lunedì 12 settembre 2011

L’invasione piemontese dello Stato Pontificio e del Regno delle Due Sicilie.



In Piemonte, a fine agosto, Cavour aveva capito che la situazione nel regno delle Due Sicilie stava per sfuggirgli di mano, l’avanzata del “nemico più fiero che ho” [Garibaldi] era stata troppo rapida, il Nizzardo era alle porte della Capitale e a Napoli non c’era stato nessuna rivolta contro il sovrano legittimo; a quel punto egli capì che doveva agire ed elaborò un piano di invasione che inizialmente prevedeva l’entrata delle truppe piemontesi nei territori del Papa e, successivamente, nel regno meridionale.
Prima di metterlo in opera, Cavour chiese il ”permesso” e la necessaria copertura a Napoleone III inviandogli, il 28 agosto a Chambery, i generali Farini e Cialdini; ad essi l’Imperatore rispose: ”Voi non siete più energici, il conte di Cavour indietreggia alla vista dello spauracchio rappresentato dai volontari legittimisti che Pio IX ha accolti sotto la sua bandiera. Credete voi dunque che la Francia intiera si tiri dietro questi disoccupati malcontenti per precipitarsi al loro soccorso? La Francia sono io; questi tali sono degli spostati l’esistenza dei quali che potrebbe onorare un governo legittimo, non può à tempi nostri che eccitare il disprezzo nel cuore delle persone oneste…..una sola cosa vi raccomando….di combattere tutti i soldati pontifici eccetto quelli che compongono la guarnigione di Roma”. Uscendo, il Farini aggiunse:”Ma per Napoli che dovrà farsi?” “Fate che Garibaldi entri colà, e voi andrete appresso[1]
Il 31 agosto Cavour comunica a Persano che “Onde impedire che la rivoluzione si estenda nel nostro regno, non havvi oramai che un mezzo solo: renderci padroni senz’indugio dell’Umbria e delle Marche….a questo scopo, ecco ciò che fu stabilito…un movimento insurrezionale scoppierà in quelle provincie dal dì 8 al 12 settembre. Represso o non represso, noi interverremo”[2] . Sentendosi le spalle coperte, Cavour, il 12 settembre, invia una nota alle cancellerie europee nella quale si rimarcava il fatto che nel Sud dell’Italia era avvenuta una “rivoluzione meravigliosa” ma che era arrivato il momento di evitare l’anarchia, per questo motivo Vittorio Emanuele si incaricava di riportare l’ordine passando prima sui possedimenti del Papa dove c’erano state delle “insurrezioni“ [in realtà quasi inesistenti e organizzate come al solito da agenti piemontesi] contro il malgoverno pontificio, lo stesso re aveva inviato il giorno 11 una lettera a Garibaldi in cui lo informava del piano di invasione per “congiungere le forze dell’Italia settentrionale e dell’Italia meridionale” …al tempo stesso [poneva] la domanda “di quante e quali delle vecchie truppe napoletane io possa disporre”……tali truppe erano tutte dietro il Volturno e a Capua, risolute a battersi per la monarchia borbonica”[3]. Scriveva Cavour all’amico Nigra ”Il Re si è deciso a marciare su Napoli per ridurre alla ragione Garibaldi e gettare a mare quel nido di rossi repubblicani e di demagoghi socialisti che si è formato intorno a lui”.[4]

                                              Napoleone III°


Nel frattempo, a Napoli, il generale Cataldo si era affrettato, il 9 settembre, a cedere i forti della città a Garibaldi ma le truppe di Castel Nuovo, del Castel dell’Ovo e del Carmine uscirono a passo cadenzato con le bandiere spiegate e, senza essere disturbate dalla popolazione, si diressero verso il Volturno per raggiungere Re Francesco; egli, libero oramai dagli ufficiali che gli avevano voltato le spalle, riorganizzò l’esercito che era ancora composto da 40 mila soldati ben equipaggiati, molti dei quali lo avevano raggiunto dalla Calabria e dalla Puglia con mezzi di fortuna ed erano ansiosi di vendicare i tradimenti dei loro superiori; chiedevano prima il fucile e poi il pane. Rimise in piedi anche l’organizzazione civile, pur essendo il regno in “stato di guerra”, come era stato proclamato l’11 settembre; il tricolore sparì e tornò la bandiera bianca con lo stemma dei Borbone, i comizi elettorali furono rimandati per causa di forza maggiore, ma la Costituzione non fu mai né abrogata né sospesa. Dal 14 settembre cominciò ad uscire il giornale ufficiale “Gazzetta di Gaeta” che fu stampato, in 29 numeri complessivi, fino agli ultimi giorni dell’assedio della città. Primo ministro e titolare anche degli Esteri e della Guerra fu nominato Francesco Casella.
Egli iniziò un’offensiva diplomatica che contestò la palese violazione del diritto internazionale da parte del regno di Sardegna che, seppur formalmente in pace con le Due Sicilie e con un ambasciatore presente a Napoli fino alla partenza del Re, aveva dato l’appoggio alla azione di Garibaldi fornendo basi logistiche e l’invio di migliaia di “volontari”; si rimarcò anche l’illegalità degli atti promulgati a Napoli dal Nizzardo e, successivamente, dei metodi usati nei plebisciti; Francesco II, con un messaggio a tutte le corti europee, sottolineò il fatto che era stato lasciato da solo a combattere la rivoluzione appoggiata dal Piemonte “Ciò stabilisce un nuovo dritto pubblico fondato sulla distruzione dè trattati e del dritto delle genti. Questa causa che io difendo non è mia soltanto, ma di tutti i sovrani, e di tutti gli stati: qui si combatte una questione di vita o di morte per gli altri stati d’Europa”.
Nel Sud, sul piano militare, le cose cominciarono a mutare: Re Francesco sembrava uscito dal cupo fatalismo dei mesi precedenti, spronava all’offensiva, con parole e proclami, le truppe del riorganizzato l’esercito, ora depurato dai comandanti traditori; di contro “dal punto di vista militare, Garibaldi doveva constatare il fallimento dei tentativi di portare sotto le sue bandiere vittoriose le forze vive delle regioni conquistate. Per un uomo d’azione, quale egli era, il confronto tra l’apparenza del successo pieno e la realtà, assai meno brillante, doveva costituire una grossa delusione”[5]. Cominciarono così ad arrivare le prime vittorie dell’esercito meridionale, malgrado Garibaldi avesse annunciato la prossima presa della fortezza di Capua, i ripetuti tentativi fallirono;  il 21 settembre, a Caiazzo, le truppe borboniche sconfissero i “garibaldesi” (come venivano chiamati) causando loro quasi 350 morti e 300 tra prigionieri e feriti; a dar loro man forte si erano uniti popolani e contadini che avevano cominciato ad insorgere contro quelli che essi consideravano degli invasori. Erano anche presenti al combattimento, e valorosamente, anche due fratellastri del Re, il conte di Caserta e di Trani; era rimontato a cavallo anche l’anziano maresciallo Rossaroll, collocato a riposo, che rispolverò la vecchia divisa e si gettò nella mischia rimanendo anche ferito. La civiltà dei combattenti meridionali si manifestò con il salvataggio di numerosi garibaldini che si erano dati alla fuga e rischiavano di  annegare nel Volturno, uno di loro venne anche decorato per aver salvato i nemici. L’effetto psicologico di tale vittoria fu enorme e sembrava essere il prologo della tanto desiderata riscossa; sull’onda di questi successi il comandante in capo Ritucci, invece di sferrare l’azione decisiva e puntare risolutamente su Napoli, fece trascorrere inutilmente preziosissimi giorni per elaborare un piano di attacco finale, frapponendo anche molti dubbi sulla riuscita dell’offensiva; le truppe, al contrario, non chiedevano altro che continuare le operazioni per vendicarsi dei smacchi subiti nei mesi precedenti, dovuti in gran parte al tradimento e\o l’incapacità dei loro capi; il loro morale era altissimo, avevano capito, da Caiazzo, che le camicie rosse erano battibili, ma Ritucci, uomo retto, però eccessivamente prudente, non colse il momento e si attardò nei preparativi di battaglia.
Alla fine presentò un piano che prevedeva un’azione frontale di sfondamento a ranghi compatti ma il Re gliene contrappose un altro (probabilmente elaborato dal generale francese Lamoriciere) che invece divideva l’armata meridionale in diverse colonne le quali dovevano operare una manovra di accerchiamento a tenaglia dei garibaldini, per tagliare loro la via di ritirata verso la Capitale e annientarli completamente; era un piano ardito che presupponeva la perfetta coordinazione di armate che, pero’, solo con estrema difficoltà (visti i mezzi di comunicazione dell’epoca) potevano scambiarsi informazioni sull’andamento dei rispettivi scontri. Il Re montò finalmente a cavallo e si battè vicino ai suoi uomini nella battaglia del 1° ottobre, vicino al fiume Volturno. Si fronteggiavano circa 24 mila uomini per parte, con la differenza che Garibaldi attinse a tutte le forze disponibili, compresi alcuni effettivi dell’esercito piemontese, mentre l’esercito meridionale lasciò inspiegabilmente inoperosi almeno 17 mila uomini. Le truppe borboniche, uscite da Capua alle due del mattino, una volta schieratesi, partirono all’attacco all’alba gridando “viva ‘o Rre” e avanzarono sconfiggendo, nella prima parte della contesa, le camicie rosse.
Le truppe erano divise in 4 colonne, ognuna delle quali era diretta su un fronte specifico (i paesi di S. Angelo, S. Maria, Castelmorrone e Maddaloni), una volta vinti i rispettivi scontri, dovevano tutte convergere su Caserta per annientare il nemico. Garibaldi, che era a conoscenza del piano di attacco, rischiò di essere ucciso nei pressi di S.Angelo, il cocchiere ed il cavallo della sua carrozza furono abbattuti e fu costretto a balzare a terra; la gran quantità di morti e feriti trasportati a Napoli col treno, carrozze e carri fece ritenere fondate le voci che Francesco II, oramai vittorioso, stesse marciando sulla sua Capitale tanto che fu mobilitata la Guardia Nazionale nel timore che la popolazione realista insorgesse.
Garibaldi riuscì comunque, nel corso della giornata, a mantenere le posizioni che i suoi uomini avevano all’inizio del combattimento, questo grazie sopratutto all’azione delle truppe di riserva gettate velocemente nel combattimento quando l’esito della battaglia era in bilico; il trasferimento rapido da Caserta sullo scenario degli scontri, fu possibile grazie all’uso della linea ferroviaria costruita dai Borbone! Garibaldi nelle sue Memorie dichiarò che “Chi decise la battaglia furono le riserve giunte sul campo verso le tre del pomeriggio. Se esse fossero state trattenute da un Corpo nemico, la giornata risultava per lo meno indecisa. Ciò prova essere state le disposizioni dei generali borbonici non tanto cattive[6]



 
 
 
La partita decisiva della battaglia fu, in sostanza, decisa dal mancato coordinamento dei due gruppi che dovevano muoversi sul fronte sinistro: quello del generale Von Mechel e quello di Ruiz de Ballesteros. Il primo, che doveva puntare su Maddaloni e poi su Caserta dove era il quartier generale garibaldino, si batté valorosamente perdendo anche l’intrepido figlio del comandante, ma non riuscì a mantenere le posizioni conquistate perché, mentre alle camicie rosse arrivavano continui rinforzi dalle truppe di riserva di Caserta, nessun appoggio proveniva dal secondo gruppo meridionale che agiva su un percorso quasi parallelo. Fu mandato il maggiore Delli Franci a cercare aiuto in direzione della colonna di Ruiz ma non la trovò, a causa della sua incredibile lentezza di avanzamento, a quel punto Von Mechel ordinò la ritirata che si svolse con molto ordine. Egli fu molto critico sull’operato del Ruiz e sulla sua mancata convergenza verso il teatro degli scontri, ma molti lo accusano proprio di aver ceduto il comando di parte delle sue truppe al colonnello palermitano invece di tenerle compatte ai propri ordini.
In questo modo Ruiz si mosse in maniera del tutto indipendente, una parte delle sue truppe conquistò Castelmorrone e proseguì verso Caserta, ma il comandante, una volta avuta la notizia, all’alba del 2 ottobre, che Von Mechel si era ritirato, ordino’, anch’egli, il ripiegamento. La sua decisione fu respinta dal contingente dei soldati che era già nei pressi di Caserta vecchia, essi si rifiutarono di indietreggiare, temendo il ripetersi dei tradimenti dei superiori che tanto spesso erano accaduti nella prima parte dell’invasione e costrinsero il proprio Comandante, maggiore Nicoletti, ad avanzare. Il maggiore Coda cominciò a urlare a Ruiz de Ballesteros che non si poteva abbandonare quei valorosi, anche i soldati della retroguardia volevano soccorrere i loro compagni e minacciarono di morte il Ruiz che, a stento, riuscì a farsi ubbidire mentre i 2000 coraggiosi dell’avanguardia furono accerchiati e fatti prigionieri dai garibaldini e dai bersaglieri piemontesi [che intervenivano contro uno Stato col quale ufficialmente si era in pace]. Giudicato, alla fine degli avvenimenti, dal Consiglio di Guerra, fu assolto e addirittura promosso perché non responsabile della cattura di Nicoletti e dei suoi uomini e per aver salvato, con la ritirata, l’artiglieria.
L’esercito meridionale, alla fine di tutti gli scontri sui vari fronti, tornò verso le posizioni di partenza perché non era riuscito a sfondare completamente, il re Francesco II era accorso sul campo di battaglia nei pressi del paese di S. Maria e restò sbigottito per il pessimo comportamento del corpo scelto della Guardia reale, più adatto alle parate che al combattimento; chiamato a sferrare l’attacco, si sbandò subito dopo essere stato fatto segno dai primi colpi d’arma dei garibaldini e non si rianimò neanche quando il Re in persona si gettò nella mischia tra i suoi uomini. Bilancio finale: tra i garibaldini 506 morti, 1528 feriti e 1389 prigionieri e dispersi; nell’esercito meridionale 308 morti, 820 feriti e 2507 prigionieri e dispersi dei quali, però, più di 2000 appartenevano alla brigata Ruiz. Malgrado la “vittoria difensiva”, lo stato d’animo dei garibaldini era di scoraggiamento per via delle numerosissime perdite e della consapevolezza di non poter reggere ad un ulteriore possibile attacco dei borbonici, per questo i comandanti in camicia rossa inviarono immediatamente dei pressanti appelli a Vittorio Emanuele e a Cavour perchè mandassero truppe in loro aiuto, i loro nemici erano, infatti, ancora superiori per uomini ed armamento, in più erano ancora in possesso delle fortezze di Capua e Gaeta. Per fortuna di Garibaldi i contrasti tra i componenti dello Stato Maggiore meridionale ed il Re continuavano paralizzando ogni ulteriore iniziativa; il sovrano, informato sulle precarie condizioni dei garibaldini, spronava i suoi generali ad un nuovo attacco risolutivo già per il 2 ottobre (il giorno successivo alla battaglia) ma le opinioni erano diverse: alcuni facevano notare che le truppe erano stanche e non pronte ad un nuovo combattimento, altri che l’esercito piemontese aveva, già da venti giorni, invaso le Marche e l’Umbria e paventavano un attacco alle spalle, altri ancora, i più ardimentosi, sostenevano che si doveva giocare il tutto per tutto e che proprio riprendendo la Capitale si sarebbe scoraggiato un’eventuale invasione delle Due Sicilie. Il Re invitò il generale Ritucci, personalmente (14 ottobre) e tramite un appello del consiglio di Stato (19 ottobre) a riprendere Napoli, rassicurato anche dagli esiti di scaramucce avvenute dopo la battaglia del Volturno e che avevano visto i soldati borbonici sempre vincitori, ma egli rispose negativamente. Si perse, così, del tempo prezioso e arrivarono le prime notizie dell’entrata delle truppe piemontesi nel Sud. I circa 40mila uomini del corpo di invasione piemontese avevano, in venti giorni, sconfitto i pontifici, che erano in numero quattro volte inferiore; questi ultimi erano impreparati all’invasione sabauda, l’ambiguo Napoleone III, mentre tramava alle loro spalle, li aveva rassicurati, tramite il proprio ambasciatore a Roma, che mai truppe sabaude avrebbero osato entrare dello Stato della Chiesa; era, quindi, convinzione generale che il pericolo potesse semmai venire da Sud da dove Garibaldi, già entrato in Napoli, poteva mettere in atto il suo piano dichiarato di conquistare Roma ed offrire al re Savoia la corona d’Italia.
Il 1° ottobre Cavour cominciò ad inviare una pioggia di dispacci invitando i generali piemontesi a “dirigere le truppe verso la frontiera [delle Due Sicilie]…non pensate alla diplomazia, è oramai rassegnata a vedere il re di Napoli buttato a mare…bisogna marciare su Napoli presto…l’Inghilterra apertamente e la Francia sottomano, ci incitano a finirla…avanti avanti e viva Vittorio Emanuele re d’Italia[7]; e una lettera al suo amico Nigra:“Il Re si è deciso di marciare su Napoli per ridurre alla ragione Garibaldi e gettare a mare quel nido di rossi repubblicani e di demagoghi socialisti che si è formato intorno a lui[8] . Vittorio Emanuele, via mare, arrivò il 3 ottobre ad Ancona e il 12 ottobre le truppe piemontesi varcarono il fiume Tronto che segnava il confine tra lo Stato della Chiesa e le Due Sicilie, invadevano quindi, senza nessuna dichiarazione di guerra, uno stato indipendente. Malgrado tutti gli avvenimenti già accaduti, solo cinque giorni prima (il 7 ottobre) era stato richiamato da Torino l’ambasciatore delle Due Sicilie e solo per protesta contro una nota di Cavour nella quale si affermava che Francesco II , lasciando Napoli, aveva abdicato “di fatto”.
Erano intanto cominciati, in tutto il meridione continentale, i primi focolai di una rivolta popolare, che proseguì per 10 anni e che fu sbrigativamente etichettata con il nome di “brigantaggio”, gli Abruzzi e il Molise erano insorti per primi contro gli unitari; Garibaldi nel tentativo di riconquistare Isernia, inviò uno dei suoi principali luogotenenti, Francesco Nullo, le cui truppe furono fatte letteralmente a pezzi, il 17 ottobre, con almeno 500 morti molti dei quali linciati dalla popolazione con fucili da caccia, attrezzi agricoli o addirittura pietre “Tornano gli avanzi della colonna Nullo; non si regge ai loro racconti; non sanno dire che morti, morti, morti! Par loro d’avere ancora intorno l’orgia di villani, di soldati, di frati che uccidevano al grido di Viva Francesco secondo e Viva Maria…dove Nullo combatteva, e i nostri morivano qua, là, a gruppi, da soli, sbigottiti dalle grida selvagge, dalla furia delle donne cagne scatenate, più che dalla moltitudine degli armati…Ah! quel Sannio, quel Sannio!…mi suonò nella memoria il nome delle Forche Caudine[9] . In conseguenza di tutti questi avvenimenti, Garibaldi si affrettò a mandare dei dispacci ai suoi uomini presenti in Abruzzo, invitandoli ad accogliere i piemontesi “come fratelli”, in cuor suo cominciava a maturare l’amara convinzione che i progetti di continuare la sua impresa fino a Roma e Venezia, per consegnarle a Vittorio Emanuele, erano irrealizzabili in quel momento e che, anzi, solo il re sabaudo poteva salvarlo dalla reazione militare e civile che montava nel regno del Sud. L’esercito sabaudo aveva la litoranea adriatica spianata dalla resa del comandante borbonico della fortezza di Pescara, Luigi de Benedictis, colluso coi piemontesi; il 20 ottobre avvenne il primo scontro con un piccolo distaccamento dell’esercito meridionale, al passo del Macerone. Qui si dimostrò l’inettitudine del comandante borbonico Douglas Scotti il quale, pur avendo avuto notizia dai contadini del luogo dell’arrivo di truppe sabaude, non vi credette e omise di fare ricognizioni sul terreno dove marciavano i suoi uomini; essi si trovarono improvvisamente davanti il nemico che aveva accortamente occupato le alture sovrastanti; arresosi, fu spedito ai campi di prigionia del Nord scampando per miracolo al linciaggio nella città di Sulmona. Il 21 ottobre, Lord Palmerston si congratulava per la vittoria con l’ambasciatore piemontese a Londra, Emanuele d’Azeglio, assicurandogli nel contempo che l’Austria non si sarebbe mossa a soccorrere le Due Sicilie invadendo la Lombardia (cosa temutissima da Cavour).