sabato 10 settembre 2011

L'invasione delle Due Sicilie:Le illusioni e gli errori fatali di Francesco II


Bandiera reggimentale costituzionale.


La diplomazia europea faceva, intanto, sentire i suoi innocui mugugni per questa politica spregiudicata del Piemonte che violava il codice “etico” del diritto internazionale, ma nessuno si mosse in soccorso delle Due Sicilie.
Francesco Giuseppe era reduce dalla sconfitta dell’anno precedente con la Francia che aveva ridimensionato le pretese dell’aristocrazia austriaca guerrafondaia rilanciando, nel contempo, le istanze della borghesia, interessata solo allo sviluppo dei suoi affari; l’imperatore, alle prese anche con problemi interni di coesistenza tra le varie etnie dell’impero e con la emergente potenza della Prussia, si trovò con un bilancio statale fortemente in passivo e con la classe borghese che non voleva sottoscrivere il debito pubblico a suo sostegno, una situazione senza sbocchi che lo indusse ad una politica più attenta ai bisogni della classe produttiva, diede così l’avvio alla rivoluzione industriale dell’Austria; la politica estera di difesa dei “protettorati” italiani si annacquò e addirittura si parlò di “vendere” il Veneto al Piemonte per risanare i conti. In questo quadro era assurdo pensare che Francesco Giuseppe mobilitasse per muovere guerra al Piemonte, reo di aver invaso il regno delle Due Sicilie: le ripetute lamentazioni di Francesco II sul mancato aiuto dell’Austria erano, quindi, fuori dalla nuova realtà dell’Impero asburgico; tutte le potenze europee erano, poi, intimorite dal discorso fatto al Parlamento, il 24 giugno, dalla regina Vittoria nel quale ella rimarcò gli intenti inglesi affermando che “Mi sforzerò di ottenere per i popoli d’Italia la libertà di decidere da loro stessi delle proprie sorti senza intervento straniero” [fatta esclusione per il suo, ovviamente].
Mentre in Sicilia avanzavano le truppe garibaldine e piemontesi, Francesco II, invece di contare sulle sue forze e mettere la sua persona in campo per guidare la difesa del regno come alcuni gli consigliavano (compresa la regina Maria Sofia), cercò, usando le “armi” della diplomazia, un’alleanza con una superpotenza e, non sapendo a chi rivolgersi, cercò l’appoggio della Francia: “Je me remets entre les mains de l’Empereur”; era esattamente il contrario di quanto aveva fatto il padre Ferdinando II il quale, per conservare l’indipendenza del regno, lo aveva sì isolato sullo scenario internazionale ma, allo stesso tempo, provvisto di validi ed autonomi strumenti di guerra per conservare la sua integrità territoriale da qualsiasi aggressione.
Era, però, illusorio pensare che Napoleone III si sarebbe messo contro gli alleati piemontesi con cui, appena l’anno precedente, aveva intrapreso una guerra sanguinosissima e potesse ora correre in soccorso di Francesco II. Ma il re meridionale non tenne conto di queste considerazioni e inviò in missione a Parigi, il 12 giugno, il cavaliere De Martino con una sua lettera autografa; l’imperatore dichiarò essere necessario cedere alle esigenze del momento, cioè al trionfo dell’idea nazionale ”Si sacrifichi tutto a quest’idea…domani sarà troppo tardi. Il mio  appoggio, leale e sincero, vi sarà in questo caso assicurato; altrimenti dovrò astenermi e lasciare l’Italia fare da sé”[1].
In questo modo impose al re meridionale di far cose che mai avrebbe voluto: così la mattina del 25 giugno 1860 l’Atto sovrano era firmato: si rimise in vigore la Costituzione del 1848 (mai formalmente abolita) e si indicevano i comizi elettorali per il 19 agosto con l’apertura del parlamento il 10 settembre; si stabilivano inoltre il cambiamento del vessillo nazionale delle Due Sicilie (diventava tricolore con le armi dei Borbone nel campo bianco) un progetto di alleanza col Piemonte e di autonomia della Sicilia sotto un vicerè della Real Casa Borbone e un’amnistia generale per tutti i reati politici fino ad allora commessi. Venne nominato un ministero costituzionale con a capo il liberale Antonio Spinelli che era la personalità più apprezzata a Napoli; nel vecchio gabinetto avevano espresso la loro contrarietà al provvedimento solo tre ministri: Troja, Scorza e Carascosa, quest’ultimo affermò che “la Costituzione sarà la tomba della Monarchia e dello Stato”; il giorno 26 giugno il Giornale delle Due Sicilie riportò (era la terza volta) l’aggettivo “costituzionale”.
Artefice di questa svolta fu un altro zio del Re, Luigi Borbone conte d’Aquila, “sul quale premeva l’ambasciatore [francese] Brenier interessato ora più che mai a far trionfare la politica e l’influenza francese. La mattina del 25 l’Atto sovrano era firmato non senza un’estrema resistenza … convinto [il Re Francesco] che la costituzione avrebbe affrettata la rivoluzione… talché ebbe un’invettiva contro l’Austria alla quale attribuiva la sua presente umiliazione [il cambio della bandiera nazionale] … la mattina del 25 Francesco II, deciso a non firmare il deliberato del Consiglio dei Ministri, ordinò che non fosse lasciato passare il conte d’Aquila che ne avvertì il Brenier. L’ambasciatore francese fece una scenata al Re, minacciando di andarsene se non accettava le condizioni suggerite dalla Francia”[2]; triste epilogo per il figlio di Ferdinando II il quale, nei 30 anni del suo regno, aveva vigorosamente impedito alle superpotenze di ingerirsi nei fatti interni del Sud d’Italia.
“L'atto sovrano si rivelò un errore fatale. Con una massa di invasori presenti sul territorio, l'unica soluzione ragionevole sarebbe stata di serrare le file e combattere. Invece la costituzione, concessa il 25 giugno 1860, chiuse la partita prima ancora di averla realmente iniziata, consegnando il potere amministrativo e giudiziario nelle mani della minoranza liberale, complice dell'aggressione militare….. La conces­sione reale fu vista dalla popolazione come una legittimazione delle pretese dei galantuomini liberali, in larga parte complici della congiura piemontese. La costituzione ebbe dunque l'effetto di dividere il campo borbonico e seminare confusione, indebolendo, attraverso l'equivoco, il notevole potenziale reattivo diffuso tra le masse popolari e nelle istituzioni.
Cruciale, in particolare, si rivelò il controllo, da parte dei liberali, delle forze di polizia, attraverso la ricostituita Guardia Nazionale, che, in sostituzione della Guardia Urbana, di estrazione popolare e fedele alle istituzioni patrie, si sarebbe poi dimostrata un'autentica polizia privata a protezione delle classi alte.“ [3]; il liberale Francesco De Sanctis scrisse[4]: “[...] queste concessioni precipiteranno la crisi, rilevando gli animi e dandoci armi per render più pronta e più facile l'insurrezione. Il Governo si vuol servire di noi per abbattere Garibaldi e la rivoluzione; e noi dobbiamo servirci dè mezzi che ci dà per farlo cadere al più presto.”
Tutti gli intendenti (che erano i capi delle province) e numerosi capi della polizia, procuratori generali, presidenti dei tribunali e funzionari dei ministeri devoti alla monarchia vennero sostituiti con persone di orientamento liberale, inutile dire che questo indebolì fortemente la posizione del Re accusato di debolezza dai suoi fedelissimi, in questo modo egli se ne alienò le simpatie e si accorse di avere un pauroso vuoto intorno a sé.
La ritrovata libertà di stampa fece sì che nascessero numerose pubblicazioni, la massima parte delle quali era antiborbonica e unitarista, solo “L’Italia” mantenne una linea a favore della dinastia e di una unione italiana federale, non una semplice annessione del Sud al Piemonte;  “La libertà di stampa rinnovò il clima esagitato del 1848 e oltre cento “giornali e giornaletti- afferma il De Cesare- di ogni formato, quasi tutti, per non dire tutti unitari, cavouriani, garibaldini, mazziniani, tutti, insomma,  fuorché dinastici e costituzionali” si stamparono nelle 113 tipografie napoletane”….. “La stampa era licenziosissima, sbrigliata, incendiaria oltre ogni credere, diretta e prezzolata ad un sol fine: la dissoluzione del vacillante governo (Ludovico Bianchini riportato da A.Zazo)”[5]

                          La contessa Castiglione, amante di Napoleone III e spia di Cavour

Il capo riconosciuto della casata Borbone, il duca di Chambord, aveva tentato di dissuadere Francesco dal concedere la Costituzione, ricordandogli che “Nel momento in cui Catilina è alle porte, non c’è tempo per le concessioni e le riforme. Il re deve montare a cavallo e condurre le sue truppe contro il nemico[6]: questo era l’unico consiglio sensato in quel momento storico ma, solo dopo lo svolgimento complessivo degli avvenimenti , il sovrano meridionale ne riconobbe la validità; in quelle circostanze, invece, si dimostrò assolutamente fedele a quella scelta costituzionale che non volle mai rinnegare fino al momento dell’esilio. Anche uno dei più autorevoli diplomatici meridionali, l’Antonini, aveva telegrafato alla Corte, già dall’8 giugno, che “Sembra momento venuto in cui Sua Maestà montando a cavallo prenda suprema risoluzione e procuri lui di salvare Corona e Dinastia[7]
A suo discarico va addotta la sua giovane età e soprattutto la mancanza di uomini, al suo fianco, che potessero consigliarlo in questo senso; al contrario, i suoi ministri gli paventarono sempre la possibilità di disordini insurrezionali nella capitale lasciata sguarnita da una sua eventuale partenza per il fronte; di questo entourage facevano parte uomini collusi col governo piemontese compresi alcuni membri della stessa famiglia reale come i fratelli del defunto padre (Leopoldo Borbone, conte di Siracusa e Luigi Borbone, conte d’Aquila), era l’ambizione a guidarli più che un ideale unitario, a essi erano stati promessi degli alti incarichi nella nuova Italia a guida piemontese.
Comunque sia, questa possibile insurrezione contro il governo legittimo non avvenne neanche quando Garibaldi era alle porte della città, sebbene la delegazione piemontese, con a capo il Villamarina, approfittando della immunità diplomatica, fosse da anni il punto di riferimento per tutti gli antiborbonici e complottasse in tal senso distribuendo a piene mani denaro e promesse.


La pirofregata Veloce 

La Costituzione entrò in vigore il 1° luglio, il 3 fu resa operante l’amnistia politica. Il 5 luglio il capitano di fregata Amilcare Anguissola, già gratificato, in passato, dai Borbone con il conferimento del comando della nave reale, era in missione per il trasporto di 800 uomini del 1° reggimento da Messina a Milazzo, egli, invece di rientrare alla base, proseguì per Palermo dove consegnò la pirofregata Veloce all’ammiraglio piemontese Persano che la cedette a Garibaldi, dei 144 uomini di equipaggio si aggregarono al Nizzardo in 41; Anguissola divenne successivamente viceammiraglio della flotta del nuovo regno d’Italia. I suoi fratelli, rispettivamente maggiore e colonnello,  scrissero al generale Clary di volersi unire, come semplici soldati, al colonnello Bosco per lavare l’onta  dalla loro famiglia e continuare a combattere per il re a cui avevano giurato fedeltà.