domenica 19 agosto 2012

Settecento veneto e quella “decadenza” che fu

di PAOLO L. BERNARDINI

Nel corso di questa mia rilettura estiva delle opere di Diego Valeri mi sono imbattuto in un suo testo, esemplare, su Ca’ Rezzonico e il Settecento veneto, pubblicato da Valeri nel 1966 a Firenze, in collaborazione con Giovanni Mariacher (1912-1994), storico dell’arte nato a Perugia ma attivo a Venezia, dove fu per un periodo direttore delle Belle Arti al Comune. Ora, tra le altre cose, del tutto casualmente, per le combinazioni mentali che ognuno ben conosce, mi sono venute in mente alcune riflessioni, che già esposi pubblicamente a suo tempo, sul Settecento veneto. Fu in occasione di un paio di eventi cui assistetti nel marzo 2010, poco più di due anni fa: la mostra a Rovigo su Bortoloni, Piazzetta e Tiepolo, a Palazzo Roverella, e a Milano, una rappresentazione al Piccolo, con uno stupefacente Soleri ottuagenario, di Arlecchino servitore di due padroni. Siamo, nel primo caso, nella prima metà del Settecento, nel secondo, mi si perdoni l’inevitabile bisticcio, nella seconda.
In entrambi i casi, molte sarebbero le considerazioni, diciamo così, critiche. Qualche inesattezza filologica per Alessia Vedova, curatrice della mostra, e qualche sbandata di troppo nella commedia dell’arte, sul filo dell’estrema tolleranza goldoniana, per l’altrimenti mirabile Soleri. Ora, vulgata vuole che il secolo XVIII sia quello della “decadenza” veneziana, prodromo sicuro alla caduta. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Ponderosi tomi, come quello di Jean Georgelin, del 1978 (mai tradotto in italiano, e segnalatomi a suo tempo da Rocchetta), bene hanno mostrato come l’economia veneta fosse ancora fiorente, ed in ogni caso non in crisi se confrontata con quelle degli altri liberi stati italiani, o della Lombardia austriaca, o della Toscana lorenese. Ma l’ambito artistico-letterario rivela, se mai ce ne fosse bisogno – ché del Settecento sono Prato della Valle, e Villa Pisani, e i Murazzi, e infiniti altri manufatti che certo di decadenza non parlano – quanto ancora vivace, ricco, ed aperto fosse il panorama, e cosmopolita senz’altro, della Venezia settecentesca.
La mostra, innanzi tutto. V’aleggia uno Sgarbi bidimensionale ripetuto all’infinito, con la sua pur nobile retorica sulla grandezza di Bortoloni e Tiepolo coevi ma di differente fortuna, e la sua pur innegabile capacità di leggere talune epoche artistiche. Appare in video nella sala dedicata a Sebastiano Ricci: questi grande artista, a fronte di un gradevole critico; questi assassino, Sgarbi… bricconcello.  Uno soltanto dei capolavori esposti, la “Giuditta e Oloferne” di Giulia Lama – chiamarsi Lama e dipingere una Giuditta è cosa da sola degna d’una visita, e di qualche pensiero – varrebbe una sosta diuturna. Ché si sprigiona, su uno sfondo nero, ancora in tutto e per tutto barocco, la potenza di un gesto che sta per compiersi, la decapitazione. Infatti il generale assiro dorme, giovane e bello, e Giuditta prega Dio di darle la forza. Nessuna drammaticità, se non per il paralogismo implicito: ché sappiamo come andrà a finire. Ma le opere, non numerose ma splendide, illustrano una vitalità singolare, uno sfumarsi luminoso del barocco tetro, in colorismo e virtuosismo vivaci. Le figure dipinte con suprema ironia da Bortoloni potrebbero ben essere, in capo ad un paio di generazioni, proprio personaggi goldoniani. Beffarde, stupite, scocciate, irriverenti seppure, (o eppure) sante e beate. Ma una cosa colpisce, quanto fosse cosmopolita Venezia, quanto fosse unita, ricca e allegra l’Italia “divisa, povera, e triste e dominata dallo straniero” dei manuali di storia scritti un tanto a riga da taluni miei colleghi, quelli che, pieni d’invidia per le signorine discinte nel chiaroscuro notturno dei viali, ne hanno preso bellamente il posto. Così Bortoloni della provincia di Rovigo dipinge, e cosa dipinge, l’intera volta della cupola dell’Abbazia di Vicoforte, per i Savoia, e tra i suoi committenti vi sono numerosi nobili lombardi, della Lombardia austriaca che perse vigore ed identità proprio quando fu annessa, nell’ircocervo del 1815, il “Lombardo-Veneto”, alla Venetia. Come savoiardi sono i fratelli simpatici e arditi, Beatrice e Federico – stravagante notazione personale, i nomi dei miei due nipotini – nella commedia di Goldoni. Insomma, un Settecento veneziano illustrato da pittori francesi e geni di “provincia”, un Settecento che vide rinascere proprio, siamo nel 1739, quella meravigliosa Accademia dei Concordi che ospita la mostra. Un Settecento multilinguistico, vivace, salace e sapiente.
L’errore della Serenissima fu, ne sono sempre più convinto, uno solo: la neutralità (e relativa smobilitazione), scelta nel 1700 e mai revocata, non ostante l’accorato appello di senatori illuminati all’ultimo doge, Lodovico Manin. S’era accorto, qualcuno, del problema che avrebbe rappresentato la degenerazione tirannica e violenta e massiva della Rivoluzione francese. Sicuri di vivere nella pace e tutelati dall’alleanza con l’Impero, e con la Francia stessa (ma con la corona, non con la “nazione”) i veneziani, ancorché senz’altro più poveri che non nel Cinquecento, non erano così decadenti come li si descrive, nel secolo dei Lumi. E vedere Goldoni, e ammirare Piazzetta e Tiepolo, e sicuramente Bortoloni, ci porta in un sogno cosmopolita.
L’Italia ”unita” è la vera falce dei popoli, quando non li uccide li separa. Crea l’odio verso il professore “terrone”, fomenta il campanilismo sterile, l’ignoranza diffusa. I Savoia non avevano nessuna riluttanza ad utilizzare un artista veneto. Goldoni scherzava sulle differenze tra sudditi sabaudi e sudditi della Serenissima. Qui, quando non ci siano in ballo problemi di “immagine”, per cui si fanno venire architetti “illustri” e stranieri a disegnare monumenti a 9/11 a Padova o ponti sul Canal Grande per mero scopo di immagine (in questo modo umiliando i locali che avrebbero potuto di certo far meglio, e con minor spesa), si vive nel mondo dell’assoluta provincia. Siamo d’estate, è vero, ma soffermarmi sul Settecento veneto mi porta, come si suol dire, alle “neiges d’antan”.