martedì 21 agosto 2012

Don Félix Sardà y Salvany Da "El liberalismo es pecado" (Il liberalismo è peccato), 3a ed., Barcellona 1885, cap. XXXVIII, pag 176-183

 

Don Félix Sardà y Salvany



[«La parte dottrinale di cotesto libro, la quale riguarda il liberalismo, è eccellente, conforme ai documenti di Pio IX e di Leone XIII, e giudicata dalla Sacra Congregazione dell'Indice dottrina sana.» La Civiltà Cattolica, anno XXXIX, vol. IX della serie XIII, Roma 1888, pag. 346.]

XXXVIII. Se sia indispensabile o meno ricorrere in ogni caso ad una sentenza definitiva  della Chiesa e dei suoi Pastori per sapere se uno scritto o un individuo debba essere rigettato o combattuto come liberale.


Tutto ciò che avete appena esposto, qualcuno dirà a questo punto, va a scontrarsi nella pratica con una gravissima difficoltà. Avete parlato d'individui e di scritti liberali, e ci avete raccomandato con grande insistenza di fuggirli come la peste, loro e le loro più remote influenze. Ma chi mai oserà di propria autorità, e senza prima ricorrere ad una sentenza decisionale della Chiesa docente, qualificare come liberale un tale individuo od un tal libro?
Ecco uno scrupolo, o meglio una sciocchezza messa in gran voga da qualche anno a questa parte dai liberali e da coloro che sono intaccati di Liberalismo; una teoria nuova nella Chiesa di Dio e che, lo abbiamo constatato, è sostenuta con gran nostra sorpresa da coloro che non ci saremmo mai immaginati potessero cadere in una tale aberrazione. Teoria peraltro tanto comoda per il diavolo e per i suoi seguaci che costoro, quando un buon cattolico li attacca e li smaschera,  immediatamente vi ricorrono e vi si rifugiano come in una trincea, chiedendo con aria di magisteriale autorità: «E chi siete Voi per tacciare me ed il mio giornale di Liberalismo? Chi Vi ha costituito maestro in Israele così da dichiarare chi è buon cattolico e chi non lo è? È forse a Voi che bisogna chiedere la patente di cattolicesimo?» Soprattutto quest'ultima frase ha fatto fortuna, come si suol dire, e non vi è cattolico intaccato di Liberalismo che non se ne serva come di un'estrema risorsa nei casi gravi ed imbarazzanti. Vediamo dunque cosa bisogna pensarne, e se la teologia dei cattolici liberali è una teologia sana a questo riguardo. Poniamo allora chiara e netta la questione, come segue:
Per accusare una persona o uno scritto di Liberalismo è sempre necessario attendere che la Chiesa docente abbia emesso un giudizio definitivo su tale persona o su tale scritto?
Rispondiamo con decisione: No, in nessun modo. Se questo paradosso liberale fosse certo, fornirebbe indubbiamente il mezzo più efficace per annullare nella pratica tutte le condanne della Chiesa relative agli scritti come pure alle persone.
Solo la Chiesa possiede il supremo magistero dottrinale di diritto e di fatto, juris et facti; poichè la sua sovrana autorità, personificata nel Papa, è l'unica che possa definitivamente e senza appello sia qualificare in astratto le dottrine, sia dichiarare che esse sono concretamente contenute o insegnate dal libro di tale o talaltra persona. Questa non è un'infallibilità per finzione giuridica, come quella attribuita ai supremi tribunali civili, ma una infallibilità reale ed effettiva, in quanto emanante dalla continua assistenza dello Spirito Santo e garantita dalla solenne promessa del Salvatore; infallibilità esercitata sul dogma e sul fatto dogmatico, e di conseguenza che possiede tutta l'estensione necessaria a risolvere perfettamente in ultima istanza qualunque questione.
Ebbene tutto ciò si riferisce alla sentenza ultima e decisiva, alla sentenza solenne e autoritativa, irreformabile e senza appello, alla sentenza, come l'abbiamo definita, in ultima istanza; ma tale sentenza non esclude che si diano, come lume e guida dei fedeli, altri giudizi meno autoritativi e tuttavia rispettabilissimi, che non possono essere disprezzati e che possono anche obbligare in coscienza il fedele cristiano: tali giudizi sono i seguenti, e preghiamo il lettore di osservare bene la loro gradualità:
1° Giudizio dei Vescovi nelle loro diocesi. Ogni Vescovo è giudice nella propria diocesi per ciò che riguarda l'esaminare le dottrine, il qualificarle e il dichiarare in quali libri sono contenute e in quali no; la sua sentenza non è infallibile, ma è eminentemente degna di rispetto ed obbliga in coscienza, quando non sia in evidente contraddizione con una dottrina precedentemente definita, oppure anche quando non sia disapprovata da una sentenza emanata da un'autorità superiore.
2° Giudizio dei Parroci nelle loro parrocchie. Tale magistero è subordinato al precedente, pur godendo, all'interno della propria sfera più limitata, di analoghe attribuzioni. Il Parroco è pastore, può e deve come tale discernere i pascoli buoni da quelli velenosi; le sue dichiarazioni non sono infallibili, ma meritano rispetto secondo le condizioni enunciate nel paragrafo precedente.
3° Giudizi del direttore di coscienze. I confessori, basandosi sui loro lumi e la loro scienza,  possono e debbono dire a coloro che dirigono quale sia il loro pensiero su una certa dottrina o un certo libro su cui sono consultati, e valutare secondo le regole della morale e della filosofia il pericolo per i loro penitenti insito in una certa lettura o in una certa compagnia, e possono persino, con vera e propria autorità, intimar loro di rinunciarvi. Il confessore ha dunque anch'egli un certo diritto di giudicare le dottrine e le persone.
4° Giudizio di semplici teologi consultati dal fedele laico. Peritis in arte credendum, dice la filosofia: «Bisogna ricorrere a qualcuno che sia esperto a causa della sua professione o del suo curriculum di studio», ed a costui non si attribuisce una vera e propria infallibilità, ma una particolare competenza per risolvere le questioni collegate ad una determinata materia; perciò la Chiesa concede al teologo munito di titolo di studio un certo diritto ufficiale di spiegare ai fedeli la scienza sacra e le sue applicazioni. In virtù di tale diritto i teologi scrivono di Teologia, qualificano e portano giudizi in base al loro franco sapere ed al loro franco punto di vista. È certo poi che costoro possiedono una certa autorità scientifica per poter giudicare in materia di dottrina e per poter dichiarare quali libri la contengano e quali persone la professano. Infatti sono dei semplici teologi ad esercitare, su mandato del Vescovo, la censura delle opere a stampa, ed a farsi garanti con la propria firma della loro ortodossia; non sono infallibili, ma fungono da prima regola ai fedeli nei casi ordinari e quotidiani, e le loro decisioni sono valide fintanto che un'autorità superiore non le annulli.
5° Giudizio della mera ragione umana debitamente illuminata. Sissignore, questa stessa ragione è luogo teologico, come si dice in Teologia, è cioè un criterio scientifico in materia di religione. La fede domina la ragione, la quale dev'essere a lei subordinata in tutto; ma è falso pretendere che la ragione non possa nulla da sè stessa, è falso pretendere che il lume inferiore, acceso da Dio nell'intendimento umano, non chiarisca nulla, sebbene non quanto il lume superiore. È dunque permesso e perfino comandato al fedele di ragionare la propria fede, di trarne delle conseguenze, di farne applicazioni, di dedurne parallelismi ed analogie. In tal modo il semplice fedele può diffidare a prima vista di una dottrina nuova che gli è presentata, nella misura in cui la vede in disaccordo con un'altra dottrina definita; e se questo disaccordo è evidente, può combatterla in quanto malvagia e definire malvagio il libro che la sostiene. Ciò che non può è invece definirla tale ex cathedra, ma gli è perfettamente lecito ritenerla perversa per se stesso e segnalarla come tale agli altri per regolarsi, e gettare il grido d'allarme, e menare i primi colpi; il fedele laico può fare tutto ciò, l'ha fatto già in ogni tempo, e sempre la Chiesa lo ha approvato. Questo non è fare il pastore del gregge, nè il suo umile valletto; è semplicemente servirgli da cane da guardia, ed avvisarlo abbaiando; oportet allatrare canes «Bisogna che i cani abbaino», ha ricordato a questo proposito molto opportunamente un grande Vescovo spagnolo, degno dei migliori secoli della nostra storia.
Forse che i prelati più zelanti non la pensano così? essi che in mille occasioni esortano i loro fedeli ad astenersi dalla lettura dei giornali cattivi e dei cattivi libri senza specificare quali siano, persuasi come sono che basti al fedele il proprio criterio naturale, illuminato dalla fede, per riconoscerli applicando le dottrine già conosciute su quella materia.
L'Indice stesso contiene forse il titolo di tutti quanti i libri proibiti? In testa a tale raccolta, sotto la rubrica: Regole generali dell'Indice, non si trovano forse determinati principî che un buon cattolico deve tenere presenti per giudicare molte opere a stampa non menzionate dall'Indice ma che tali regole permettono a qualsiasi lettore di giudicare da sè?
Ma veniamo ora ad una considerazione più generale: a che servirebbe la regola della fede e dei costumi se in ciascun caso particolare il semplice fedele non potesse farne l'immediata applicazione, e fosse invece continuamente obbligato a consultare il Papa o il Pastore diocesano? Come la legge è la regola generale dei costumi, e nondimeno ciascuno porta dentro di sè una coscienza (dictamen practicum), in virtù della quale opera le applicazioni concrete di tale regola generale, senza che ciò pregiudichi il fatto che egli debba essere corretto, se s'inganna; allo stesso modo per quel che attiene la regola generale della fede, che è l'autorità infallibile della Chiesa, la Chiesa stessa consente, e deve consentire, che ciascuno col proprio giudizio particolare faccia le applicazioni concrete senza pregiudizio per l'eventuale correzione e obbligo di ritrattazione in cui incorrerebbe se, così facendo, s'ingannasse. Sarebbe un rendere vana, assurda ed impossibile la regola superiore della fede se si esigesse la sua concreta ed immediata applicazione da parte della principale autorità in qualunque caso, in qualunque ora, in qualunque momento.
Vi è in ciò un certo giansenismo feroce e satanico, simile a quello del discepoli del disgraziato vescovo di Ipres i quali, per ricevere i sacramenti, esigevano disposizioni tali da rendere i sacramenti stessi moralmente impossibili a coloro che invece ne avrebbero tratto giovamento.
Il rigorismo legalista (ordenancista) qui invocato è assurdo quanto il rigorismo ascetico predicato a Port-Royal, e darebbe risultati ancor peggiori e più disastrosi. Se avete dei dubbi, osservate ciò che accade: i più rigoristi sull'argomento sono i più accaniti settari della scuola liberale. Come si spiega tale apparente contraddizione? Assai semplicemente, se ci si rammenta che nulla sarebbe più utile al Liberalismo di questo morso legale imposto sulla bocca e sulla penna dei suoi avversari più risoluti; sarebbe, per la verità, un grande trionfo per i liberali se, col pretesto che oltre al Papa ed i Vescovi nessun altro può parlare con autorità nella Chiesa, riuscissero a far tacere uomini come i De Maistre, i Valdegamas, i Veuillot, i Villoslada, gli Aparisi, i Tejado, gli Orti y Lara, i Nocedal e di tanti altri gloriosi esempi che per misericordia divina vi sono sempre stati e sempre vi saranno nella società cristiana. Ecco quel che il Liberalismo vorrebbe, ed in più che fosse la Chiesa medesima a fargli il favore di disarmare i suoi più illustri campioni.