Andreas Hofer.
Il testo che mi accingo a pubblicare, in due parti data la sua lunghezza, è incredibilmente significativo. Tratto dal sito kattoliko.it, è uno stralcio dal libro "Andreas Hofer, eroe cristiano" di Francesco Mario Agnoli. .Data la sua importanza vi invito pertanto a leggerlo con calma ed attenzione.
La storia conosce personaggi che, a volte indipendentemente dal successo delle loro imprese o dal clamore immediato della fama, rimangono più a lungo vivi nella memoria dei popoli per avere saputo meglio di altri, magari più fortunati o più ammirati nel periodo del loro splendore terreno, incarnare l’essenza di un’epoca o, più spesso, di un’idea.
Naturalmente non tutti questi uomini hanno una medesima dimensione storica, anche perché di diversa misura può essere stato il loro campo d’azione. Identico è però sempre il motivo che giustifica il perdurare di uno "speciale" ricordo, che non è una semplice "memoria", ma fa di loro, per dirla con James, delle opzioni vive. Essi rappresentano delle bandiere attorno alle quali si possono creare movimenti, consolidare aspirazioni, concretizzare quei sussulti di moti pendolari che costituiscono il cosiddetto cammino della storia. Al tempo stesso sono, necessariamente, segni di contraddizione e destinati a suscitare odi, polemiche e perfino antipatie più di molti viventi. Per questo non pare azzardato l’accostamento di tre personaggi in apparenza assai diversi: Napoleone, Imperatore dei Francesi, Francesco Giuseppe, Imperatore d’Austria, è Andreas Hofer, relegato in Italia dalla storiografia ufficiale al ruolo di capobanda o, al massimo, di ribelle capo di ribelli.
Di questi personaggi Napoleone è indubbiamente il più famoso, quello che la storiografia colloca di gran lunga sul gradino più alto. Posizione di privilegio dovuta non solo al suo genio militare ed al fulgore delle sue vittorie, ma anche al monopolio culturale esercitato in questi ultimi secoli dagli esponenti dell’idea di cui egli fu l’incarnazione più valida e completa. Napoleone, difatti, riassume in sé, purificate dal fuoco della sua umana grandezza, le caratteristiche di Marat, Mirabeau, Danton, Robespierre e dei vari generali sgorgati dal crogiuolo della Rivoluzione francese. Del resto, a dispetto dell’ostentato pacifismo, gli aderenti ai movimenti catalogabili sotto il generico termine di "sinistra" non hanno mai saputo completamente nascondere l’innata propensione per la potenza militare e per le avventure belliche. I manuali dì guerriglia, la pubblicazione della rivista "Maquis", l’ostentata ammirazione per l’Armata Rossa e per la politica militar-culturale all’insegna del "libro e moschetto" del regno comunista cubano ne sono la prova migliore.
È comunque indubbio che la figura di Napoleone è quella che trova tuttora più frequenti riscontri nell’anima popolare, tuttavia l’idea che egli rappresenta era ed è essenzialmente malvagia. Un’idea "demoniaca", Lesa a distruggere l’ordine del mondo, pur se questa malvagità, evidente nei suoi più meschini e mediocri predecessori, Danton, Robespierre e, soprattutto, l’osceno Marat, egli seppe rivestire di una tale grandezza di umani trionfi da riuscire quasi a celarla. Il principio diabolico di cui era, forse a sua insaputa, portatore, venne così avvolto nei profumi della gloria. La riprova ditale "negatività" (in relazione, s’intende, a valori universali, perché è ben possibile, ed anzi certo, che in rapporto ad un breve periodo di tempo ed a considerazioni transeunti, non tutti i frutti della sua azione furono dannosi e molti addirittura parvero benefici) la si rinviene nel fatto che nessun altro personaggio della storia o della cronaca ebbe tanta presa sulle menti e sugli spiriti sconvolti. Per un intero secolo, e ancora oggi, i manicomi di tutta Europa son stati pieni di sedicenti Napoleoni, mentre altri "eroi", anche se in quel momento più famosi o più presenti all’attenzione dell’opinione pubblica, trovavano assai meno ammiratori fra i malati di mente.
Non per nulla più d’uno dei contemporanei, e non sempre, come si vuole far credere, fra gli spiriti mediocri, credette di riconoscere in Napoleone l’Anticristo. Né si può dire che costoro avessero torto alcuno se si crede che l’Anticristo non sia di necessita un essere malvagio, sibbene il portatore di una idea malvagia, a volte perfino illuso di operare per il Bene. D’altronde non di rado il termine "Anticristo e stato usato per designare, più che un singolo individuo, un essere collettivo, formato da tutti coloro che nelle varie epoche hanno più potentemente ed efficacemente operato per distruggere l’armonia dell’universo e sostituire a quello divino il finto ordine demoniaco.
Il ricordo di Francesco Giuseppe è indubbiamente meno diffuso. Fuori dai continente europeo non molti sono coloro per i quali il suo nome abbia un significato che vada al di là di una vaga reminiscenza scolastica. É altrettanto indubbio però che, là dove opera, questo ricordo è assai più intenso e profondo fino ad assumere le forme di una vera e propria nostalgia. Se parecchi desidererebbero per sé la gloria e il potere di Napoleone, pochi o nessuno si augurano il ritorno del suo regno o sognano di avere consumato sotto di lui l’arco della loro esistenza. Al contrario intere popolazioni, e non solo di lingua tedesca, ricomprese entro gli antichi confini dell’Impero, rimpiangono il buon governo di Francesco Giuseppe e ne sospirano la restaurazione sotto la guida dei suoi discendenti.
Il fenomeno appare inesplicabile soprattutto a noi Italiani, che fino dai banchi di scuola abbiamo appreso una specie di odio ereditario contro Cecco Beppe l’impiccatore ed i soprusi e le violenze degli Austriaci. Anche se oggi, dopo le crudeltà e le violenze cui siamo costretti ad assistere e a volte a partecipare in veste di protagonisti, non importa se carnefici o vittime, quasi tutti cominciano a domandarsi se l’indignazione dei nostri testi scolastici non fosse un poco eccessiva e se oggigiorno il destino di Silvio Pellico e Pietro Maroncelli, nonostante le particolari sofferenze di quest’ultimo, non sarebbe stato assai più triste. Comunque, inespicabile o no, rimane il fatto che in molte zone mistilingui dell’odierna Jugoslavia gli abitanti, dopo aver provato le amministrazioni austriaca, italiana e lugoslava, concordano soltanto nel rimpianto della prima.
Eppure il lunghissimo regno di Francesco Giuseppe fu rallegrato da ben poche vittorie e la stessa consistenza territoriale dell’impero fu via via ridotta. L’imperatore ebbe la fortuna di chiudere gli occhi prima dello sfacelo finale, ma al momento della sua morte il destino, o la storia, aveva detto l’ultima parola. I due anni di regno dell’Imperatore Carlo non furono che una lunga veglia al capezzale dell’agonizzante. La registrazione notarile delle ultime volontà del morente e la redazione dell’atto di morte.
La figura di Francesco Giuseppe è, di conseguenza, assai più emblematica di quella di Napoleone. Per essa non vale la spiegazione, così congeniale per la seconda, del prolungarsi di una lunga eco di eroiche imprese, di inaudite vittorie, di mai visti trionfi. Sotto il profilo del successo umano l’ultimo Imperatore fu un mediocre, sotto quello militare uno sconfitto, sotto quello politico un diplomatico arroccato a difesa di posizioni sempre più difficili incapace di quelle audaci sortite che avrebbero potuto ribaltare il corso della storia. Perfino dal punto di vista degli affetti familiari la sua esistenza fu avara di soddisfazioni: innamorato non corrisposto, marito incompreso, padre infelice. Se tutto questo è, come è, esatto, la logica avrebbe voluto che il nome e la memoria del "povero peccatore" restassero per sempre rinchiusi nella cripta del Convento dei Cappuccini, che, dopo averlo lasciato bussare tre volte, si era aperta per accoglierne le spoglie mortali. E successo invece il contrario. Il miracolo può essere attribuito unicamente alla sola virtù che Francesco Giuseppe possedette in grado eccelso: alla capacità di essere l’Interprete ed il fedele custode di un’idea, di un principio universale proprio nel momento in cui stava per offuscarsi e temporaneamente sparire dalla faccia del mondo, lasciando nell’animo umano un disperato rimpianto ed una incoercibile volontà di operare per la sua restaurazione. E insita negli uomini la tendenza a personificare, per meglio credervi, i principi e le idee; è quindi inevitabile che quanti credono nell’idea imperiale, non come un mito monarchico, ma come tentativo di riprodurre in terra il divino ordine universale, evochino a loro modello la figura di colui che ne fu l’estremo ed insuperato custode.
Questa idea era l’esatta antitesi di quella napoleonica; il tentativo, come si è appena detto, di riprodurre in terra un’immagine, sia pure imperfetta e caduca come tutte le cose terrene, dell’ordine universale, in continuo anelito ad adeguare il particolare al generale.
Pochi hanno inteso la posizione di Francesco Giuseppe nella storia dello spirito umano come Franz Werfel, un suddito dell’ultimo Cesare vissuto a cavallo del tramonto del vecchio mondo e della squallida realtà del nuovo. Alcuni brani di quanto egli scrisse nel prologo al volume "Nel crepuscolo di un mondo" sono estremamente illuminanti per comprendere sia l’ultima incarnazione dell’idea imperiale sia l’invincibile rimpianto per la sua scomparsa. Il Werfel, per spiegare Francesco Giuseppe, la sua grandezza ed il suo perdurare nel cuore degli uomini, prende le mosse dal primo Natale del secolo nono dell’era cristiana, quando Papa Leone depose sulla fronte di Carlo Magno la corona dei Cesari romani. "Uno dei più grandi avvenimenti che la nostra terra abbia vissuti. L’antico Imperium, la cui potenza aveva riposato per tanti secoli, era nato di nuovo. Di nuovo nel senso più vero. Poiché a differenza di Cesare Augusto, di Adriano e di Marc’Aurelio, il nuovo Cesare non era più soltanto il simbolo del dominio terreno, non più il rappresentante di quel Quiritismo, che con la sua altissima superiorità si era assoggettato il mondo antico, urbem et orbem. Non c’era più un antico popolo sovrano, un erede del Quiritismo, che avrebbe potuto esercitare l’imperium alla maniera dei Romani. Ma c’era la Croce, nelle cui due braccia s’incrociavano l’orizzontale terrena e la verticale sopraterrena. Il globo imperiale nella sinistra di Carlo, simbolo del globo terreno, portava la croce
"Quando" continua il Werfel "all’inizio del secondo decimonono cominciò a salire l’ondata del nazionalismo tedesco, il sovrano asburgico allora regnante, Francesco I, sciolse il Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca e non si chiamò più Imperatore Romano, ma "Imperatore d’Austria". Era un disperato tentativo di salvare la grande idea dell’unità dei popoli, una ritirata, un concentramento sulla posizione più forte.
"Di ciò approfittò la famiglia reale prussiana degli Hohenzollern, i nemici mortali dell’Austria è della sacra idea imperiale. Essa sforzò e stimolò energicamente i demoni del nazionalismo pangermanico. Dopo le vittorie sopra l’Austria e la Francia nell’anno 1870-71 riuscì a ridurre sotto il proprio dominio i piccoli Stati tedeschi, e in tal modo a unificarli. Ed allora avvenne uno dei più brutti scherzi di parole della storia mondiale. La grande Prussia si chiamò "Impero Tedesco", quando nel migliore dei casi non era che uno Stato nazionale, un’unità demoniaca, il contrario dunque di un regno unificatore di popoli nato da un’idea sopraordinata. Ma i re prussiani si conferirono il titolo di imperatori. Kaiser è la forma greca di Caesar. Ogni Kaiser è il successore di Cesare, che fondò l’impero mondiale soprannazionale della civiltà occidentale. Il Cesarismo è l’opposto assoluto della regalità nazionale. Gli Hohenzollern furono fortunati re nazionali, che per odio contro i Cesari legittimi della Casa d’Asburgo usurparono un vuoto titolo imperiale".
Delineato il concetto fondamentale dell’impero come radicale opposizione dello Stato nazionale (espressione delle forze centrifughe e disgregatrici) l’Autore tratteggia rapidamente la figura del primo Imperatore asburgico, Rodolfo, svizzero di nascita, straordinariamente semplice nel suo tenore di vita, "alieno d’ogni infatuazione di sé medesimo, da ogni enfasi parolaia, scrutatore dell’uomo, non freddo, ma fervido, perché ricco di umorismo, pio senza essere fanatico". Al primo Imperatore avvicina l’ultimo, Francesco Giuseppe.
"Francesco Giuseppe raggiunse ottantasei anni e ne regnò settanta. La sua vita durò circa tre generazioni, il suo governo più di due. Egli salì al trono durante la rivoluzione del 1848, diciottenne. Il suo regno si iniziò in una giornata di dicembre, terminò in una giornata di dicembre. La stagione, l’intonazione politica, la caratteristica umana di questo regno fu crepuscolo invernale, gelo invernale e vicinanza di morte. Quando Francesco Giuseppe nacque vivevano ancora molti uomini dell’ancien régime, che spiritualmente stavano al di là del grande spartiacque della Rivoluzione francese e in Napoleone sopra tutto vedevano uno sfacciato parvenu. Quando giacque sul letto di morte nel castello di Schönbrum, era in piena fioritura l’età trionfante del gas velenoso, delle bombe incendiarie e delle masse martirizzate e martirizzanti. La vita di Francesco Giuseppe unisce come un ponte di straordinaria portata due epoche storiche, lontane l’una dall’altra dieci volte più del secolo reale che le separa. Non poteva essere una natura fiacca quella che, stando per settant’anni sulla vetta di un mondo, resse a una simile portata senza crollare. La natura dì Francesco Giuseppe si difese a modo suo contro l’immane destino. Non rintuzzò le armi avverse, ma si ritrasse, si chiuse in una solitudine veramente cesarea. Si corazzò con l’ininterrotta dedizione al concetto del "servizio"(1). (La penna vorrebbe scrivere "fanatica" dedizione. Ma nulla sarebbe meno vero della parola "fanatico" riferita a Francesco Giuseppe). La prammatica del servizio - così suonava la vera espressione austriaca - regolò l’attività, i diritti e i doveri dell’Imperatore fino alle minime sfumature. Dove essa cessava - ma in realtà non cessava mai -, trovava la sua continuazione in una scrupolosissima esigenza di tatto, che vietava per esempio al sovrano di pronunciare, in occasione di un’esposizione d’arte o di una serata a teatro, un giudizio di carattere personale... In un’epoca in cui la personalità fu idolatrata con snobismo, in cui la contingenza e il disordine travestiti da libertà erano tutto, la natura originariamente impaziente e capricciosa di Francesco Giuseppe si superò costringendosi all’impersonalità, all’ordine e alla regola.
"Questo fu possibile solo perché in lui, l’Ultimo, continuava ad agire l’antica forza della sacra idea imperiale. Ciò che vi era di universalmente umano in questa idea estorse dall’anima dell’Imperatore una virtù, per la quale la parola obiettività è troppo debole. Egli, tedesco di sangue e di tradizione, cercò con estrema sincerità di soddisfare alle esigenze di tutti i popoli della monarchia...". L’ultimo Imperatore consacrò, quindi, la sua esistenza all’idea dell’Impero a sostegno e a difesa della quale egli chiamava tutti gli uomini di buona volontà, senza differenza di razza e di ceto, i Tedeschi come gli Ungheresi, i Boemi e gli Italiani, gli aristocratici come i poveri e i poverissimi.
"Il comune nemico" continua Werfel "era l’appassionato antagonista, ab antiquo, dell’idea austriaca di universalità: l’odio demoniaco, la vana presunzione delle parti sul tutto, la sfrontata idolatria del proprio Io; in una parola il fanatismo nazionale, sostenuto dal piccolo borghesismo arrabbiato di tutti quanti i popoli. Esso è rimasto vincitore". A parole così chiare e significative basterà aggiungere che le vicende successive al momento in cui vennero scritte, e tuttora in corso di svolgimento, hanno provato ad usura che si trattava di una vittoria di Pirro. O, meglio, che quella vittoria non era che una tappa verso la dissoluzione integrale, che di quel fanatismo costituisce lo sbocco necessario. La "sfrontata idolatria del proprio Io" sta oggi conducendo, sia sul piano dei singoli sia su quello delle nazionalità e delle etnie, all’annientamento di quell’individualità che viveva e prosperava invece quando era protetta, come il tuorlo nel guscio, dalla universalità dell’idea imperiale.
Occorre del resto tenere presente la sostanziale falsità della oggi tanto proclamata contrapposizione fra Impero, o anche, entro certi limiti, fra Monarchia cristiana, e popolo (inteso come l’insieme delle classi umili, dei "poveri e dei poverissimi" di cui parla Werfel). Essa esiste unicamente nelle nostre menti, frutto della balorda filosofia illuminata e della faziosa storiografia borghese, che da oltre cent’anni si preoccupa non di studiare e di far conoscere, ma di propagandare e indottrinare. La realtà delle vicende storiche degli ultimi due secoli ci dimostra invece che quasi sempre, per non dire sempre, le rivoluzioni opposero la borghesia, fiancheggiata da larghissime frange dell’aristocrazia (in molti casi così larghe da costituire, almeno nelle fasi iniziali e prima di tardive quanto vane resipiscenza, la quasi totalità), alla Monarchia (2) e a quello che nell’Italia meridionale era chiamato "popolo basso". Appunto nel Meridione i popolani si batterono (fenomeno incredibile per gli storiografi liberali, che se la cavano in genere facendo appello all’ignoranza e alla predicazione superstiziosa dei preti cattolici) per il re Borbone e ne festeggiarono il ritorno cantando:
"A lu suono dela grancascia
viva lu popolo bascio.
A lu suono de tamburielli
so’ risorte li puverielli
A lu suono dela campana
viva via li pupulana.
A lu suono dela viulina
morte alli Giacubine.
Sona, sona
sona carmagnola
sona a li Cunsiglia
viva o Re cu la famiglia".
Al che la borghesia, costretta a fondare la legittimazione del proprio potere sopra una volontà popolare in realtà quasi sempre inesistente là dove non viene imposta con la forza o con l’inganno(3), replica con lo sprezzo di espressioni, come "sanfedismo", che non significano nulla, ma l’esonerano dal fornire una valida spiegazione del fenomeno delle masse popolari che si battono al fianco dei re contro i bottegai ed i "paglietta", nonostante che costoro affermino di volerle "liberare, educare ed elevare".
Ma tralasciamo queste notazioni, che pure hanno la loro importanza nel disegnare i contorni di un quadro storico nel quale solo si può intendere la figura di Andreas Hofer nelle sue reali dimensioni di eroe cristiano. Del resto questo stesso quadro storico vale anche a spiegare perché, a dispetto dell’amore popolare, sia stato possibile contrabbandonare così a lungo l’oste di Sand come un capobrigante o un montanaro ignorante e fanatico. O come perfino i suoi ammiratori l’abbiano travisato, e sminuito, facendone un eroe nazionale o meglio, per usare le parole di Werfel, un campione del "fanatismo nazionale". Tuttavia anche queste polemiche e queste falsificazioni valgono meglio di ogni discorso a provare come Andreas Hofer sia rimasto, al pari di Napoleone e di Francesco Giuseppe, presente nel cuore degli uomini non come un pur glorioso ricordo, ma come un’opzione viva. Come nei due Imperatori anche in lui s’incarnava, sia pure sopra un piano diverso e più limitato, un’idea universale.
Si è detto "sopra un piano diverso". L’espressione non ha un significato riduttivo, o se l’ha ciò non tocca l’universalità del principio di cui Hofer era portatore, e che, all’ultimo, si riduceva a quella stessa visione cristiana nel mondo (anche sul piano politico) e dell’ordine universale che fu propria di Francesco Giuseppe. Il limite, se è questo il termine esatto, concerne unicamente il fatto che quel principio, pur sempre di valore generale, Hofer rappresentava nel momento del suo adeguarsi alle esigenze ed alla realtà esistenziale di un piccolo popolo. Ciò del resto è naturale; Francesco Giuseppe era il simbolo del complesso corpo dell’Impero, Andreas Hofer di una comunità, che al riparo dell’idea e dell’unità imperiale poteva vivere in pace e sviluppare le proprie peculiari caratteristiche.
Difatti la concezione imperiale e, ancor prima, la concezione cristiana, di cui quella non era che una estrinsecazione nell’ordine politico, possiedono la singolare capacità di conservare integro il proprio significato universale, pur adeguandosi agli speciali bisogni delle comunità che le accolgono. In tal modo, nell’epoca di Hofer e di Napoleone, quel principio cristiano rimaneva lo stesso sia presso gli abitanti dei masi tirolesi sia presso i cafoni degli assolati e petrosi altipiani del sud, pur assumendovi forme diverse, rispettose delle loro tradizioni, delle loro abitudini, del loro ambiente e dei loro ritmi esistenziali. In ciò, del resto, consiste uno dei principali criteri di differenziazione rispetto a concezioni come quelle liberali e marxiste incapaci di intendere l’ordine e l’uguaglianza altrimenti che come un generale appiattimento e livellamento (e lo dimostra, in Italia e altrove, la piatta monotonia del sistema scolastico, che impone l’insegnamento delle medesime cose - o delle medesime menzogne? - a tutti gli allievi, dall’Alpi al Lilibeo).
Tenendo presenti questi rilievi si comprende perché ed in qual senso (prescindendo cioè da ogni giudizio di valore, ma con riferimento all’incidenza e all’estensione del suo raggio d’azione) la figura di Andreas Hofer abbia un significato più limitato di quelle di Napoleone e di Francesco Giuseppe. E pur così intesi vocaboli come "limitatezza" e "limite" si appalesano inesatti, perché, in quanto espressione del diritto di ogni comunità di sviluppare le proprie caratteristiche e di mantenere la propria identità nell’ambito del più grande quadro che le comprende, il principio di cui era portatore è altrettanto universale e Andreas Hofer diviene espressione dei cafoni meridionali e degli "insorgenti" romagnoli non meno che dei montanari tirolesi. Con la sua lotta contro l’ateismo, il vago deismo e il sincretismo livellatore dei cosiddetti "Illuminati", dei sedicenti "progressisti", egli riaffermò il diritto alla propria nativa e specifica originalità non solo dei Tirolesi, ma anche, necessariamente, dei Vandeani, dei Bretoni e dei "luciani del Re".
Il carattere del cristianesimo di Andreas Hofer s’intende appieno solo tenendo presente il concetto, tipicamente cristiano, di "comunità", che non è, sia ben chiaro, qualcosa di contrapposto all’individualità, come avviene per la collettività, la massa, la classe e, in alcune accezioni; per lo stesso popolo. Comunità è l’ambito, alla cui formazione concorrono tutti gli individui con le loro tradizioni e le loro abitudini di gruppo, tramandate dagli antenati e sviluppate da loro stessi, nel quale la persona può pienamente manifestarsi, arricchirsi ed accrescersi in un rapporto di reciproco scambio con tutte le altre persone che lo compongono. Sì vorrebbe dire che in una vera comunità i defunti non sono morti del tutto (e di questa sopravvivenza è simbolo nei nostri paesi alpini il cimitero raccolto intorno alla chiesa, che permette un incontro almeno settimanale dei vivi con i defunti) ed i viventi sono più vivi.
Andreas Hofer non pretese, come Enrico VIII Tudor, il titolo di "defensor fidei", ma, assumendo la difesa e riassumendo in sé le istanze e le caratteristiche della comunità cristiana tirolese, fu al tempo stesso il difensore e il simbolo di tutte le comunità cristiane. Questa fondamentale connotazione dell’azione hoferiana risulta incomprensibile ai tanti che si sono occupati di Hofer, o tentando di caratterizzarlo come un eroe esclusivamente tedesco, un esponente "ante litteram" del pangermanesimo o, al contrario, rimproverandogli di non aver saputo creare, sotto l’ala protettrice del grande Napoleone, uno staterello nazionale tirolese. Chiarissima coscienza ne ebbero invece lui stesso ed i suoi contemporanei e non solo tirolesi. Così i cittadini di Mantova, dove fu portato in catene, riconoscendo in lui "uno dei loro", uno che aveva combattuto per la loro stessa causa, raccolsero con pubblica sottoscrizione un ingente somma di denaro per provvedere alla sua difesa in un processo che si voleva credere equo e fu invece una di quelle tragiche burlette con le quali Illuminati e progressisti tentano da sempre di coprire i loro delitti. Ancora prima che venisse formato il Tribunale, Napoleone aveva ordinato che il giudizio si concludesse con la condanna a morte.
Si è detto che Andreas Hofer ebbe chiaro il senso della sua missione. Egli non si mosse per riaffermare l’appartenenza del Tirolo all’Austria in quanto tale, ma come entità sovranazionale capace di garantirgli la conservazione delle sue originali caratteristiche e, se si vuole distinguere, delle sue caratteristiche religiose (ma la distinzione è impossibile, perché le tradizioni di una comunità non possono mai essere disgiunte dalla sua fede o, perfino, dalla sua mancanza di fede, che necessariamente le permea per intero anche se relative a campi in apparenza lontani da quello più propriamente religioso).
In realtà i Tirolesi non avevano esitato a dare manifesti segni di insofferenza contro Vienna quando questa aveva mostrato col giuseppismo" di inclinare pericolosamente verso le idee degli Illuminati e di volere instaurare il monotono regno della Regione. Questo momento di malumore era stato poi superato quando la Casa d’Asburgo aveva ripreso la precedente politica di rispetto delle singole costumanze e delle tradizioni, di tutela delle peculiari caratteristiche di tutti i popoli e di tutti i gruppi che formavano il vasto mosaico dell’impero.