SOLE
24ORE
30
giugno 2012
Gli
eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la
Germania
di
Giuseppe
Chiellino
Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda.
Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva
detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva
avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza
della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle
Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli
Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono,
su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono
il Regno d'Italia.
Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al
faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione
europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali,
compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo
la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero
comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico
dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da
stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano
lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la
studiosa.
Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia
conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad
Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come
"Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei
prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873.
Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai
database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo
l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno
di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio.
La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i
rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno
delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i
tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle
piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito
unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete
(che però erano solo il 2%).
Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli
economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona.
«Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania
di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito
più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno
storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda
Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno
d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale,
un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti
commerciali.
Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo
unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati
preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore
fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania
teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti
dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei
tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più
che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871,
quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale
nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era
ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica",
come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e
più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario.
«L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti
l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota
anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che
sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla.
Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania
perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei
mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato
integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i
risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti
dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci
vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di
dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci
volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione
anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati
dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800,
anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine
sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di
avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna
ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di
andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla
prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa
Schioppa è stata «la radice» della crisi.
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