Francesco II è l'ultimo Sovrano a regnare sulle Due Sicilie; è con lui che avviene l'invasione del Regno da parte prima dei garibaldini e poi dell'esercito sabaudo, e quindi l'annessione al neonato Regno d'Italia. Il tutto solo un anno dopo la morte di Ferdinando II, avvenuta quando questi aveva solo 48 anni, mentre Francesco si è trovato inaspettatamente sul Trono alla giovane giovane età di 23 anni.
Ferdinando gli scelse come moglie Maria Sofia di Baviera, figlia del Duca Massimiliano, sorella di Elisabetta, la moglie dell'Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe. Maria Sofia, come tra poco vedremo, si rivelerà, nei tragici giorni della loro vita, una donna eccezionale, mai più dimenticata dai sudditi ed ammirata in tutta Europa.
Francesco di fatto poté regnare da libero sovrano solo l'arco di un anno; poi dovette occuparsi di affrontare l'invasione del Regno. Eppure già in così poco tempo poté fornire qualche minimale dimostrazione di cosa sarebbe stato il suo regno qualora gli fosse stato concesso di governare serenamente come ai suoi antenati.
Del resto, la feroce resistenza filoborbonica che avvenne negli Anni Sessanta (si veda a riguardo la voce apposita) e che vide coinvolti decine di migliaia di uomini e donne - come ai tempi delle insorgenze - in armi a difesa dei suoi diritti legittimi, è la miglior riprova di quanto appena affermato. Fin dalla sua salita al Trono, concesse tante amnistie, nominò delle commissioni apposite per visitare i luoghi di pena e apportare le migliorie necessarie; volle concedere maggiore autonomie locali ai municipi, e diminuì il peso dei legami burocratici; a Palermo e Messina accordò franchigie daziarie, a Catania istituì un Tribunale di Commercio e le Casse di conto e di sconto; condonò in Sicilia gli avanzi del dazio e dimezzò l'imposta sul macinato, abolì il dazio sulle case terrene ove abitava la povera gente e ridusse le tasse doganali, specie quella sui libri esteri; diminuì anche le tasse sulle mercanzie estere, concesse Borse di Cambio a Chieti e Reggio Calabria; ordinò che si aprissero monti frumentari e monti di pegni, e Casse di Prestito e di Risparmio nei paesi che ne erano privi; essendovi stata una carestia di grano, mentre i ribelli già accusavano il Re di voler far gravare il peso sui poveri, egli dava ordine di distribuire a prezzo ridottissimo intere partite di grano estero alle popolazioni, per altro con perdita economica da parte del governo. Creò inoltre cattedre, licei e collegi, e istituì una commissione per il miglioramento urbano di Napoli (aveva in mente a riguardo di costruire mulini a vapore governativi per offrire la macinazione gratuita dei grani, ma l'idea non poté essere attuata per l'arrivo dei garibaldini); ampliò la rete ferroviaria e chiese stretto conto dei ritardi dei privati nelle costruzioni già accordate, e con decreto del 28 aprile 1860 prescrisse l'ampliamento della rete con la linea Napoli-Foggia e Foggia-Capo d'Otranto; poi ordinò le linee Basilicata-Reggio Calabria e un'altra per gli Abruzzi, mentre già pensava anche alla Palermo-Messina-Catania.
Il 1° marzo 1860 prescrisse a tutti i fondi la servitù degli acquedotti, ed evitando così gli impaludamenti favorì l'irrigazione dei campi e quindi la salute pubblica; dispose poi il disseccamento del Lago del Fucino, fece continuare il raddrizzamento del fiume Sarno scavando un canale navigabile, ordinò che si continuassero i lavori nelle paludi napoletane e lo sgombro delle foci del Sebeto. Tutto questo in un anno. Ancora nel 1862, ormai esule a Roma, inviò una grossa somma ai napoletani vittime di una forte eruzione del Vesuvio.
Dopo la caduta del Regno, i Reali furono ospitati a Roma da Pio IX (che ricambiava in tal maniera l'ospitalitá ricevuta da Ferdinando II nel 1848-1850) prima al Quirinale poi a Palazzo Farnese, fino al 1870. In questi anni, essi tentarono dapprima di fomentare la resistenza filoborbonica che stava prendendo piede nell'ex-Regno, ma poi si resero conto che tutto era perduto e non vollero essere causa di altro sangue, di altro odio e dolore.
L'invasione del Regno
Non è certo possibile in questa sede fare una storia del Risorgimento, della conquista del Regno da parte dei piemontesi. Quel che si può dire, è che oggi per fortuna esistono ormai tante ricostruzioni storiche degli eventi di quei giorni molto più serene, veritiere ed oggettive della "versione ufficiale" fornita e propalata in questi 140 anni dalla "vulgata" storiografica risorgimentale. Sono ormai legione gli storici (e non tutti simpatizzanti con la causa borbonica, anzi) che stanno ricostruendo onestamente le pagine tragiche dell'invasione e della conquista del Regno. Ci limitiamo solo a elencare le più accertate ed ormai indiscusse acquisizioni storiche, ben note nel mondo degli esperti, ma ancora del tutto o quasi sconosciute al grande pubblico italiano e non, ancora influenzato dai ricordi di scuola sull'eroica conquista dei Mille fra il popolo meridionale esultante per essere "liberato" dalla "barbarie borbonica". Tali favole oggi non le racconta quasi più nessuno, eppure sopravvivono nell'immaginario collettivo. Del resto, il lettore che ha avuto la pazienza di leggere attentamente le voci precedenti, si sará reso conto di quanto sia falsa la "vulgata" antiborbonica, di quanto sia esattamente antitetica alla veritá storica.Non per spirito di polemica, quindi, ma solo come servizio alla veritá storica ed alla memoria comune del popolo italiano, ci limitiamo a ricordare le più evidenti, indiscusse (anche se ancora non note a tutti) acquisizioni storiche su tali eventi, rinviando il lettore interessato agli studi appositi dei migliori storici, di cui diamo notizia nella voce Libri Consigliati.
Già dagli Anni Cinquanta, ed in particolare nel 1858 con i Patti di Plombières, Cavour aveva preparato, con la complicità di Napoleone III e della Gran Bretagna, e l'aiuto del mondo democratico italiano, l'invasione del Regno delle Due Sicilie, Stato sovrano sette volte secolare, pacifico, amico, alleato del Regno di Sardegna, il cui ultimo Re per altro era cugino del Re Vittorio Emanuele II;
A Gaeta
Lasciando Napoli, Francesco II emanò un proclama, l'8 dicembre 1860, di cui riportiamo alcune frasi: «(...) ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori d'un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua ed Ancona. Ho creduto di buona fede che il Re del Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un'alleanza intima per veri interessi d'Italia, non avrebbe rotto tutti i patti e fatte violare tutte le leggi, per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra. Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure ai trionfi dei miei avversari». Il proclama spaventò il capo della polizia della Luogotenenza Silvio Spaventa, visto che, come testimonia Ruggero Moscati, «produsse larghissima impressione in vasti strati della popolazione meridionale».
A Gaeta convennero infatti migliaia di borbonici fedeli (contemporaneamente resistevano eroicamente anche le fortezze di Civitella del Tronto - che fu l'ultima a cadere - e Messina), pronti anch'essi a morire in difesa del proprio sovrano e della loro patria e per testimoniare la fede e la civiltà avita e manifestare coi fatti il loro rifiuto di una società corrotta e traditrice alla quale sentivano di non appartenere.
Come già detto, la storia della tragica resistenza della fortezza di Gaeta, assediata da un uomo spietato, è nota, ed esistono pubblicazioni valide che ne forniscono il racconto. L'assedio, iniziato il 13 novembre 1860, durò fino al 13 febbraio 1861. Fu condotto con tale asprezza, che occorre ricordare che Cialdini ebbe l'ardire di far bombardare perfino la stanza dei sovrani, evidentemente nella speranza di ucciderli.
In tal sede, ci si limita a riportare le seguenti commoventi parole di Roberto Martucci, che descrive il tragico clima in cui avvenne l'assedio e specie gli ultimi giorni, e soprattutto descrive lo stato d'animo di chi stava perdendo - tra la fame e la pestilenza - ma sapendo di essere vittima incolpevole di un'aggressione da nessuno desiderata ed eroico difensore non di un Regno, ma di una civiltà plurisecolare, e di chi stava vincendo fra le risa, ma era un riso di amaro sapore: «Il 5 febbraio 1861, un proiettile centrò la polveriera Sant'Antonio, provocando circa cento morti e seppellendo, sotto le macerie, centinaia di soldati vivi. "Il nemico - scrisse Pietro Calà d'Ulloa - faceva un sacrificio di vittime umane agli dei degli inferi; un'ultima esplosione lanciò in aria per poi precipitarli in mare soldati e ufficiali; gli assedianti, a Mola, batterono le mani come a uno spettacolo"» .
Dopo una breve tregua per estrarre i feriti dalle rovine, Cialdini rifiutò una proroga che avrebbe consentito di soccorrere le altre vittime ancora vive; il generale sardo volle quindi riprendere il bombardamento, offrendo al tempo stesso una resa senza condizioni alla stremata guarnigione napoletana. Di fronte alla inutilità di un'ulteriore resistenza, Francesco II autorizzò il governatore di Gaeta - che era quello stesso generale Giosué Ritucci che aveva diretto la sfortunata controffensiva sul Volturno - a trattare la capitolazione. Era l'11 febbraio e per due giorni si protrassero i colloqui senza che il generale Cialdini cessasse di rovesciare sulla sventurata fortezza una valanga di fuoco; ne aveva anzi approfittato per far entrare in azione altre due micidiali batterie di cannoni a canna rigata. Visto che la resa era sicura, quell'ulteriore dispiegamento di artiglieria d'assedio era mortalmente inutile. A meno che non ci si trovasse di fronte a quella sindrome magistralmente descritta dal romanziere francese Jules Verne in Dalla terra alla luna, quando gli affranti ingegneri e periti balistici, soci del "Gun club" di Baltimora, appresero con dolore ineguagliato che la fine della Guerra di Secessione impediva di sperimentare l'efficacia dei proiettili dei loro cannoni sulla carne confederata. Fu così che a Gaeta, alle tre del pomeriggio del 13 febbraio, mentre i parlamentari napoletani e sardi stavano discutendo gli ultimi dettagli della capitolazione, saltò in aria la polveriera della batteria Transilvania con le sue diciotto tonnellate di esplosivi. Immediatamente, le batterie d'assedio piemontesi concentrarono il fuoco sulle macerie per impedire i soccorsi, mitragliando i barellieri. Morirono inutilmente due ufficiali, cinquanta soldati e l'intera famiglia del guardiano del bastione. I plenipotenziari borbonici, che stavano trattando la resa nel Quartier Generale di Cialdini, trattennero a stento le lacrime mentre i loro ospiti applaudivano fragorosamente contravvenendo simultaneamente alle regole dell'ospitalità e alle leggi non scritte dell'onore militare» .
Fra le lacrime dei soldati e degli ufficiali inginocchiati e della popolazione, mentre stringevano le mani a tutti, senza distinzione, fra le lacrime e i sorrisi, Francesco II e Maria Sofia salparono per Roma.
«Francesco di Borbone aveva in quel momento 25 anni, Maria Sofia solo 19, eppure nella sventura seppero dar prova di forza d'animo e dignità che sovrani ben più anziani e temprati di loro non avrebbero posseduto». Commenta Sergio Romano: «Se questi furono i nuovi battaglioni dell'Italia unitaria, la nuova classe dirigente avrebbe dovuto rendere rispettoso omaggio, nel momento in cui assumeva la direzione del nuovo Stato, agli ostinati difensori borbonici di Messina, Civitella del Tronto, Gaeta, e avrebbe dovuto aggiungerne i nomi al "ruolo degli eroi" di cui venerare la memoria. Come gli svizzeri alle Tuileries nel 1792 quegli uomini si batterono perché avevano giurato fedeltà al loro re e non meritavano l'oblio a cui li ha condannati la leggenda risorgimentale» .
Ma non è questa la sede per parlare dei mali piombati sul Meridione d'Italia dopo il 1861, per i quali esiste un noto ed a tutt'oggi irrisolto concetto esplicativo che grava come una spada di Damocle sulla storia nazionale unitaria: "questione meridionale".
Tutti gli storici sono concordi nell'affermare che il comportamento eroico di Francesco II all'assedio di Gaeta valse a riscattarlo dalle sue debolezze politiche, vere e presunte. Potremmo riportare tantissimi commoventi giudizi di storici simpatizzanti; preferiamo invece riportare, a nome di tutti, l'obiettivo e più asettico giudizio di uno storico di valore indiscusso e certamente non filoborbonico. Scrive Giuseppe Coniglio: «Tuttavia seppe, di fronte alla storia, riscattare i propri insuccessi con l'assedio di Gaeta cui partecipò con audacia, per dimostrare all'Europa che sapeva agire, e vi riuscì in pieno, anche se sostenuto dall'esempio e dall'incoraggiamento della moglie. Sarebbe stato facile per i due sovrani fuggire (...) Ma Francesco non volle piegarsi a questa umiliazione e preferì combattere a lungo, ottenendo anch'egli davanti al giudizio degli stessi nemici quell'onore delle armi che ebbero tutti i difensori di Gaeta» .
Vogliamo concludere questa pagina con un tributo a S. M. Maria Sofia Regina delle Due Sicilie , vera animatrice dell'assedio di Gaeta, salvatrice dell'onore del Regno e dell'esercito borbonico: non passò giorno che non trascorse ad aiutare i suoi soldati sotto le cannonate, a curare le loro ferite, a condividere i loro stenti e le loro paure, ad incoraggiarli, a nutrirli, a soccorrerli, così come dava forza al marito nei momenti più difficili.
La coppia reale a Gaeta diede degnissimo spettacolo di sé, uno spettacolo fatto di amore, abnegazione, devozione, onore e dignità, senso del dovere e della patria, ma anche di serenità e di affetto per i propri soldati.
Così il poeta napoletano Ferdinando Russo ha cantato l'eroismo della Regina nella lirica O' surdato 'e Gaeta:
"E ' a Riggina! Signò! ... Quant'era bella!
E che core teneva! E che maniere!
Mo na bona parola 'a sentinella,
mo na strignuta 'e mana a l'artigliere...
Steva sempre cu nui! ... Muntava nsella
Currenno e ncuraggianno, juorne e sere,
mo ccà, mo llà ... V''o ggiuro nnanz' 'e sante!
Nn'èramo nnammurate tuttequante!
Cu chillo cappellino 'a cacciatora,
vui qua' Riggina! Chella era na Fata!
E t'era buonaùrio e t'era sora,
quanno cchiù scassiava 'a cannunata!...
Era capace 'e se fermà pe n'ora,
e dispenzava buglie 'e ciucculata...
Ire ferito? E t'asciuttava 'a faccia...
Cadiva muorto? Te teneva 'mbraccia...".
E che core teneva! E che maniere!
Mo na bona parola 'a sentinella,
mo na strignuta 'e mana a l'artigliere...
Steva sempre cu nui! ... Muntava nsella
Currenno e ncuraggianno, juorne e sere,
mo ccà, mo llà ... V''o ggiuro nnanz' 'e sante!
Nn'èramo nnammurate tuttequante!
Cu chillo cappellino 'a cacciatora,
vui qua' Riggina! Chella era na Fata!
E t'era buonaùrio e t'era sora,
quanno cchiù scassiava 'a cannunata!...
Era capace 'e se fermà pe n'ora,
e dispenzava buglie 'e ciucculata...
Ire ferito? E t'asciuttava 'a faccia...
Cadiva muorto? Te teneva 'mbraccia...".
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