ma avendo poca forza, ed essendo stato ferito assieme ad altri suoi dipendenti, diede indietro e si ricoverò al Palazzo reale.
Il generale Bartolo Marra che avea il comando di quelle scaramucce fu pure costretto ritirarsi al solito porto di salute creato dal generalissimo Lanza, cioè il piano del Palazzo reale, ed il vicino piano di S.Teresa.
Quando la strada di Porta Termini fu sicura d'ogni pericolo, Garibaldi montato a cavallo, entrò da quella porta. Ecco la parte del pericolo che si scelse l'eroe de' due mondi, il duce supremo della rivoluzione cosmopolita, del quale si raccontarono, e tutt'ora si raccontano maraviglie della sua entrata in Palermo la mattina del 27 maggio del 1860.
La rivoluzione leva alla stelle i suoi duci per raccogliere sotto le sue bandiere i giovani creduli ed entusiasti, e sacrificarli poi per i suoi inqualificabili fini.
Garibaldi entrato in Palermo, fu spettatore dell'incendio di un Palazzo ove abitava un certo Mistretta, creduto delatore di polizia. Il duce rivoluzionario reputò quel vandalismo, sfogo di popolo.
Il colonnello Meckel non reputò nel medesimo modo il saccheggio della casa del rivoluzionario di Corleone, al contrario impedì e perseguitò i saccheggiatori per quanto le circostanze glielo permisero. Intanto Garibaldi è un eroe, Meckel un vandalo e peggio.
Il giorno 27 maggio ci furono per la Città parecchie scaramucce tra soldati e rivoluzionarii, ma senza scopo e risultati. Lanza invece di mettersi alla testa di tutta l'armata e rovesciarsi sugl'invasori, mandava truppa a piccoli drappelli per combattere il nemico. Egli usava questa tattica per togliere a' soldati la possibilità di vincere, e di scoraggiarli con continue ritirate.
Se poi qualche battaglione diretto bene ottenesse qualche vantaggio sopra i nemici, il Generalissimo gli mandava subito l'ordine di ritirarsi, come accadde diverse volte, e specialmente quando fu assaltato e preso il bastione di Montalto da' soldati. Quel giorno 27 maggio si pugnò alla villa Filippino, al Giardino inglese, a Ballarò, ma senza disegno e senza scopo; erano sempre gli stessi soldati che correano da un punto all'altro, il resto della truppa stava oziosa intorno al duce Lanza. Questo inqualificabile generale, non contento di tutta quella truppa che tenea ammassata ed oziosa intorno a sè, mandò l'ordine a Buonanno che comandava tre battaglioni in Monreale di ritirarsi in Palermo, già s'intende intorno al Palazzo reale. Lo stesso ordine mandò alla truppa la quale guardava la interessante posizione de' quattro venti, togliendosi la comunicazione col mare.
Lanza, dopo la rappresentazione di quelle commedie guerresche da lui bene organizzate, giudicò che la pienezza de' tempi fosse giunta: tutto avea egli operato col senno - non già con la mano - per raggiungere lo scopo suo premeditato e prediletto; per soddisfare la sua smania di bombardar Palermo, e così compromettere nell'opinione pubblica Colui che gli avea dato danari, onori e potenza. Sul tardi di quel giorno 27, segnalò al suo amico Briganti accovacciato nel Forte di Castellammare, che avesse cominciato a bombardar la città. Costui non se lo fece dire due volte, eseguì subito l'ordine dell'amico. Vano mezzo di guerra! maggiormente quando non è seguito dall'assalto della truppa alla città bombardata. Il modo come Lanza si condusse nel bombardar Palermo servì solo a far detestare ingiustamente l'innocente e tradito sovrano, a spaventare le donne ed i fanciulli innocenti, mentre i caporioni della rivolta sapeano risparmiarsi in luoghi sicuri, sapeano ove andasse a finire quel barbaro mezzo di guerra.
Briganti per dar meglio ad intendere al suo amico Lanza, com'egli eseguisse bene gli ordini di lui, e sapendolo rincantucciato ne' segreti penetrali del Palazzo reale, spesso spesso mandava qualche bomba alla volta dell'amico, la quale cadendo in mezzo a' soldati molti ne uccideva o feriva.
La flotta napoletana stava inoperosa nel porto di Palermo, ed una sola fregata si mosse più per far male a' soldati anzichè a' rivoluzionari: mentre Briganti bombardava, quella fregata si collocò dirimpetto porta Felice, e tirò così bene i suoi colpi lungo il Cassero che valse benissimo ad uccidere tre soldati, e ferirne sette nel piano del Palazzo reale. Quella disgraziata truppa non sapea più da chi guardarsi!
Garibaldi dopo di aver goduto lo sfogo del popolo, coll'incendio della casa di Mistretta, corse ad impossessarsi del Palazzo di città, detto Pretorio. Di là caccio il municipio, che disciolse, e lo ricostituì con elementi rivoluzionari. Dichiarandosi Dittatore - come già si era dichiarato a Salemi - emanò un diluvio di ordini e decreti per tutta la Sicilia. Arringò il popolaccio palermitano: nominò segretario di Stato, Crispi, già cospiratore siciliano, poi ministro di Finanze, delle quali il povero rivoluzionario avea tanto di bisogno: aprì le carceri della Vicaria, e diede la libertà a mille e cinquecento facinorosi. Lupo non mangia lupo.
Garibaldi non vedendosi seriamente molestato, ed ingrossate bene le sue bande, il 29 maggio prese l'offensiva contro i regii.




Fu sempre battuto da' soldati, ma questi si ritiravano ogni volta che il Lanza il volesse, cioè tutte le volte che battevano bene i garibaldini.
La gente pacifica di Palermo, in que' giorni era in uno stato deplorevolissimo: oltre di trovarsi in mezzo a due fuochi, era rubata ed assassinata dalle squadre, e principalmente da' facinorosi usciti dalla Vicaria: tanto che lo stesso Garibaldi decretò la pena di morte a quelli che rubassero. Vano decreto! non essendoci chi lo facesse eseguire.
Sebbene i garibaldini fossero padroni della città e tutto sembrasse loro favorevole, ciò non ostante aveano provato il valore de' soldati, e sapeano che da un momento all'altro il duce in capo Lanza potesse essere surrogato da un generale prode, e fedele al Re, e quindi tale da sospingere loro addosso circa 24 mila uomini di buona truppa. Essi che già difettavano di munizioni e di armi, come avrebbero potuto superare un attacco serio, anche col terzo delle truppe? Sapeano che Meckel con la sua brigata marciava sopra Palermo, ed aveano fatta esperienza a Parco che quel duce si battea davvero, e non era uomo da farsi trascinare alla causa della rivoluzione. Quindi le buone condizioni di Garibaldi e dei suoi erano precarie, e l'uno e gli altri stavano di mal animo.
Lanza che tutto avea calcolato, venne in soccorso de' nemici del Re. La sera del 29 maggio, essendogli stato segnalato da Castellammare che la brigata Meckel era per piombare sopra Palermo, finse di non crederlo: corse l'uffiziale telegrafico Agostino Palma, e gli fece vedere con gli occhi propri la colonna Meckel che marciava verso Palermo: ma egli fingeva sempre nulla vedere, e nulla credere: a chi lo consigliava di spingere battaglioni a sorreggere Meckel, rispondeva negativamente. Lanza riflettendo che l'arrivo della brigata Meckel gli avrebbe guastato i suoi rei disegni, trovò subito il rimedio. Dopo una confabulazione col colonnello del Genio Gonzales, si affrettò a scrivere una lettera a Garibaldi, lettera che mandò con un prigioniero sardo. Lanza, che dovea conciar per le feste
Garibaldi, lo pregava
a concedere un armistizio, e lasciar libero il passo al generale Letizia già carbonaro del 1820 per recarsi da Mundy comandante la flotta inglese, avendo scelto costui intermediario de' patti che doveano stabilirsi per la sospensione d'armi.



Garibaldi, che altro non desiderava, finse di farsi pregare, e Lanza lo pregò per la seconda volta: allora si piegò a lasciar libero il passo al Letizia, e si recò egli pure a bordo presso Mundy, ove fu stabilito, di cessare le ostilità la sera medesima di quel giorno 29, e discutere il giorno appresso i patti dell'armistizio.
Questa vergognosa condotta del Lanza, uno scrittore garibaldino la chiama colossale stupidità,
ma si dovrebbe chiamare diversamente. Di fatti quell'armistizio fu fatto la sera del 29 per legare le mani a Meckel, il quale era già arrivato con la sua brigata alle porte di Palermo.
Il Meckel appena giunto a Villabate mandò a Lanza un sergente siciliano travestito, con una lettera nella quale gli dicea, che la mattina seguente avrebbe assalito la città dalla parte di Porta di Termini e della Villa Giulia, detta la Flora.
Di quel povero sergente siciliano non si ebbe più notizia: chi sa se Lanza l'avesse fatto sparire, per evitare il cimento di confessare poi che avea ricevuta quella lettera.
Sin dal mattino del 30 tutta la brigata Meckel occupava la riva diritta del piccolo fiume Oreto. Tra Bosco comandante il 9° Cacciatori, e Morgante comandante il 2° ebbe luogo un'altra gara di onore, imperocchè tutti e due voleano marciare all'avanguardia dell'assalto di Porta di Termini, ed entrare i primi in Palermo. Voleva giustizia che si preferisse il Morgante, dapoichè Bosco era stato preferito all'impresa di prendere i cannoni ad Orsini sulle colline di Corleone. Invece il Bosco fu destinato ad investire la Flora, che rimane dalla parte del mare, coadiuvato da quattro compagnie del 2° Cacciatori. Alla Flora si erano fortificate un grandissimo numero di squadre.
Il 3° battaglione estero, quattro compagnia del 2° cacciatori, e due cannoni furono destinati allo assalto di Porta di Termini. Le quattro compagnie del 5° di linea rimasero di riserva. Tutta la forza che investì Porta di termini non oltrepassava mille e quattrocento uomini. Io fui destinato a Porta di Termini; e ne fui contentissimo, poichè sapevo che ivi la zuffa sarebbe stata più terribile, come in effetto avvenne.
Prima che si passasse il Ponte delle Teste avvenne un vivissimo scambio di fucilate con gli avamposti garibaldini, che si ritirarono facendo continuamente fuoco.
Passato il Ponte vi è una lunga e larga strada diritta, fiancheggiata allora di piccoli palazzi, la quale conduce a Porta di Termini, e di là prosiegue sempre diritta e larga fino alla piazza della Fieravecchia. Dal Ponte delle Teste sino a questa piazza corre poco più di mezzo chilometro. Quella via era tutta barricata, e le barricate erano state fatte di bellissimi mobili. Imperocchè i palazzi di quella strada furono abbandonati dagli abitatori; i garibaldini e le squadre li scassinarono, si servirono dei mobili per alzare barricate, e de' balconi di que' palazzi fecero tante fortezze con materassi di lana, con sacchi pieni di terra, in mezzo a' quali fecero le feritoie, donde poteano ferire i soldati senza essere veduti.
La truppa che assaltò Porta di Termini fu disposta in questo modo: i soldati marciavano ad uno ad uno alla distanza di due palmi, quasi radendo le mura de' Palazzi di diritta e di sinistra: quelli di diritta tiravano a' balconi di sinistra, e così viceversa. I due piccoli cannoni di montagna stavano al centro e batteano le barricate con grossa mitraglia: queste barricate aveano pure le feritoie, dietro le quali erano appiattati i garibaldini.
Descrivere tutti gli accidenti di quel sanguinoso combattimento, sarebbe andarmene troppo per le lunghe. Dirò in generale, che sul cominciare l'assalto caddero non pochi soldati tra morti e feriti, maggiormente a Porta di Termini ove le fortificazioni erano più spesse, e difese da molta gente: ivi il conflitto fu più sanguinoso. I soldati cadevano senza colpire, o vedere il nemico che li decimava. Fu a quel punto che la truppa si determinò dar fuoco a' palazzi fortificati per isnidare i rivoltosi. Questo mezzo riuscì facile a' soldati e fatale ai garibaldini: i quali se fossero usciti da quelle fortificazioni sarebbero stati uccisi, ed ove fossero rimasti sarebbero stati abbruciati. Da quel momento le sorti del combattimento cambiarono, i soldati non
furono più colpiti da invisibili nemici, e questi cessarono di far fuoco, pensarono a salvarsi, per lo che alcuni più fortunati poterono fuggire dalla parte opposta, permettendolo la peculiare costruzione de' palazzi: altri o furono vittime delle fiamme,
0furono uccisi, o fatti prigionieri.
L'artiglieria intanto si avanzava rovesciando le barricate: i guastatori erano pronti a togliere gli impedimenti per dare via al corso delle ruote sulle quali erano posati i cannoni.
Si gridò alla barbarie e peggio de' soldati, perché incendiarono que' Palazzi: ma di chi fu la colpa? de' garibaldini sicuramente. Questi in cambio di fortificarsi nelle abitazioni altrui, perché non uscirono fuori la città per attaccare in quelle pianure la brigata Meckel? poteano venire la notte precedente ad assalirci con grande vantaggio. Nessun uomo di buon senso potrebbe pretendere che i soldati si fossero fatti ammazzare da un nemico invisibile e sicuro, per la sola ragione che non pregiudicassero quelle abitazioni trasformate in terribili fortezze.
I garibaldini che si trovavano dietro la barricate, retrocedendo sempre, giunti alla Piazza della Fieravecchia si diedero a precipitosa fuga. I soldati giunti in quella Piazza, già si slanciavano ad invadere il resto della Città per la strada che conduce a' Cintorinari, dall'altra a sinistra delle Pentite, e dal vicoletto che sbocca a S. Cecilia. Non vi erano più nemici da combattere, ed altro non si sentiva che voci le quali chiedeano pietà, e pietà ottenevano poichè i soldati non incrudelivano contro coloro che abbassavano le armi.
Nella Piazza della Fieravecchia in un Palazzo a sinistra venendo da Porta di Termini, erano racchiusi più di cento soldati fatti prigionieri ne' giorni precedenti.
I garibaldini che faceano loro la guardia, appena intesero che la truppa si avanzava, si disposero a fuggire; ma i soldati prigionieri loro diedero addosso, li disarmarono, e fecero prigionieri i propri guardiani.
Ora nel punto che la vittoria sorrideva alla truppa napoletana, questa si avanzava sul resto della città senza trovar più alcuna resistenza: moltissimi paesani sventolavano bianchi lini, e gridavano: Viva il Re.
In quella si vede sbucare dalla strada delle Pentite un uomo in uniforme del 6° Reggimento di Linea, addetto al comando generale: era il Capitano Nicoletti, il gridava a' soldati; «Per ordine di Sua Eccellenza, il Luogotenente del Re, il generale Lanza, rimanete qui, poiché la rivoluzione è abbattuta e sottomessa: evitiamo gli orrori di una città presa di assalto e in breve entrerete nel resto di Palermo, ma, per ora, rimanete qui. Signori ufficiali, impedite a' soldati che si avanzino più oltre.
A questa consolante e insperata novella che ci recò il Capitano Nicoletti mandato da Lanza, tutti gli uffiziali impedirono a' soldati di avanzarsi più oltre, ed io stesso volli molto cooperarmi assieme agli uffiziali.
Il Nicoletti quando trovò il momento di parlare a solo con Meckel gli disse: «Ho detto a' soldati che la rivoluzione è sottomessa, è vero. A voi debbo comunicare che gli ordini di Sua Eccellenza, quali sono: Ier sera Sua Eccellenza il Luogotenente del Re conchiuse un armistizio con Garibaldi. Non mettendo in conto che il vostro attacco è contrario all'armistizio, sarebbe slealtà militare proseguire le ostilità. Date ordine alla truppa che si trova alla Flora, di cessare il fuoco e ritirarsi.»
Il prode e leale Meckel era per morir di dolore a quell'annunzio: credea di aver riparato il suo errore commesso di non avere inseguito Garibaldi dalla Ficuzza a Palermo; il vedersi sfuggire di mano la vittoria già riportata fu per lui un colpo di fulmine. Ma fu necessità ubbidire agli ordini del Generale in Capo. Alla Flora succedevano le stesse scene delle Fieravecchia. I rivoluzionarii erano stati snidati anche dall'Orto botanico e messi in fuga, e da ogni parte si udivano grida di Viva il Re,
e le preghiere di far cessare il fuoco di un vapore napoletano, il quale da sotto la Casino di Cotò, tirava cannonate a palla sopra i rivoltosi.
Bosco e Morgante al sentire l'ordine di Lanza, trasecolarono, e se lo fecero ripetere più volte, non credendo alle proprie orecchie.
Ecco quali sono le vittorie di Garibaldi tanto celebrate! Egli invece di battersi alla testa dei suoi volontari a Porta di Termini, se ne stava nelle bellissime camere di Palazzo Pretorio, ch'è nel centro della Città. E dirò nell'altro capitolo quello ch'egli fece all'annunzio della disfatta e fuga de' suoi volontari.

Ferdinando Beneventano Del Bosco.


(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).