Della libertà di coscienza.
I.
Condanna fattane da Papa Pio IX.
Cotesto errore, condannato qui dal Pontefice, suppone per parte dello Stato non pure l'abbandono d'ogni rispetto all'ordine soprannaturale, ma la sua totale apostasia da Dio.
Rinchiudendosi lo Stato nei soli cancelli della pura natura, e non facendo alcun divario tra la vera e la falsa credenza, non trova più ragione veruna per cui debba proteggere colle sue leggi la religione cattolica. L'offesa, recata a Cristo e alla sua Chiesa, non è più delitto sociale per lui. In faccia alle sue leggi il fedele o l'incredulo, l'ortodosso o l'eretico valgono lo stesso. Tuttavolta anche in tal condizione egli non può dirsi interamente separato da ogni riguardo religioso. Nello stesso ordine della pura natura, il governante non cessa di essere ministro di Dio, ed obbligato a procurare, in quanto tale, l'ossequio del suo Signore. Egli non potrebbe concedere assoluta libertà di coscienza, almeno per quella parte in cui siffatta libertà esclude ogni culto di Dio, o ne inchiude dei ripugnanti ai principii evidenti della ragione. Allora soltanto egli può in ciò lasciar del tutto la briglia sul collo de' suoi soggetti, quando non riconosce più Dio, da cui scenda in lui il potere. Costituitosi in cotesto ateismo politico, è naturale che egli più non ravvisi in sè alcun dovere d'influire colle sue leggi sopra l'azione e la lingua dei sudditi, per ciò che riguarda religione e costume. Egli in tal condizione è costretto a dar loro piena balìa de' proprii dettami non solo in ordine a professare tale o tal altra credenza, ma anche a non professarne veruna, e procedere liberamente negli atti esterni alla manifestazione dei pensieri ed affetti interni. In altri termini, egli è logicamente costretto a concedere piena libertà di coscienza. Ed è questa la precipua conquista, a cui aspirano i nemici della società e della Chiesa, nella folle speranza di potere così pervenire alla rovina dell'una e dell'altra. Essi da prima la pretendono in forza di due sofismi. Essi dicono: lo Stato è distinto dalla Chiesa; dunque debb'esserne separato: lo Stato non può creare la verità; dunque non può riconoscerla nè per conseguenza proteggerla. Ma, perciocchè il sofisma non può reggersi lungamente, sicchè alla fine non apparisca per quel che è, i promotori della libertà di coscienza non si contentano di accettarla come conseguenza della separazione dell'ordine politico dal religioso, ma richiedono addirittura che si accetti qual principio incontrovertibile e come diritto proprio ed essenziale dell'uomo. Il perchè, essendo debito dello Stato il riconoscere ed assicurare i diritti de' cittadini, essi, stabilita quella loro pretensione, con somma facilità ne inferiscono che il riconoscimento e l'assicurazione della libertà di coscienza e de' culti appartiene all'ideale della società, e che senza di ciò non può darsi giammai Governo giusto e ben costituito. Così dopo aver tolta allo Stato la tutela della verità, gl'impongono come dovere la tutela dell'errore. Essi il costringono non solo a professarsi ateo, ma a sostenere che tal professione è requisito essenziale alla natura di ottimo reggimento.
Il sapiente Pontefice nell'enciclica di sopra ricordata inseguendo l'errore in tutti i suoi andirivieni, non ristà a proscrivere la libertà di coscienza qual conseguenza del naturalismo ed ateismo politico, ma la sfolgora eziandio in sè medesima, dichiarandola non diritto ma delirio dell'uomo. E perciocchè non mancano di quelli, che la vagheggiano non come principio dommatico, ma solo come spediente utilissimo al bene dell'umana società, il Pontefice la dichiara libertà non di salute ma di perdizione. Noi ragioneremo brevemente la giustezza dell'una e dell'altra parte di questa censura pontificia.
II.
La libertà di coscienza è giustamente dal Pontefice appellata delirio.
Libertà, per ciò che spetta al presente proposito, può intendersi o per esenzione da costringimento, contrario alla natura del soggetto; o per esenzione da legge, governatrice dell'operare del medesimo. Così voi dite libero il corso d'un fiume, non rattenuto da ostacoli, tuttochè tenda al mare seguendo la legge della sua gravità naturale; e dite libero il volo d'un uccello, che scorrazza per l'aria senza termine o norma che ne regga l'andare. È evidente che i promotori della libertà di coscienza non la intendono nel primo senso; perciocchè così sarebbero condotti a tutt'altra illazione da quella, a cui mirano. Ed in vero, se libertà per essi significasse facoltà di seguir senza impacci la propria natura, la coscienza allora veramente si reputerebbe libera, quando non pure ottemperasse ai dettami della ragione, ma si sottomettesse pienamente alla direzione della Chiesa cattolica. Imperocchè qual è la natura della coscienza umana? Quella di conformarsi alla regola del vero e dell'onesto. Or qual è questa regola? Non altra, che la legge eterna di Dio, la cui integrità e pienezza non altronde può aversi, che dal magistero infallibile della Chiesa. Dunque allora solamente, quando la coscienza umana sarà lasciata seguir senza intoppi un tal magistero, essa potrà dirsi libera veracemente, cioè franca da vincoli innaturali. Ma non è questo ciò, che si vuole e si cerca dallo spirito moderno; il quale anzi si adopera di tutta forza ad impedire questo movimento della coscienza.Lo spirito moderno qui intende la voce libertà nel secondo dei sensi soprallegati, cioè per esenzione da legge che regoli la virtù dell'operante. Ora così intesa la libertà di coscienza, fuor d'ogni dubbio, si chiarisce delirio e vaneggiamento di mente insana. E vaglia il vero, d'onde si argomenterebbe una tal libertà? Tre supposizioni sembrano possibili: o che non ci sia veruna legge direttiva della coscienza umana, o che questa legge s'identifichi con essa coscienza, o finalmente che, distinguendosene, l'uomo abbia diritto a non conformarvisi. La prima supposizione è dei fautori del progresso indefinito; i quali non ammettendo niuna verità assoluta, ma solo verità relative, non riconoscono per conseguenza niuna norma immutabile di onestà e di giustizia. Per costoro non ci ha distinzione tra bene e male morale; ma tutto è bene e tutto è male, sotto aspetto diverso. La seconda supposizione è quella dei panteisti; i quali confondendo la natura con Dio, confondono conseguentemente la coscienza umana colla divina. Per costoro la coscienza umana è per sè stessa fonte di verità e di giustizia. La terza, se non quanto alle parole, almeno quanto alla cosa, è quella dei liberali; i quali stabiliscono l'esercizio della libertà, in quanto tale, come supremo diritto dell'uomo, anteriore ad ogni idea di dovere. Per costoro, purchè si operi liberamente, si opera bene. Ma in tutte e tre queste supposizioni la libertà di coscienza si chiarisce pretta follia; giacchè per la prima si fonda nella negazione dell'ordine morale, per la seconda si riduce alla deificazione dell'uomo, per la terza si risolve nel diritto all'errore ed al male.
Dirai: non nel senso di assoluta esenzione da legge si pretende la libertà di coscienza, ma nel senso di esenzione da legge estrinseca, distinta dalla evidenza della ragione. Fondamento di ciò si è perchè la coscienza ragionevole non può avere altra norma che il vero, e il vero non si fabbrica dall'autorità, ma si apprende coll'intelletto.
Chi così ripigliasse, si darebbe da sè medesimo della zappa sui piedi. Conciossiachè egli sarebbe costretto a rinunziare alla libertà di coscienza, almeno in quanto assoluta e senza limiti. Egli la coarterebbe tra i confini del vero, manifestato dalla ragione; e l'autorità politica avrebbe diritto a contenervela, almeno per ciò che concerne l'ordine esterno. L'ateismo adunque, il politeismo, i culti osceni e nefandi, le bestemmie o il disprezzo della religione sarebbero esclusi nella fatta ipotesi; ed esclusi coll'intervento del potere che veglia all'ordine sociale. La società, comechè si riguardi nei puri termini della natura, ha per fine il vivere virtuoso; e vivere virtuoso non è certamente dove si manca al primo e supremo dovere, qual è fuor di dubbio quello che ci corre verso il supremo Autore dell'esser nostro. L'autorità, come notammo nel paragrafo precedente, anche nel puro ordine naturale, ha ministero dall'alto, e però non può, se non disconoscendo sè stessa, avere in egual conto il pio e l'empio, il bestemmiatore e il glorificatore di Dio. Quando S. Paolo scrivendo ai Romani diceva del Principe: Minister Dei est tibi in bonum..... vindex in iram ei qui malum agit, parlava de' Principi del suo tempo, i quali erano gentili, nè riconoscevano altro vero, che il suggerito dalla pura ragione. [«Imperocchè ella (la podestà) è ministra di Dio per te per il bene. Che se fai male, temi: conciossiachè non indarno porta la spada. Imperocchè ella è ministra di Dio vendicatrice per punire chiunque mal fa.» Rom. XIII, 4, traduzione di Mons. Antonio Martini, da Il Nuovo Testamento... , Torino 1851, pag. 647 N.d.R.]
In secondo luogo la replica dell'opponente ci richiama al razionalismo. Essa dunque suppone la negazione dell'ordine soprannaturale, la negazione di Cristo, la negazione della Chiesa. Essa suppone il pieno abbandono dell'uomo a sè stesso e al fioco lume della propria ragione. Or tale non è la verità del fatto e l'economia della divina provvidenza. Iddio non ha lasciato l'uomo nei termini della semplice natura. Egli lo ha elevato all'ordine soprannaturale, mercè la Fede e la grazia; lo ha redento dalla schiavitù del peccato per la incarnazione del Verbo; lo ha costituito in società spirituale, mediante la Chiesa. Quando poi alla sicura conoscenza del vero e del bene, non lo ha lasciato in balìa della sua ragione fallibile, ma lo ha affidato al magistero e alla direzione de' sacri Pastori, a cui ha commesso l'ufficio di scorgere le genti pei pascoli della salute. Chi non riconosce tali verità, è infedele; e coll'infedele non è da disputare intorno alla libertà di coscienza, ma intorno alla verità della fede cristiana. Chi discrede perderebbe il tempo a leggere questo nostro scritto; egli ha bisogno di studiare i trattati, che dimostrano la verità della religione cattolica. Noi qui parliamo ai credenti: e cerchiamo se, posto Cristo e la Chiesa, sia conforme o contraddittoria alla ragione la libertà di coscienza. In tale ricerca basta il buon senso per capire che, se Iddio si è degnato parlarci per mezzo del suo Unigenito ed ha istituita la Chiesa per perpetuarne ed applicarne l'insegnamento tra i popoli; ammettere il diritto nell'uomo a seguire una qualsiasi dottrina, è ammettere il diritto in lui di poter contraddire a Dio ed esimersi dall'ordine da lui voluto. Ciò è evidente delirio, come appunto lo definisce il Pontefice. O non dee dirsi delirio ammettere la verità del Cristianesimo, e riputar nondimeno esserci diritto a rigettarlo? Può altri, che un pazzo credersi licenziato dalla ragione ad abbracciare ciò che ella condanna?
Nè lo specioso sofisma, recato di sopra, può illudere, salvochè gl'imbecilli. Imperocchè è indubitato che la coscienza ragionevole dell'uomo non può avere per norma se non il vero: ma per questo stesso le è consentaneo che abbia per norma l'autorità di Dio e della Chiesa; giacchè allora solo è sicura di non discostarsi dal vero. L'autorità in Dio, incapace di errore e di menzogna, s'immedesima col vero; e nella Chiesa è inseparabile dal vero, stante l'infallibilità, di cui ella gode per l'assistenza divina. Qui dunque non ha luogo l'opposizione, a cui si ricorre, tra il vero e l'autorità, e per conseguenza tra l'apprendimento della ragione e l'ossequio della fede; giacchè in ambidue cotesti atti la ragione è quella che apprende il vero, sebbene nell'aderirvi si appoggia alla evidenza propria nel primo, all'evidenza divina nel secondo. La Chiesa poi, nel proporci il vero, non lo fabbrica colla sua autorità, ma solo ce ne assicura il possesso. Depositaria della rivelazione divina, essa o ce ne palesa gli articoli, o ne ricava le conseguenze, o ne rimuove gli errori, secondochè è richiesto alla purità della credenza e alla santità della vita.
Senonchè inutilmente sprechiamo l'inchiostro a ribattere i sofismi di cotesti propugnatori della libertà di coscienza. La molla, onde costoro generalmente son mossi a tale difesa, non è la boria di seguir l'evidenza della ragione, ma la cupidigia di seguir gli appetiti del senso. A cotesta cupidigia fanno troppo contrasto le verità della fede. Però essi le si levano contro in nome del diritto a pensare liberamente. Non è il pensare liberamente quello, che agognano; bensì l'operare sfrenatamente. E questo altresì è delirio; in quanto ha per iscopo il materialismo pratico e l'abbassamento dell'uomo alla condizione del bruto. La libertà di coscienza in questo senso è la libertà del giumento; alla quale l'uomo, dimentico della sua nobiltà, si appiglia, ribellando superbamente alla ordinazione divina. Cotesto è errore antichissimo, già denunziato da Giobbe, là dove scrisse: L'uomo sciocco, elevato in superbia, si reputa nato libero, come l'onagro del deserto. Vir vanus in superbiam erigitur, et tamquam pullum onagri se liberum natum putat [2].
III.
La libertà di coscienza è dal Pontefice giustamente appellata libertà di perdizione.
Il detto fin qui potrebbe dispensarci dal dimostrare il proposto punto; giacchè se il diritto alla libertà di coscienza è delirio, ognun vede che l'applicazione pratica d'un delirio non può per sè stessa essere di salute per l'umano consorzio. Potrà bensì produrre alcun bene per accidente, e, tra certi confini, essere accolta come minor male in una società scompigliata per divisioni religiose e nella quale la coscienza pubblica è oscurata dal dubbio. Allora la necessità di conservare, come che sia, la mutua convivenza tra i cittadini e provvedere a quella parte di ordine che tuttavia resta, potrà consigliare ed anche imporre talvolta ad un governo di tenersi più o meno in disparte da ciò che riguarda la religione, e lasciare a ciascuno il libero esercizio di quei culti, che già per invecchiato possesso godono di tranquilla esistenza. Non si tratta più allora di mantenere un bene che si possiede e di premunire la società da un male che può cansarsi; ma si tratta sivveramente di non riconquistare per mezzi violenti un bene di già perduto, e non inasprire con cure inutili una piaga di già inciprignita.Tuttavia lasciando da parte questa quistione di opportunità e di prudenza politica, la quale esce fuori del nostro assunto, e restringendoci a riguardar la cosa per sè stessa e secondo gli effetti, che scaturiscono dalla sua intrinseca natura, non possiamo non ravvisarvi la verità della sentenza pontificia, che la libertà di coscienza è libertà di perdizione.
Primieramente ciò si fa manifesto dalla discordia, di cui la libertà di coscienza è necessaria sorgente. La società è definita da S. Agostino: Concors hominum multitudo. Questa concordia si manifesta nell'esterna operazione, ma ha sede nella volontà e radice nell'intelletto; giacchè l'uomo, come ente morale, opera volendo ed intendendo. Ora qual concordia d'intelletto e di volontà può aver mai luogo, quando si discorda in fatto di religione? L'idea religiosa tocca la parte più universale della mente e le fibre più delicate del cuore umano. Essa si aggira intorno al supremo termine de' nostri desiderii, all'obbietto più alto della nostra venerazione. La religione ci ordina a Dio, come a nostro primo principio ed ultimo fine. L'amore dell'ultimo fine influisce in tutti gli affetti secondarii e li regge e modifica a sua somiglianza. La venerazione al Signor nostro certamente non può tollerare che esso sia fatto segno dell'altrui disprezzo. Figuratevi qual simpatia e quale benevolenza può passare tra un Renan, che bestemmia Cristo, e un fedele che darebbe tutto il suo sangue per la gloria di lui. Sappiam bene che la carità prescrive di odiare l'errore, ed amare l'errante. Ma niuno potrà negare che questa non è cosa tanto agevole a fare, quanto a dire; siccome quella che richiede molta perfezione di mente e di cuore. E ciò che è tale, non può prudentemente sperarsi che abbia effetto comunemente, massime nelle moltitudini. Noi non abbiamo uopo qui di ricordare le guerre civili, che insanguinarono tante volte la Germania, la Francia e i Cantoni svizzeri per dissenso di religione. Ci basti richiamare l'attenzione dei lettori alle scandalose lotte parlamentari e giornalistiche de' tempi nostri; non esclusi i tumulti eziandio di piazza tra coloro, che un muro e una fossa serra. Nè ciò dee recar meraviglia; giacchè ogni principio anarchico è dissolvente di sua natura; e la divisione nell'ordine delle idee non può tardare a prender corpo ed azione nell'ordine dei fatti.
Per ovviare a inconveniente sì grave, si ricorre al partito di prescrivere ed inculcare il rispetto per tutte le opinioni. Il rimedio, oltre ad essere bene spesso d'impossibile esecuzione, è per sè medesimo non men dannoso del male. Il rispetto può procurarsi, e non sempre con agevolezza, quando si tratta di opinioni specolative o libere ad abbracciarsi, o almeno tali che si contengano nel puro ordine individuale. Ma se esse sono doverose, e di più se toccano i fatti tuoi; la predica al rispetto non sappiamo quanto abbia valore. Un ladro ha l'opinione di venire un bel giorno a visitarti per isvaligiarti la casa. Rispetterai tu cotesta opinione? O per contrario ti apparecchierai a ricevere un tanto ospite col moschetto? Ora le opinioni religiose, non solo scendono nella pratica, ma spesso l'una offende gl'interessi dell'altra. A cagion d'esempio l'iniqua setta dei Frammassoni professa odio e minaccia sterminio alla Chiesa cattolica. Quindi si adopera con inaudita perfidia a screditarne i Ministri, a spogliarla de' suoi possedimenti, a rimuoverla da ogni influenza nelle relazioni della società, a metterne in derisione i dommi e la morale. Tempo fa uno de' più arrabiati satelliti di quella setta scriveva in un suo librettucciaccio, che conveniva soffocare il Cristianesimo nel fango [3]. Ti sentirai tu tanta lena ed avrai sangue si dolce, da predicare ai cattolici che accolgano con rispetto una così innocua opinione?
Ma fingiamo che questo rispetto scambievole sia possibile e agevole a praticarsi. Qual ne sarebbe naturalmente l'effetto? L'indifferentismo religioso. E veramente se non vogliamo ridurre quel rispetto a una mera ipocrisia (giacchè tradotto in sincero linguaggio sonerebbe: io rispetto la vostra opinione, ma dentro da me ne rido come di pretta scempiaggine); esso dovrebbe procedere da interna stima dell'animo, non solo delle persone, ma eziandio della loro dottrina. Ciò importa un vero scetticismo, per cui non si creda più a nulla, o, ciò che torna al medesimo, si credano ugualmente probabili sentenze contraddittorie.
Si meravigliano alcuni che, da tre secoli a questa parte, nelle regioni infestate dal protestantesimo, sì rari sieno stati i Santi tra i professori della vera fede, mentre essi vi fiorivano prima in tanta copia e continuano a fiorire in altri paesi liberi dall'eresia. Si paragoni la Germania coll'Italia e colla Spagna. Senza ricorrere allo sdegno divino, per cui la mano del Signore fu meno larga de' suoi carismi; una naturale spiegazione può desumersi dall'indebolimento della fede viva ed operosa, che insensibilmente si produsse dal contatto cogli eterodossi, e dalla necessità dei riguardi ad essi dovuti. La fede del cristiano si traduce in tutti gli atti della vita non solo privata ma sociale, non solo domestica ma civile. Or come è possibile questa continuità e universalità di manifestazione, dove ad ogni piè sospinto puoi abbatterti in un eterodosso e in uno scredente, e devi guardarti dal disgustarlo?
Ma, senza ciò, è indubitabile che la libertà di coscienza mette a evidente pericolo la salute eterna di molte anime. La pubblica profession dell'errore, non meno che quella del vizio, è una pietra d'inciampo per coloro, che col lungo esercizio non abbiano acquistato una forte tempera di spirito, e non sieno anche abbastanza addottrinati. Noi nell'orazione domenicale chiediamo a Dio che ci preservi da tentazione; e nell'atto di pentimento proponiamo di fuggire l'occasione prossima di peccato. Perchè ciò? Perchè così richiede la fralezza della nostra corrotta natura, in cui l'illusione della fantasia e l'impeto della concupiscenza perverte di leggieri il giudizio della mente, e si trascina dietro l'affetto della volontà: Fascinatio nugacitatis obscurat bona, et inconstantia concupiscentiae transvertit sensum [4]. Or questa ragione, che milita per ogni figlio di Adamo, quanto maggior valore non ha o per la plebe imperita e sì mobile al vento delle passioni, o per la gioventù inesperta e agitata potentemente dagli incostanti fantasmi della immaginativa e dai focosi impeti del senso?
Qui suole da molti accamparsi un sofisma, divenuto oggimai triviale. Abbiate fede, dicono i difensori della libera coscienza, abbiate fede nella forza della verità; la verità è più potente dell'errore, e, a lungo andare, non può non vincere nella tenzone. Nell'ordine morale, non meno che nell'ordine materiale, vuole applicarsi il sistema del libero scambio, dagli odierni economisti sì caldeggiato. Guardate, ciò che succede in un mercato, dove venditori e compratori liberamente concorrono. La merce migliore è sempre quella, che è più ricercata. La merce guasta rimane senza avventori. Or chi negherà che il vero è miglior merce dell'errore?
Sì eh? E perchè non trasferite un così sapiente discorso al vostro ordine domestico e al governo della vostra famiglia? Avete voi fede nella virtù? Lasciate dunque che ella nel recinto della vostra casa venga alle mani liberamente col vizio. Perchè l'assiepate di tante cautele nella scelta de' domestici e degli amici, e specialmente nell'educazione de' vostri figliuoli? Perchè guardate sì sottilmente ai libri da lor porre in mano, e alle persone con cui metterli a contatto? Lasciate loro intera libertà. Comportate che mirino ogni oggetto più laido, ascoltino i discorsi più dissoluti, frequentino le compagnie più scapestrate. Quid timetis, modicae fidei? La virtù splende di maggiori attrattive, che non il vizio; essa non può non trionfare nella lotta. Ricordatevi dell'ottimo sistema del libero scambio; la merce più buona sarà preferita.
Anzi, poichè avete tanta fidanza in quel vostro discorso, perchè non lo applicate eziandio nella comunanza civile, alle altre parti dell'ordine sociale? A che tante restrizioni e legami di Questure, di Tribunali, di birri, di prigioni, di leggi repressive d'ogni misfatto? La giustizia per sè stessa ha più beltà e valore della ingiustizia. Si lascino entrambe liberamente concorrere nel consorzio umano. Anche qui il libero scambio non può non tornarvi a vantaggio. Che ve ne pare, lettor gentile? Era questo l'argomento di cui si valeva altresì S. Agostino in simigliante proposito: «In ciò i Re (così quel sommo Dottore), secondochè è loro divinamente prescritto, servono a Dio in quanto sono Re, se nel loro regno comandano cose buone e proibiscono le ree, non solo per quel che spetta al consorzio umano, ma ancora per quel che riguarda la divina religione. Invano tu dici: lasciatemi sopra un tal punto al mio libero arbitrio. Imperocchè per qual ragione non dici il medesimo in ordine agli omicidii, agli stupri e a tutti gli altri misfatti e flagizii sociali? La compressione delle quali scelleratezze, fatta per giuste leggi, è di somma utilità e salute per la repubblica.» «In hoc Reges, sicut eis divinitus praecipitur, Deo serviunt in quantum sunt reges, si in regno suo bona iubeant, mala prohibeant, non solum quae pertinent ad humanam societatem, verum etiam quae ad divinam religionem. Frustra dicis: relinquar libero arbitrio. Cur enim non in homicidiis et in stupris et in quibuscumque aliis facinoribus et flagitiis libero arbitrio dimittendum esse proclamas? Quae tamen omnia iustis legibus comprimi, utilissimum ac saluberrimum est [5].»
Noi non manchiamo di fede nella forza della verità; bensì manchiamo di fede nella forza degli intelletti, che debbono ravvisarla, e delle volontà che debbono seguirla. Gli avversarii escono fuori della quistione, passando dal subbiettivo all'obbiettivo, e sostituiscono l'uomo possibile all'uomo reale. La natura nostra, qual si trova in ordine rerum e non nel cervello dei progressisti, non è un puro intelletto che contempla il vero senza veli e lo abbraccia senza contrasto. Essa è un composto di mente e di fantasia, di appetito ragionevole e di concupiscenza sensitiva. Il vero ci si presenta attraverso le nebbie della immaginazione, e spesso è in aperto contrasto con le tendenze più vive della parte animalesca. Sovente per ravvisarlo ci vuole ingegno, ci vuole dottrina, ci vuole esame pacato e libero da pregiudizii. Ravvisato poi che esso sia, ci è mestieri ben sovente di lotta accanita e di faticoso trionfo sulle passioni per abbracciarlo. È un bel dire che la derrata migliore troverà compratori, a preferenza della cattiva. Affinchè questo avvenga, bisogna conoscerla per tale; e oltre a ciò bisogna che il prezzo di essa non sia molesto nè grave. Se costa molto, ben pochi la compreranno; nonostante la sua preminenza: Video meliora proboque, deteriora sequor. L'esempio poi dei vantaggi del libero scambio nell'ordine materiale, è recato fuor di proposito. Imperocchè lasciando indietro che molti dubitano delle sue beatitudini, e pensano che nel fatto si risolve bene spesso in oppressione del debole a beneficio del forte; il certo è che per esso non han luogo quelle ragioni, che militano nell'ordine morale. A far antiporre la merce migliore nel giro delle cose materiali tutto concorre, e il giudizio della mente e l'inclinazione del senso. Ma per antiporla nel giro delle cose morali, posto anche che il giudizio non venga pervertito, si ricerca violenza su le passioni; e qui è l'impaccio, siccome è detto.
Uno dei motivi più forti di credibilità della nostra santa religione è l'aver ella potuto, non ostante l'altezza de' suoi dommi e l'arduità dei suoi precetti, trionfare degli errori del paganesimo e impadronirsi delle intelligenze e dell'affetto dei popoli. Un tal prodigio mostra evidentemente il dito di Dio. Imperocchè esso o fu conseguenza di prodigi, o, se si operò senza prodigi, per ciò stesso fu il maggior de' prodigi:
Se il mondo si rivolse al Cristianesmo,
Diss'io, senza miracoli; quest'uno
È tal che gli altri non sono il centesmo [6].
Ora ciò che per l'un capo o per l'altro fu opera di straordinaria intervenzione divina, vorremo noi che divenga effetto spontaneo di ordinario andamento di cose? Trasformeremo noi il miracolo in corso consueto della natura? O pretenderemo che Dio rinnovi i miracoli a nostro grado e per compiacere agli amatori della libertà di coscienza?La Chiesa che, assistita da Dio, conosce meglio di noi il fragile impasto della nostra creta, non si lascia cogliere a tali paralogismi. Essa sa benissimo che nell'ordine morale, come nel fisico, un ambiente pestifero ammorba, senza fallo, chi ne respira le aure attossicate. Essa dunque si adopera incessantemente a purificare l'atmosfera, che circonda i costumi, vuol rimossi gli scandali, vuol represso l'errore, vuole allontanate le seduzioni, vuol confortata l'umana fralezza di esempii virtuosi e di esortazioni a ben fare. E nondimeno, anche adoprati e moltiplicati questi presidii con amorose cure, non pochi sono coloro che si perdono per corrompimento d'intelletto o di cuore. Pensate che cosa debba avvenire in un sistema contrario! Quelli, che hanno pratica nella coltura delle anime, sanno quanto riesce difficile il rattenere la bollente età giovanile sul pendio del vizio, non ostante mille aiuti di santa educazione, di conforti di sacramenti, di allontanamento da pericoli, di punizione dei viziosi. E voi vorreste averla illibata e virtuosa, lasciandola in preda agl'incentivi del senso ed ai sofismi della miscredenza, colla vostra libertà di coscienza? Chi così pensa, se non è un malvagio o un balordo, convien che sia vittima della più cieca illusione.
NOTE:
[1] Atque contra sacrarum Litterarum, Ecclesiae sanctorumque Patrum doctrinam, asserere non dubitant, «optimam esse conditionem societatis, in qua Imperio non agnoscitur officium coërcendi sancitis poenis violatores catholicae religionis, nisi quatenus pax publica postulet.» Ex qua omnino falsa socialis regiminis idea haud timent erroneam illam fovere opinionem, catholicae Ecclesiae animarumque saluti maxime exitialem, a rec. mem. Gregorio XVI Praedecessore Nostro deliramentum appellatam, nimirum «libertatem conscientiae et cultuum esse proprium cuiuscumque hominis ius, quod lege proclamari et asseri debet in omni recte constituta societate, et ius civibus inesse ad omnimodam libertatem nulla vel ecclesiastica, vel civili auctoritate coarctandam, quo suos conceptus quoscumque sive voce, sive typis, sive alia ratione palam publiceque manifestare ac declarare valeant.» Dum vero id temere affirmant, haud cogitant et considerant, quod libertatem perditionis praedicant.[2] Iob. XI, 12.
[3] Le Liberalisme et la Constitution belge.
[4] Sapientiae, IV, 12. [Così traduce Mons. Antonio Martini: «Perocchè l'affascinamento della vanità oscura il bene, e la vertigine della concupiscenza sovverte l'animo sincero.» Vecchio e Nuovo Testamento, Tomo XIII, Prato 1829, pag. 401. N.d.R.]
[5] Contra Cresconium, L. III, 57.
[6] Dante, Paradiso c. XXIV.