giovedì 22 settembre 2011

1848: il fallimento delle ipotesi federali e di quella centralistica repubblicana.

                              Carlo Alberto di Savoia-Carignano "il Re Giacobino"


La storiografia ufficiale ha bollato Ferdinando II come un re insensibile al richiamo del principio di nazionalità italiana, ma la cosa è più complessa di quello che può sembrare e, per approfondire il giudizio, è indispensabile rivedere gli avvenimenti dall’inizio. Infatti, prima che naufragasse definitivamente il progetto federale, Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, era stato più volte sollecitato ad accettare la presidenza di un’ipotetica Lega degli Stati Italiani [1] e già  nel 1831 “i liberali italiani, riuniti in congresso a Bologna, decidevano di offrire al Re di Napoli la Corona d’Italia”[2] perché lo riconoscevano come il sovrano italiano più aperto verso i loro ideali. Nel 1832, Ferdinando II propose un accordo per ben due volte, in primavera e in inverno, al Regno di Sardegna, prima di mutua assistenza e poi allo scopo di abolire ogni influenza straniera in Italia; il governo piemontese si rifiutò [3] anche perché il 23 luglio del 1831 aveva stipulato con l’Austria un trattato difensivo e questo gli bastava per sentirsi al sicuro contro eventuali attacchi francesi; questa proposta del re meridionale fu interpretata a Vienna come una mossa antiaustriaca tesa a liberare la Penisola dal dominio asburgico e provocò le ire di Metternich. Ferdinando II ci riprovò l’anno successivo: “nel novembre del 1833,  tramite il proprio ambasciatore a Roma, conte Ludorf, egli invitava il papa Gregorio XVI a farsi promotore di una Lega difensiva e offensiva fra i vari governi della penisola“ [4], ma l’invito non fu accolto; persino il mazziniano Attilio Bandiera, autore nel 1844, col fratello e altri, di un tentativo insurrezionale unitario, prima di morire, scrisse una lettera a Ferdinando II esplicitando la sua fede repubblicana ma anche la sua disponibilità a seguirlo nel caso volesse diventare il Sovrano costituzionale di tutta l’Italia.

                                  Attilio Bandiera (sovversivo e disertore).
 
Nel 1846 saliva al soglio di Pietro papa Pio IX, sulla cui persona si catalizzarono le attenzioni di quanti vedevano la possibilità di mettere in pratica il  progetto monarchico federale di Gioberti, questo perchè i  primi atti del pontefice facevano intravedere una sua tendenza liberale che in realtà era minore di quanto si pensasse.
L’Austria, dal canto suo, ribadiva, in maniera forte, la sua egemonia su gran parte dell’Italia: nel 1847 (il 24 aprile) ammonì, con una nota diplomatica (inviata successivamente, per conoscenza, anche a Carlo Alberto del Piemonte) il Granduca di Toscana a non concedere riforme; il 17 luglio, data del primo anniversario della concessione dell’amnistia da parte di papa Pio IX, occupò Ferrara; la cosa era formalmente legittima, perché prevista dall’articolo 103 del trattato di Vienna, ma è chiaro che era un atto di rilevanza politica come lo erano le due note inviate il 2 agosto alle potenze firmatarie dei trattati del 1815 in cui si denunciavano i fermenti liberali in Italia. In questo gioco di supremazia politica si innestò l’Inghilterra che mandò in missione, in autunno, presso le Corti italiane, Lord Minto per intimorire l’Austria e farsi garante dell’appoggio inglese a tentativi di riforme liberali e dei principi di nazionalità italiani. La risposta degli Asburgo fu l’occupazione militare dei ducati di Modena e Parma, stringendo così da vicino la Toscana e lo Stato della Chiesa.
Ma già ad agosto , papa Pio IX, sull’onda delle idee federaliste del Gioberti espresse nel libro “Il Primato morale e civile degli italiani”, aveva preso l’iniziativa, cominciando a sondare l’adesione d’alcuni sovrani italiani al progetto di una “lega doganale“, sulla falsariga di quella realizzata l’11 maggio 1833 tra i venticinque stati tedeschi (il Zollverein); a novembre fu firmata una bozza d’intesa tra Roma, Firenze e Torino e ci furono contatti con Napoli e Modena per un allargamento della stessa.
Il momento cruciale per mettere alla prova i progetti di una unione federale italiana avvenne nell’anno 1848: il 13 marzo, a Vienna, scoppiò un’insurrezione liberale che chiedeva la Costituzione; appena giunta la notizia, il 17 insorge Venezia e poi, dal 18 al 22 marzo [le Cinque giornate] Milano; i borghesi milanesi erano esasperati dagli austriaci i quali mortificavano le loro attività economiche, rivolte per lo più verso l’Italia, mentre Vienna le voleva subordinate a quelle del resto dell’impero multinazionale asburgico, si arrivò addirittura al rifiuto di prolungare oltre Pavia la rete ferroviaria. I soldati del comandante Radetzky furono costretti ad abbandonare Milano e i rivoltosi mandarono dei messaggeri al re piemontese Carlo Alberto sollecitando un suo aiuto: il 24 marzo 1848 (avuta notizia del ritiro del maresciallo austriaco) il Piemonte dichiarò guerra all’Austria (la cosiddetta prima guerra d’indipendenza) dopo aver fornito, in tutta fretta, le sue truppe di vessilli tricolori con lo scudo dei Savoia al centro, visto che la bandiera azzurra sabauda era malvista “e per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana”[5]. Il 26 marzo il ministro degli Esteri delle Due Sicilie sollecitò la convocazione di un Congresso a Roma, sotto l’egida del papa, in appoggio al progetto toscano di una “lega politica” detta italica. Carlo Alberto, a sua volta, manda in missione il conte Rignon il quale si reca prima dal Papa e poi da Ferdinando II per sollecitare un aiuto militare; malgrado in Sicilia fosse in atto da gennaio una grave rivolta indipendentistica.

Johann Radetzky

Il 7 aprile Ferdinando II dichiarò guerra all’Austria e stabilì di inviare al nord un contingente di ben 16mila uomini (di cui 3 mila volontari) [6] al comando del generale Guglielmo Pepe; il 20 aprile, col richiamo dei rispettivi ambasciatori, la rottura tra Due Sicilie e Austria era completa. Nell’occasione Ferdinando II emanò un proclama: “Noi consideriamo com’esistente di fatto la Lega Italiana, dacché l’universale consenso dè Prìncipi e dè popoli della Penisola ce la fa riguardare come già conchiusa, essendo prossimo a riunirsi in Roma il Congresso che Noi fummo i primi a proporre; e siamo per essere i primi a mandarvi i rappresentanti di questa parte della gran famiglia italiana [il 4 aprile erano stati già designati e l’11 si stabilì che essi aderissero comunque al progetto di lega doganale] … le sorti della comune patria vanno a decidersi sui piani di Lombardia ...unione, abnegazione, fermezza e l’indipendenza della nostra bellissima Italia sarà conseguita. Tacciano davanti a tanto scopo le meno nobili passioni e 24 milioni di italiani avranno una patria potente, un comune ricchissimo patrimonio di gloria, e una nazionalità rispettata che peserà in Europa”[7]. Il granduca di Toscana Leopoldo II, per suo conto, aveva già mobilitato 3mila regolari ai quali si erano aggiunti altrettanti volontari, dallo Stato della Chiesa partirono 7mila regolari e 10mila volontari; invece i duchi di Modena, Parma e Piacenza fuggirono e le giunte cittadine si pronunciarono per una fusione col Piemonte; a Venezia Daniele Manin e Niccolò Tommaseo proclamarono la repubblica e il distacco da Vienna.
Nonostante la mobilitazione alla guerra, da parte degli altri stati italiani, fosse acquisita, Carlo Alberto fece fallire il progetto di federazione politica italiana, si limitò infatti a proporre, ai rappresentanti diplomatici a Torino degli altri stati italiani, che si riunissero nella sua capitale i delegati militari di Piemonte, Toscana, Stato della Chiesa e Regno delle Due Sicilie per discutere i particolari delle operazioni contro l’Austria. Questo intendimento fu riferito dal cardinale Antonelli agli inviati delle Due Sicilie, giunti il 18 aprile a Roma per il Congresso della costituenda Lega politica; essi rimasero di sasso perchè l’adesione al conflitto contro gli Asburgo era già acquisita, le truppe meridionali erano pronte e  la parte migliore della flotta meridionale si era diretta nel mar Adriatico per unirsi a quella piemontese contro l’austriaca.  Non va sottaciuto il fatto che i siciliani “dai forti di Messina spararono contro le navi di Ferdinando II che si dirigevano in Adriatico per operare, congiuntamente con la flotta sarda, contro la marina austriaca. Era la riprova che per la Sicilia, il nemico ereditario era Napoli e non Vienna”[8].
Pio IX dichiarò: “Io non solo approvo la Lega, ma la riconosco necessaria; per questo ho invitato pertanto i sovrani di Napoli, di Toscana e di Sardegna a concluderla; disgraziatamente il Governo di Torino si mostra restio”[9]. I delegati piemontesi non arrivarono mai a Roma, il loro re aveva gettato la maschera, il progetto monarchico-federale doveva essere sepolto perchè egli aveva ambizioni diverse, voleva diventare l’unico Re d’Italia fedele emulo di quello che aveva affermato il suo antenato Emanuele Filiberto:“L’Italia? È un carciofo di cui i Savoia mangeranno una foglia alla volta”. Di opinione esattamente opposta il re Ferdinando II, il quale, come riporta lo storico De Cesare, non certo sospetto di simpatie per i Borbone, dichiarò nel letto di morte: “Mi è stata offerta la corona d’Italia, ma non ho voluto accettarla; se io l’avessi accettata, ora soffrirei il rimorso di aver leso i diritti dei sovrani e specialmente i diritti del Sommo Pontefice”[10].
Il 29 aprile il Papa si disimpegnò dall’adesione alla guerra federale, rimarcando la preminenza del suo magistero spirituale, respinse l’idea di mettersi a capo di una federazione politica italiana, contemporaneamente mandò un messaggio all’Austria invitandola a rientrare nei suoi “naturali confini”: fu il colpo di grazia al progetto monarchico-federale a guida papale propugnato da Gioberti. Dopo giorni di inutile attesa, il 4 maggio, vista la sospensione delle trattative per la lega politica, la delegazione meridionale si ritirava e nello stesso giorno il generale Pepe si imbarcò sulla corvetta a vapore Stromboli, raggiunse Ancona l’8 maggio e si diresse verso i campi di battaglia del Nord; era uno dei pochi ad esserne entusiasta, non lo erano nè i suoi ufficiali sottoposti, nè tantomeno i soldati semplici perchè “come scrisse Giuseppe Paladino: “Nel Sud non erano popolari nè la guerra, nè il nazionalismo, nè l’indipendenza [italiana si intende, perché il popolo meridionale già si sentiva pienamente tale non essendo minacciato dall’Austria]”, la guerra voleva dire nuove imposte e la partenza degli uomini che procuravano il pane”[11]
Dopo l’insurrezione antimonarchica napoletana del 15 maggio (già descritta nei capitoli precedenti) Ferdinando II ordinò, il 22 maggio, al contingente militare meridionale di terra e di mare di rientrare in patria, anche perché molto preoccupato della contemporanea rivolta indipendentista siciliana e di altri moti liberali in corso in Calabria. Per questo gesto  fu molto criticato dai liberali  ma dobbiamo osservare due cose: non c’era nessun patto scritto tra le Due Sicilie e il Piemonte, per cui, in caso di sconfitta dei subalpini, l’Austria avrebbe potuto invadere il Sud; in caso invece di vittoria comune, nessun beneficio si sarebbe riversato sul regno meridionale che, in definitiva, ci avrebbe rimesso uomini e denari in tutte e due le eventualità; in più il Re si trovava a dover contemporaneamente domare una gravissima insurrezione che minacciava di fargli perdere una parte importante del regno quale era la Sicilia ed egli sospettava che i liberali si nascondessero dietro gli ideali unitari allo scopo di favorire la secessione siciliana; secondo lui la partenza verso il Nord delle forze di terra e di mare faceva parte di un piano di destabilizzazione interna che avrebbe potuto portare alla caduta del regno, tanto è vero che, subito dopo la partenza erano avvenuti i luttuosissimi fatti del 15 maggio.
Ma le operazioni al fronte erano in pieno svolgimento e i soldati meridionali contribuirono, in maniera decisiva alle vittoriose battaglie di Curtatone e Montanara, del 29 maggio, e di Goito del 30, malgrado fossero in netta inferiorità numerica (“si erano battute con un coraggio da leone”, scrisse Radetzky nelle sue memorie); stranamente, però, sull’obelisco eretto nei luoghi degli scontri i loro nomi non compaiono assieme a quelli dei citati soldati toscani. Il bellicoso generale napoletano Guglielmo Pepe, ricevuto l’ordine di ritirarsi da parte di Ferdinando II, rifiutò di abbandonare la partita e rimase al fronte con una piccolissima parte delle truppe che lo seguirono, disubbidendo agli ordini del sovrano; fu nominato, da Daniele Manin, comandante in capo delle truppe di terra della neonata repubblica di Venezia, anche altri ufficiali meridionali come Cesare Rossarol, Alessandro Poerio, Enrico Cosenz, Carlo e Luigi Mezzacapo restarono al fronte e si coprirono di imperitura gloria. I soldati meridionali  furono, invece, definiti indesiderati da Carlo Alberto il quale dichiarò che avrebbe fatto “da sé e solo da sé”. Di parere opposto i cittadini di Goito che nel loro “manifesto di commiato” dichiararono: “Prodi napoletani del 10° di linea Abruzzo! Voi che appena arrivati vi uniste a noi con fratellevole simpatia, voi che per tutto il tempo che abbiamo passato insieme vi siete distinti per una condotta esemplare, voi che la memoranda giornata del 30 maggio pugnaste così valorosamente nella battaglia combattuta alle soglie del nostro paese e noi dall’alto delle case vi abbiamo veduti e ammirati, accettate i ringraziamenti degli abitanti di Goito, riconoscenti…” oppure per citare il saluto dei commilitoni toscani che avevano combattuto a Montanara: “Vi abbiamo amati come fratelli negli accampamenti, vi abbiamo ammirati come prodi soldati sul campo di battaglia. Siete chiamati in Patria e noi sentiamo la forza del vostro dovere”[12] . Nel frattempo il 29 maggio si era svolto un plebiscito per l’adesione “condizionata” della Lombardia al Piemonte (561mila voti favorevoli e 681 contrari) che doveva essere confermato da una Assemblea Costituente da eleggere in un prossimo futuro.
L’11 giugno ci fu la sconfitta di Vicenza del contingente pontificio, agli ordini di Durando; scrisse Pellegrino Rossi:” Io dico solo che chiunque…sia l’autore [degli avvenimenti del 15 maggio] si fece colpevole di un enorme delitto, avendo quei moti fermato le armi napoletane che già toccavano le sponde del Po. Indi l’indebolimento dell’esercito (non veneto) posto a custodia di Venezia, indi l’audace rivolgersi di Radetzky, e la gloriosa, ma infelice giornata di Vicenza, indi i pericoli gravissimi onde per quella vittoria austriaca è minacciata l’ Italia” e aggiunge Ranalli”se il moto di Napoli…fosse stato di altri pochi giorni indugiato, forse non sarebbe sì alle cose della guerra funesta; avendo già il generale Pepe ricevuto ordini da Carlo Alberto di passare nel paese veneto….e con un esercito di più di ventimila uomini, e con buona artiglieria, non solo avrebbe potuto sostenere Vicenza, ma dare l’appoggio al re, da indurlo forse a passare l’Adige. Tanto può il caso ne’ destini delle nazioni”[13].
Il contingente navale meridionale era agli ordini del retro ammiraglio Raffaele de Cosa, egli, come già detto, aveva ricevuto un primo ordine del sovrano ma lo aveva ignorato, rispondendo al ministro segretario di stato della Marina che “essere mio capitale dovere, come buon cittadino e onesto militare…di rammentare che l’inviato soccorso di truppe e della flotta non fu che un solo ardentissimo voto disinteressato del Re e di otto milioni di generosi napoletani, che rispondevano così al voto di altrettanti fratelli italiani e che quindi l’ordinata ritirata, nei momenti più imperiosi, avrebbe ricoperto il nome napoletano di taccia obbobriosissima e ridotto la reduce milizia lo scherno di tutti e in particolare dei loro medesimi cittadini”[14]; successivamente il mattino del giorno 11 giugno si vide recapitare un secondo ordine perentorio di rientro in Patria, mentre la marina era impegnata nel blocco navale di Trieste, che era il maggior porto austriaco, con la disposizione reale della sua sostituzione al comando in caso di persistente rifiuto. “Soltanto una minoranza degli ufficiali della Marina napoletani nutriva sentimenti liberali, mentrea la più parte degli stati Maggiori e la quasi totalità degli equipaggi erano fedeli al sovrano. Un’eventuale ulteriore disubbidienza del de Cosa, sull’esempio di quanto aveva fatto il Generale Guglielmo Pepe, non avrebbe avuto seguito, provocando anzi una reazione contraria. Al vecchio ammiaglio non restò altra scelta che piegarsi al volere di Ferdinando II e di dare l’ordine di partenza. Nella notte del 12 giugno lasciarono il golfo di Trieste ”[15]

Guglielmo Pepe.

Ma la guerra continuava, gli austriaci ripresero in mano il comando delle operazioni e così seguì la sconfitta piemontese di Custoza (23 luglio). Carlo Alberto si ritirò a Milano dove fu assediato dai milanesi nel palazzo in cui soggiornava, fatto segno di grida “Traditore!” e colpi d’arma da fuoco, per cui, mestamente e protetto dall’oscurità della notte, ritornò a Torino. Fu siglato un armistizio nel quale, però, non si faceva nessun cenno al Granducato di Toscana, i cui uomini avevano combattuto fino all’ultimo con i piemontesi e la cui integrità territoriale era quindi in balia dell’Austria vincitrice, questa fu un’ulteriore riprova che Carlo Alberto considerava questo primo conflitto contro lo straniero solo come una guerra dinastica, gli altri italiani servivano solo per i suoi scopi egoistici. Radetzky rientrò a Milano accolto da grida di “Evviva” della festante popolazione; l’anno successivo, alla ripresa delle ostilità, ci fu la definitiva sconfitta piemontese di Novara (3 marzo 1849). Scrisse Gramsci nell’opera “Il Risorgimento”: “La politica incerta, ambigua, timida e nello stesso tempo avventata dei partiti di destra piemontesi fu la cagione della sconfitta; essi furono di una astuzia meschina, essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri stati Italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non una confederazione italiana; essi non favorirono ma osteggiarono il movimento dei volontari…pensando di poter vincere gli Austriaci con le sole forze regolari piemontesi [e non si capisce come potessero avere una tale presunzione], o avrebbero voluti essere aiutati a titolo gratuito [e anche qui non si capisce come politici seri potessero pretendere un tale assurdo]“[16]; gli avvenimenti del 1848 causarono, quindi, il fallimento dell’ ipotesi monarchico-federalista del Gioberti.

Vincenzo Gioberti.


La prima guerra di indipendenza fu l’unica che riuscì a creare la partecipazione fattiva, pur tra mille perplessità e diffidenze, di tutte le principali realtà statali italiane; il suo fallimento fece perdere, per sempre, l’opportunità di un’unità nazionale che garantisse, allo stesso tempo, le secolari autonomie delle realtà statali italiane: fu un fatto molto grave e la causa principale della “mala unità” a guida piemontese che le soppresse con la forza.
Le cause principali del fallimento vanno ascritte, in primis, all’egoismo del re piemontese e, contemporaneamente, alla rivolta antimonarchica napoletana del 15 maggio che impedì lo sviluppo di istituzioni rapresentative nel Sud che, per primo, le aveva ricevute. La storiografia ufficiale ha, invece, messo in secondo piano la furbizia e l’opportunismo di Carlo Alberto, bollando Ferdinando II come il principale responsabile della disfatta. Questo, a noi, sembra ingeneroso e non avvalorato dai fatti, che abbiamo già narrati: la sua dichiarazione di guerra all’Austria, l’adesione alla lega politica italiana con l’invio dei delegati meridionali a Roma, il tentativo reale del 15 maggio 1848 di mediare con i rivoltosi del neonato Parlamento meridionale, pur di far partire l’esperimento costituzionale. Ci si deve chiedere cosa altro avrebbe fatto un qualsiasi sovrano, messo nell’angolo dalle barricate erette nella sua Capitale e, contemporaneamente, dalla rivolta indipendentistica di una parte dei suoi domini (la Sicilia, in questo caso). Ci si deve anche chiedere, cosa sarebbe potuto accadere senza le meschinità piemontesi e l’irresponsabilità dei liberali meridionali, a noi sembra ovvio che che la lega politica italiana  si sarebbe consolidata, anche in virtù di una probabilissima vittoria militare sull’Austria degli eserciti e delle marine federate italiane, generando uno stato nazionale unitario che avrebbe, nel tempo che necessitava, maturato una vera coscienza nazionale popolare, che andasse al di là del pensiero di pochi . Ma queste sono solo congetture di nessun valore storico.
Fallita l’ipotesi monarchico federalista, restavano teoricamente in campo le due ipotesi repubblicane, quella centralistica di Mazzini e quella federale di Cattaneo, ma esse erano quasi impossibili da realizzare nell’Europa di quei tempi in cui l’istituto monarchico era la regola ed era amato dal popolo (costituito per il 70% dai contadini); alla fine del processo unitario guidato dai Savoia, Cattaneo, pur se eletto successivamente per tre volte al Parlamento del regno d’Italia, coerentemente rifiutò l’incarico per non giurare fedeltà al Re; Mazzini, a sua volta, si chiuse sempre più in se stesso e morì isolato da tutti; egli aveva affrontato solo il problema dell’unità nazionale e della cacciata dello straniero senza elaborare progetti atti a risolvere le esigenze pratiche del popolo italiano: la questione contadina, la depressione economica, l’analfabetismo; il solco con le classi inferiori, che però erano la schiacciante maggioranza, rimase incolmabile per cui i numerosi moti da lui suscitati non ebbero mai nessun seguito popolare e con essi fallì il progetto repubblicano-centralistico.
Per tutti questi motivi rimase in piedi solo il programma monarchico-centralista dei Savoia che ebbe in Cavour un formidabile esecutore, lo stesso Garibaldi scrisse il 26 febbraio 1854 a Giuseppe Mazzini: “… appoggiarci al governo piemontese è un pò duro, io lo capisco, ma lo credo il miglior partito, e amalgamare a quel centro tutti i differenti colori che ci dividono; comunque avvenga, a qualunque costo… gli Inglesi unici che ponno tollerare una nazione italiana, e appoggiarci, quando loro convenga, sono del mio parere, e voi lo sapete”[17]; nacque così la formula “Italia e Vittorio Emanuele”. La classe politica piemontese si atteggiò a punto di riferimento per il movimento liberale con il quale ostentava un ruolo di “supremazia politica“ del regno di Sardegna rispetto agli altri stati italiani in quanto in esso, contrariamente che altrove, era stato mantenuta in vigore la Costituzione anche dopo gli sconvolgimenti del 1848-49. Enorme la differenza tra i fatti di Napoli, già descritti, e il comportamento pacato e responsabile dei torinesi che accolsero con soddisfazione e curiosità l’esperimento costituzionale senza dar vita a provocazioni ed intimidazioni di piazza che potessero scatenare la reazione di Carlo Alberto. Nel Piemonte, a differenza delle Due Sicilie, la borghesia si affiancava alla nobiltà, dedita anch’essa agli affari e che non viveva solo di rendita come nel Sud d’Italia, nel servire fedelmente la monarchia; l’aristocrazia prevaleva ma non aveva il monopolio delle cariche: logica conseguenza di queste premesse fu il rafforzamento del sistema parlamentare. A Napoli, invece, già culla dell’Illuminismo italiano, era tutto l’opposto, come già ben dimostrato dagli avvenimenti del 1799 della Repubblica Napoletana, essa era stata fatta proprio dai nobili e dai borghesi napoletani contro il re e il popolo; quest’ultimo era, quindi, l’unico che appoggiava, senza riserve, la monarchia meridionale; la politica amalgamatrice dei Borboni non era riuscita, dal 1815 al 1848, a sopire gli ideali repubblicani dei liberali meridionali, tanto che la stessa Carboneria nacque e prosperò soprattutto al Sud d’Italia.
In realtà lo Statuto Albertino non era una costituzione più avanzata di altre, prevedeva, all’articolo 5 :“Al Re solo appartiene il potere esecutivo” e all’articolo 65 “Il Re nomina e revoca i ministri”, da ciò ne derivò una debolezza congenita dei premier che si susseguirono a ritmo serrato fino alla fine dell’epoca liberale nel 1922; inoltre l’estensione dei diritti politici ai cittadini era limitatissima (gli aventi diritto al voto erano un’esigua minoranza), scarsissima la centralità legislativa del parlamento tanto è vero che dall’ascesa al potere di Cavour (4 novembre 1852) all’apertura del primo parlamento unitario (18 febbraio 1861) , su 3000 giorni disponibili per il dibattimento la Camera fu chiusa per ben 2145 e questo fu “costituzionalmente “ possibile grazie agli articoli dello Statuto.[18] Comunque sia, lo stato sabaudo divenne il polo d’attrazione per tutti gli esuli politici d’Italia, il cui numero raggiunse alla vigilia dell’unità un massimo di 50mila persone, essi furono “cooptati dalla classe dirigente subalpina, arrivando ad occupare posti di rilievo nell’Università, nell’editoria, nel giornalismo, nel parlamento, senza risparmiare l’esercito…numerosi gli ufficiali integrati nell’esercito sardo…un quarto dell’organico complessivo“[19]. “Torino diventa la Mecca degli italiani e in particolare di una colonia di napoletani …saranno loro l’officina ideologica dello statalismo piemontese, esteso poi, come in una guerra coloniale, a tutta la penisola assoggettata con le armi. È il caso di Beltrando e Silvio Spaventa, Pasquale Stanislao Mancini, Francesco de Sanctis, Ruggero Borghi, Angelo e Camillo De Meis, i quali avranno un ruolo di primo piano nella conquista sabauda”[20]. Gli esuli ricevevano dei sussidi dal governo piemontese ma per essi il prezzo da pagare per queste “attenzioni” fu altissimo: abbandono degli ideali repubblicani o federalisti e adesione al processo unitario monarchico-centralista sotto la guida dei Savoia; così, sulle ceneri delle precedenti associazioni con vari orientamenti programmatici, nacque il 1° agosto 1857 la “Società Nazionale” con segretario il siciliano Giuseppe La Farina, essa raggruppò i nomi più importanti del movimento unitario (Manin, Montanelli, Depretis, Bastogi, Visconti Venosta, Garibaldi, Verdi, Pallavicino Trivulzio), tutte le pregiudiziali repubblicane e federaliste vennero messe da parte e si rinsaldò l’alleanza con Cavour; quest’ultimo ufficialmente negava ogni rapporto con i “rivoluzionari” ma, in realtà, li finanziava e se ne serviva per destabilizzare, con sommosse ed attentati, gli altri Stati italiani, tutto questo in funzione del suo progetto espansionistico di annessioni forzate al Piemonte.
Il Risorgimento perse in questo modo la gran parte della sua idealità e dello spirito democratico avendo come misero risultato finale il mantenimento dell’istituto monarchico e il progressivo “allargamento” del Piemonte con l’abbattimento delle frontiere interne. “Anche un innamorato del Risorgimento come Giovanni Spadolini non nascose che, accanto alle luminarie patriottiche si trovavano le ombre di questioni rimaste insolute: “Quella dei Savoia - scrisse - era una dinastia ambiziosa ed intraprendente all’estero, retrograda e conservatrice all’interno. Più astuta che geniale. Più fortunata che gloriosa. Più abile che audace. Una sola meta: estendere lo Stato sabaudo verso est e cioè verso le pingui pianure lombarde. Il Risorgimento era stato troncato a mezzo delle sue aspirazioni…..i Savoia sono rimasti gli stessi, utilitari ed esclusivisti piemontesi di prima e hanno tentato di piemontizzare l’Italia, appoggiandosi alla sua ottusa e superba consorteria militare e accaparrandosi con concessioni e compromessi i diversi ed eterogenei partiti politici, espressioni più di clientele che di popolo”[21]
Aggiunge Gigi Di Fiore [22]:” La tendenza dei Savoia fu sempre quella, a partire da Vittorio Emanuele II, di far identificare la Nazione con la dinastia e non viceversa. Mai furono rinnegate le radici piemontesi tanto che il re cercava di stare il meno possibile a Roma, fuggendo, quando poteva a Torino. La festa nazionale, collegata alla concessione dello Statuto albertino, la bandiera con al centro lo stemma di casa Savoia…….erano tutti segni esteriori che contribuivano all’identificazione dell’Italia con la casa regnante….a questi vanno aggiunti la fedeltà giurata dai militari prima al re e poi alla Nazione, nonché il grido di battaglia che accompagnò per anni i soldati italiani “Savoia!”. Evidente identificazione del sacrificio militare con la monarchia.”