sabato 10 settembre 2011

Nota Austriaca alle Potenze europee per annunziare la guerra (del Conte Buol).



[Diamo questo documento secondo la versione italiana fattane dai giornali ufficiali del Regno Lombardo-Veneto]

(integralmente)
 

"Vienna, 29 aprile 1859.


 
File:Karl Ferdinand von Buol-Schauenstein.jpg
Karl Ferdinand von Buol-Schauenstein.
"Mando qui acclusa a V. S. una copia dell’allocuzione indirizzata oggi dal nostro imperiale Signore ai suoi popoli. Le parole dell’Imperatore annunziano all’Impero la risoluzione di Sua Maestà di far inoltrare l’esercito imperiale oltre il Ticino. Il Gabinetto imperiale aveva accettata ancora l’ultima delle proposte di mediazione della Gran Bretagna; ma i nostri avversarî non seguirono quest’esempio, e la difesa della nostra causa è ormai affidata alle armi. In questo grave momento m’incombe l’obbligo di esporre un’altra volta ai nostri rappresentanti all’estero i fatti, contro la forza dei quali malauguratamente si ruppero tutti i tentativi di conservare la pace d’Europa, felicemente mantenuta per tanto tempo.

"La corte di Torino, rispondendo evasivamente alla nostra intimazione per il disarmo, manifestò per tal modo anche una volta la stessa ostile volontà, che esercita già da tanto tempo il privilegio tre volte infelice di oppugnare i diritti incontrastabili dell’Austria, d’inquietare l’Europa e di incoraggiare le speranze della rivoluzione. Siccome questa volontà non si ruppe contro la longanimità dell’Austria, dovette subentrare da ultimo per l’Impero la necessità di ricorrere alle armi.

"L’Austria sopportò tranquillamente una lunga serie di offese recate dall’avversario più debole, perché essa è conscia dell’alta missione di conservare al mondo la pace quanto lungamente è possibile, e perché l’Imperatore e i suoi popoli conoscono ed amano i lavori dello sviluppo pacificamente progrediente verso i più alti gradi della prosperità. Però nessuna mente retta, nessun cuore onesto fra i contemporanei può dubitare del diritto dell’Austria a muover guerra contro il Piemonte. Il Piemonte non accettò mai sinceramente il Trattato con cui promise a Milano, dieci anni or sono, di mantenere la pace e l’amicizia con l’Austria. Questo Stato che soggiacque due volte alle armi provocate dalla sua arroganza, s’attenne fermamente con una deplorabile ostinazione al delirio gravemente espiato. Il figlio di Carlo Alberto sembrava anelare appassionatamente al giorno in cui il retaggio della sua casa, che egli avea riavuto intatto dalla moderazione e magnanimità dell’Austria, avrebbe formato per la terza volta la posta d’un giuoco rovinoso per i popoli.

"L’ambizione d’una dinastia la cui vana e frivola pretesa all’avvenire d’Italia non è giustificata né dalla natura, né dalla storia di questo paese, né dal suo proprio passato e presente, non rifuggì dall’entrare in una alleanza contro la natura coi poteri del sovvertimento. Sorda a tutte le ammonizioni, essa si circondò dei malcontenti di tutti gli Stati d’Italia; le speranze di tutti i nemici dei troni legittimi della Penisola cercarono e trovarono il loro focolare in Torino. Da Torino veniva esercitato un abuso criminoso del sentimento nazionale delle popolazioni italiane. Ogni germe di inquietudine in Italia veniva coltivato accuratamente, affinché, quando spuntasse la sementa, il Piemonte avesse un pretesto di più per accusare ipocritamente le condizioni degli Stati d’Italia, e per pretendere agli occhi dei miopi e degli stolti l’ufficio di liberatore. A questa temeraria impresa doveva servire una stampa sfrenata, intenta quotidianamente a suscitare una sollevazione morale contro il legittimo stato di cose negli Stati vicini oltre il confine: impresa che nessun paese di Europa potrebbe sostenere a lungo andare, senza profonda e pericolosa agitazione. In grazia di questi vani sogni di avvenire si vide il Piemonte, affine di procurarsi appoggi stranieri, — con un contegno col quale la sua propria fora sta in sproporzione patente, — sobbarcarsi a una guerra che non lo riguardava punto, contro una grande Potenza europea. Poi nelle conferenze di Parigi, con una arroganza nuova negli annali del diritto pubblico, esercitare, un’ardita censura contro i Governi della propria patria italiana, Governi che non lo avevano offeso.

"E perché nessuno potesse credere che nemmeno una scintilla di sincero interesse per la pacifica prosperità d’Italia si mescolasse in quei desiderî e sforzi sregolati, le passioni della Sardegna raddoppiaronsi ogni qual volta uno dei Sovrani d’Italia seguì le insinuazioni della mansuetudine e della clemenza, e massime ogni qualvolta l’Imperatore Francesco Giuseppe diede splendide prove di amore pei suoi sudditi italiani, e di cura pel felice progresso dei bei paesi d’Italia. Quando l’Augusta Coppia imperiale percorse le province italiane, ricevendo gli omaggi dei fedeli suoi sudditi e contrassegnando ogni suo passo con pienezza di beneficî, era permesso a Torino di lodare senza alcun ostacolo nei pubblici fogli il regicidio! Quando l’Imperatore affidò l’amministrazione della Lombardia e della Venezia all’augusto suo fratello l’Arciduca Ferdinando Massimiliano, Principe distinto per elevate qualità di spirito, animato dalla mansuetudine e dalla benevolenza, ed intimamente amico del vero genio del popolo italiano, nulla a Torino fu lasciato intentato perché le nobili intenzioni di quel Principe trovassero tanta ingratitudine, quanta produrre ne potevano, anche fra una popolazione bene intenzionata, odiosi giornalieri eccitamenti [*...].

"La Corte di Torino, trascinata una volta sulla via nella quale non le rimaneva altra scelta o di seguire la rivoluzione o farsene capo, perdette sempre più il potere e la volontà di rispettare le leggi delle relazioni fra Stati indipendenti, anzi di riconoscersi ristretta nei limiti che il diritto delle genti impone all’operare di tutte le nazioni civili. Sotto i più nulli patenti pretesti la Sardegna si sciolse dai doveri dai Trattati, come dimostra l’esempio dei suoi Trattati coll’Austria e cogli Stati italiani per l’estradizione dei delinquenti e dei disertori. I suoi emissarî percorsero gli Stati vicini per indurre i soldati ad essere infedeli contro i loro duci sovrani. Calpestando tutte le regole della disciplina militare, aperse ai disertori le file del proprio esercito. Questi furono i fatti di un Governo, che ama vantarsi di avere una missione di civiltà, e nei cui Stati si hanno lettori e scrittori di giornali, i quali, non contenti più della semplice apologia dell’assassinio, numerano le proprie sanguinose vittime con gioia veramente scellerata.

"E chi si meraviglierà che quel Governo abbia avanti a tutto considerato i diritti dell’Austria, fondati nei Trattati, come il potente ostacolo dal quale pensar doveva liberarsi con tutti i mezzi di una sleale politica? Le vere intenzioni del Piemonte, che da lungo tempo non erano per nessuno un segreto, furono confessate al primo momento in cui esso ebbe fiducia sufficiente sull’aiuto straniero, e non trovò più necessaria veruna maschera pei suoi disegni, tendenti alla guerra e alla rivoluzione. L’Europa che scorge nel rispetto dei sussistenti Trattati il Palladio della propria pace, intese con giusto sdegno la dichiarazione che il Governo della Sardegna si credeva attaccato dall’Austria, perché l’Austria non rinunziò all’esercizio di diritti e doveri fondati negli stessi Trattati; perché sostiene il proprio diritto di guarnigione a Piacenza, garentitole dalle grandi Potenze d’Europa, e perché osa andar d’accordo con altri Sovrani della penisola, affine di tutelare in comune interessi legittimi. Mancava un’altra arroganza: ed anche questa ebbe luogo. Il gabinetto di Torino dichiarò che per le condizioni d’Italia non vi erano se non mezzi palliativi, fino a che il dominio della Corona imperiale austriaca si estendesse sulla terra italiana. Così fu eziandio apertamente intaccato il possesso territoriale dell’Austria, fu oltrepassato l’estremo limite fino al quale una potenza come l’Austria può tollerare le disfide di uno Stato meno potente senza rispondere colle armi.

"Questa, spogliata del tessuto con che si volle bugiardamente sfigurarla, si è la verità sul modo di operare, al quale da dieci anni la real Casa di Savoia si lasciò trascinare da perversi consigli. Diciamo ora eziandio che le cause e i rimproveri con cui il Gabinetto sardo cerca di coprire i suoi attacchi contro l’Austria, altro non sono che temerarie calunnie. L’Austria è una potenza conservatrice: e religione, costume e diritto storico sono per essa cose sacre. Essa sa rispettare, proteggere e pesare colla bilancia di eguale diritto tutto quel che di nobile e di autorizzato sta nello spirito nazionale dei popoli. Nei suoi vasti territorî abitano nazioni di varia origine e lingua, l’Imperatore le abbraccia tutte con amore eguale: e la loro unione sotto l’augusta imperiale Famiglia giova alla totalità della famiglia dei popoli europei. La pretenzione poi di formare nuovi Stati secondo i confini nazionali è la più pericolosa di tutte le utopie. Far tale pretenzione, è romperla con la storia; volerla eseguire su qualche punto d’Europa, si è scuotere dalle fondamenta l’ordine saldamente ratificato degli Stati, minacciare la nostra parte di mondo con la confusione e col caos.

"L’Europa lo comprende, e per questo mantiene più fermamente una divisione territoriale, fondata dal Congresso di Vienna: rispettando, quanto più fu possibile, le condizioni storiche dei territorî al termine di una guerra che dominò un’epoca.

"Nessun possesso di nessuna potenza è più legittimo del possesso in Italia, che quel Congresso (lo stesso che ristabilì il Reame di Sardegna, e che gli fece dono del magnifico acquisto di Genova) restituì alla Famiglia imperiale di Absburgo. La Lombardia fu feudo per secoli dell’Impero germanico, Venezia pervenne all’Austria perché questa rinunciò alle province del Belgio. Quello dunque che il Gabinetto di Torino, dimostrando così da sé stesso la nullità delle altre sue accuse, chiamò il vero motivo della scontentezza degli abitanti della Lombardia e della Venezia, la signoria cioè dell’Austria al Po e all’Adriatico, è diritto fermo ed irrepugnabilmente fondato, diritto che le Aquile austriache difenderanno contro ogni ostilità.

"Ma non solo legittimo, giusto e benevolo è eziandio il Governo delle provincie lombardo-venete. Più presto di quanto si poteva attendere, dopo le gravi prove degli anni della rivoluzione, quei bei paesi rifiorirono. Milano e tante altre città sviluppano vita rigogliosa e degna della loro storia. Venezia si solleva da profonda decadenza a nuova crescente prosperità * [Lo stato deplorevole in cui è ridotta Venezia dopo l’invasione piemontese giustifica questa asserzione]. L’amministrazione e la giustizia sono regolate, l’industria e il commercio prosperano, le scienze e le arti sono coltivate con zelo. I pubblici pesi non sono più gravi di quelli che sopportano gli altri dominî della monarchia. Essi sarebbero più leggeri di quel che sono, se gli effetti della disgrazia politica della Sardegna non aumentassero le esigenze in riguardo alle forze dello Stato. La grande maggioranza del popolo della Lombardia e della Venezia è contenta. Accanto ad essa il numero dei malcontenti che hanno dimenticato le lezioni del 1848 non è ragguardevole: sarebbe più piccolo di quello che è, se non crescessero le incessanti arti istigatrici del Piemonte.


"Il Piemonte non s’interessa dunque per una popolazione che per avventura soffrisse e fosse oppressa. Invece impedisce ed interrompe uno stato di regolare impulso e di svolgimento ripieno di avvenire. La previdenza umana non può presagire per quanto lungo tempo questo giuoco deplorabile possa turbare la pace d’Italia. Ma terribile responsabilità pesa sul capo di coloro che esposero a nuove catastrofi con maligno proponimento la loro patria e l’Europa.

"La rivoluzione, tanto accuratamente alimentata in tutta la Penisola, seguì rapidamente il datole impulso. Una sollevazione militare a Firenze ha indotto S. A. I. il gran Duca di Toscana ad abbandonare i suoi Stati [*...]. A Massa e Carrara [*...] regna la sollevazione sotto la protezione della Sardegna. La Francia poi, dividendo da lungo temp moralmente, — lo ripetiamo, — questa terribile responsabilità, si è ora affrettata ad assumerla in tutta la sua estensione, anche coi fatti.

"Il Governo imperiale di Francia fece il giorno 26 scorso dichiarare a Vienna dal suo incaricato d’affari, che il passaggio del Ticino per parte di milizie austriache sarebbe considerato dichiarazione di guerra alla Francia. Mentre a Vienna si attendeva la risposta del Piemonte alla intimazione del disarmamento, la Francia inviò le sue truppe (nota bene) al di là del confine di terra e di mare della Sardegna, ben sapendo che così gettava il peso decisivo nella bilancia delle ultime risoluzioni della Corte di Torino.

"E perché, dimandiamo noi, dovevano essere d’un colpo solo annientate le speranze tanto legittime dei partigiani della pace in Europa? Perché è giunto il tempo in cui progetti in cui progetti, coltivati lungamente in silenzio, si sono maturati; in cui il secondo Impero francese vuol chiamare in vita le proprie idee; in cui lo stato legale politico dell’Europa esser dee sacrificato alle sue non giustificate pretenzioni, e in cui ai Trattati, che sono base del diritto delle genti d’Europa, essere dee sostituita la scaltrezza politica, coll’annunzio della quale il potere che regna a Parigi sorprese il mondo. Le tradizioni del primo Napoleone vengono ripigliate. Ecco la importanza della lotta alla vigilia della quale si trova l’Europa.

"Possa il mondo disingannato penetrarsi della convinzione che oggi, come mezzo secolo fa, si tratta della difesa, della indipendenza degli Stati e della protezione dei supremi beni dei popoli, contro l’ambizione e la smania di dominare. Ma l’Imperatore Francesco-Giuseppe, Sovrano del nostro Impero, sebbene afflitto per gl’imminenti mali della guerra, affidò con tranquillo petto la sua giusta causa alla Divina Provvidenza. Ei trasse la spada perché mani scellerate toccarono la dignità e l’onore della sua corona. Egli l’adoprerà nel pieno sentimento del prorio diritto, forte per l’entusiasmo e pel coraggio del suo popolo, ed accompagnato dagli augurî di vittoria di tutti coloro la coscienza dei quali distingue fra la verità e l’inganno, fra la ragione e il torto.


"firmato, Buol".