CAPO I.
ARTICOLO V.
Confutazione di una opposta teorica.
Sotto il titolo: Il cattolicismo e la libertà religiosa leggemmo nella Rivista universale di Genova un articolo del sig. Tagliaferri, inteso a dimostrare come giusto in sè stesso e conforme ed utile al Cattolicismo il così detto principio della libertà religiosa [1]. Non crediamo soverchio smascherare i sofismi e porre a nudo le contraddizioni, in cui l'autore s'avvolge per la difesa dell'erroneo assunto. Nè di tali contraddizioni è da prendere meraviglia: perciocchè il Tagliaferri appartiene alla schiera de' cattolici liberali; e una tal professione constando appunto di una contraddizione, non può fare che non assomigli a sè i suoi parti. L'effetto conformasi alla cagione.E che questo nostro giudizio sia vero, comincia ad apparire fin dalle prime pagine dell'articolo, in cui il Tagliaferri ragiona della civiltà. Egli, come cattolico, vuole essere sottomesso alla Chiesa; ma tosto come liberale è costretto a levarsi sopra di lei. Egli esordisce con dire che da circa un secolo la Chiesa cattolica è in lotta colla civiltà [2]; e cercando la ragione di questa lotta, la trova nella difficoltà che i poco perspicaci sperimentano a distinguere la parte buona di tale incivilimento dalla parte rea: «Nel movimento civile de' nostri giorni vi ha due corsi ben distinti di civiltà: uno religioso, cristiano, figlio dell'Evangelio, l'altro empio, anticristiano, figlio del razionalismo e della incredulità. Questi due corsi di civiltà, benchè distinti, costituendo una sola corrente, riesce facile ad occhio men che sagace il confonderli insieme [3].»Quindi soggiunge che se la Chiesa riprova nella civiltà moderna il solo lato cattivo, fa cosa santa; ma se la condanna senza distinzione, fa cosa imprudente ed ingiusta. «Quando Roma fa scopo ai suoi giusti anatemi questo falso progresso e liberalismo moderno, adempie alla sua divina missione, fa il vero bene della società; ma se ella intendesse (come un certo partito vorrebbe) rigettare a fascio e maledire tutta la moderna civiltà, senza distinguere il bene dal male, il vero dal falso, farebbe, e' mi sembra, cosa nè giusta, nè utile, nè prudente.» E sotto in nota aggiunge: «Quando la Santa Sede condannava l'80a proposizione del Sillabo(che ha provocato tante ire e tanti scherni), non ha potuto avere in mira che questo falso progressoe liberalismo moderno. Intendendola altrimenti, bisognerebbe credere che essa smentisse questa volta la consueta sua sapienza e prudenza.»Qui si sente subito l'influenza dello spirito liberalesco, che vuol farla da maestro alla Chiesa; e si scorge il vero carattere del cattolico liberale, che è di sentire bensì con la Chiesa, ma a patto che la Chiesa senta con lui. Il cattolico liberale dice: È innegabile che il presente incivilimento nella sua sostanza (vedremo poscia qual è cotesta sostanza) sia la evoluzione e l'attuazione temporale dei principii cristiani [4]. Dunque noi veneriamo gli oracoli della Chiesa e della Santa Sede, purchè rispetti questa verità per noi sacrosanta; se la offende, ci sarà forza dire che essa questa volta ha smentito sè stessa ed ha fatto cosa nè prudente, nè giusta. Ecco l'obbedienza del cattolico liberale: piegarsi al giudizio della Chiesa, purchè il giudizio della Chiesa si conformi a quello del suo infallibile cervello. Ma bisognerebbe esser matto, per non capire che questa è un'obbedienza illusoria; e che per essa si pretende non di obbedire ma di comandare alla Chiesa [5].
La contraddizione del nostro scrittore spicca anche più chiaramente, quando dopo aver detto che gli anatemi della Chiesa non debbono riguardare il lato, che egli crede buono nel moderno incivilimento, dichiara che quegli anatemi riguardano altresì un tal lato, perchè riguardano ciò che costituisce la sostanza e la base del suo preteso incivilimento. «Queste generiche considerazioni (così egli) sulle relazioni, che intercedono tra la religione e la civiltà, le ho qui messe come preambolo di quanto vado a dire sul principio fondamentale della civiltà moderna, qual è il principio della libertà religiosa; principio che è il più controverso e il più avversato finora dall'autorità ecclesiastica fra tutti quelli, che la rivoluzione dell'89 ha introdotti nella moderna società.» E come avrebbe potuto dire altrimente, se, dove tutt'altro mancasse, le parole del Pontefice Pio IX in condannazione della libertà religiosa sono sì formali ed esplicite [6]? E ad esse crediamo che abbia mente il cattolico nostro scrittore, allorchè sotto l'influenza dello spirito liberalesco si mette a compatire la troppa semplicità e meticolosità della Chiesa e si assume il carico d'istruirla e rassicurarla. «Più tosto, egli dice, che inveire contro di lei (l'autorità ecclesiastica) e vituperarla per le sue troppo naturali paure, è nostro dovere ilcompatire alle sue viscere di madre (poveretta!), rassicurarla e mostrarle con buone ragioni (da lei non vedute) che il principio della libertà religiosa, ben inteso, non si oppone sostanzialmente ai principii dell'Evangelio (i cattolici liberali intorno a ciò che si oppone al Vangelo ne sanno alquanto più della Chiesa), e che se ne' regni cattolici può produrre la perdita di alcune anime, nella suauniversale applicazione, non potrà riuscire che al bene dell'umanità ed al trionfo dell'unica religione vera [7].»Faciendum est malum, ut eveniat bonum. Non è questo un ottimo principio morale? Sia lode a Dio, che in questi nostri calamitosi tempi ha suscitato questi uomini di scienza e di pietà intemerata [8], i quali sanno illuminare la Chiesa e farle intendere i suoi veri interessi contro le mene di un partito, che vorrebbe regalare al mondo quella medesima civiltà, nè più nè meno, che beava i Padri nostri nel medio evo; quella cioè che felicita i popoli mantenendoli, in una perpetua tutela e lor togliendo ogni cura, fin quella del pensiero [9]. Cotesti signori per contrario intendono emancipare i popoli, giacchè sono oggimai adulti, e dar loro balìa del pensare, e, quel che ne è conseguenza, dell'operare. I frutti di sì fatta balìa li stiamo già assaporando, e non pare che sieno per riuscire gustosi al palato di quegli stessi, che li promossero.
Ma ascoltiamo, quali sono queste buone ragioni, colle quali deesi mostrare alla Chiesa che son da dismettere le sue ubbìe intorno alla libertà religiosa? Il Tagliaferri distingue due concetti in quello della libertà religiosa: la libertà di coscienza e la libertà deiculti. E quanto alla prima egli dice che altro è considerarla in ordine a Dio, all'Evangelio, alla Chiesa; altro il considerarla in ordine allo Stato. Nel primo aspetto ella è un'assurdità, nel secondo un diritto, perciocchè lo Stato non è giudice della verità religiosa. Onde inferisce che la libertà di coscienza in faccia allo Stato è conforme alla ragione. È di più conforme al Vangelo, giacchè è un corollario della spiritualità dell'anima; la quale non può essere costretta dalla forza materiale. Infine è conforme alla costituzione stessa della Chiesa, perchè in altra guisa non è possibile la distinzione dell'ordine religioso dall'ordine civile e politico.
Quanto alla libertà dei culti la cosa non procede sì liscia. Qui l'Autore concede allo Stato il diritto di limitarla. «La libertà assoluta dei culti, egli dice, non è logica, che pei seguaci dell'assoluto indifferentismo religioso, per quelli che negano l'immensa efficacia della religione sulla moralità e sul ben essere de' popoli, e tollerano tutte le religioni esistenti, come una fatale e dolorosa necessità. Ma chi guarda con altro occhio le religioni nelle loro attinenze colla società, chi mette differenza tra la verità e l'errore e tra l'influenza dell'una e quella dell'altro sulla morale, sui costumi e sulla felicità dei popoli, non può non riguardare la libertà illimitata dei culti come un funesto delirio. Ed in vero qual governo cristiano vorrebbe così bruttamente sconoscere i proprii diritti e doveri, da tollerare che nel seno del cristianesimo si risusciti il culto di Priapo o di Venere coi suoi turpi sacrifizii? o che si stabilisca un culto idolatrico colle sue ecatombe di sacrifizii umani; ovvero un culto, quale lo vagheggia l'odierno socialismo, avente a suoi dommi la proprietà essere un furto, il matrimonio una schiavitù, l'autorità paterna e sociale una tirannia?
Vinta dall'evidenza di tali ragioni tutta la parte assennata e cattolica del liberalismo è assai lungi dall'ammettere una illimitata libertà dei culti (non vediamo perchè queste ragioni non debbano valere contro la libertà di coscienza). Essa concede al potere civile il diritto di vietare qualsiasi culto, il quale violasse i dettami naturali della morale e fosse sovversivo dell'ordine pubblico: il che importa ch'egli abbia già fino ad un certo limite il diritto di conoscere ed esaminare la religione de' sudditi [10].» Mentre poi il lettore si aspettava di veder determinato più in particolare quali sieno quei culti, a cui debba concedersi libertà di professione, il Tagliaferri abbandona questo punto e torna alla sua tesi generale della libertà religiosa, magnificando l'efficacia che essa avrà per la diffusione del cattolicismo, e declamando contro l'uso della forza in questa materia.
Da ultimo si propone due difficoltà, alle quali sente il dovere di rispondere. L'una è, che la libertà di coscienza si oppone all'unità religiosa, tanto necessaria all'unità nazionale. La seconda, che la libertà di coscienza è la libertà dell'errore, e l'errore non può godere un diritto che è proprio della verità. Alla prima risponde, che l'unità religiosa è certamente un bene; ma deve conseguirsi non col costringimento, bensì colla persuasione. Di più, se si ammette come necessaria a costituire l'unità nazionale, si dovrà concedere per tutti i popoli; e allora saranno legittimate tutte le persecuzioni degli eterodossi contro i cattolici. Alla seconda avea già risposto più sopra, che non bisogna confondere la verità oggettiva colla verità soggettiva [11]. Qui aggiunge che la libertà dell'errore non è altro che la libertà del male; e questa non è stata da Dio negata all'uomo. Ma come la libertà del male non può impedire il trionfo finale del bene, così la libertà dell'errore, anzichè impedire, agevola il trionfo finale della verità. «Infine, esclama, di che si tratta? Di sostituire al sistema dell'intolleranza religiosa, che finora ha dominato il mondo, quello della libertà. Il primo ha dato i suoi frutti, ed abbiamo forse a rallegrarcene? Sperimentiamo dunque il secondo, e dai suoi frutti lo giudicheremo [12].» Come vedete, non si pretende altro, che fare un'esperienza.
In tutto questo discorso l'Autore muove da un falso supposto, e procede innanzi a via di equivoci e di incoerenze. Egli muove dal supposto dello Stato ateo e separato dalla Chiesa. Se così non fosse, come potrebbe concepire la libertà di coscienza qual diritto in ordine allo Stato, mentre la dice una assurdità in ordine a Dio ed alla Chiesa? Se lo Stato riconosce Dio, non può riguardare se non come assurdità ciò, che è tale rispetto a Dio. Se lo Stato è in armonia colla Chiesa, non può non conformare le sue leggi ai dettami di lei. Vale qui ciò che S. Agostino scriveva al conte Bonifazio: «Quando i Re non ancora servivano a Dio, ma tuttavolta meditavano cose vane contro il Signore e il suo Cristo, l'empietà non poteva certamente essere repressa dalle leggi, ma piuttosto fomentata. Ma posciachè cominciò ad effettuarsi quella sentenza: Lui adoreranno tutti i Re della terra, e a Lui serviranno tutte le genti, qual uomo di mente sana può più dire ai Re: Non vi curate se nel vostro regno sia obbedita o oppugnata la Chiesa del Signor vostro, nè vi caglia che i vostri sudditi sieno pii o sacrileghi; mentre ai medesimi Re non può dirsi: Non vi caglia che nel vostro regno si osservi o no la pudicizia? O è cosa più lieve che l'anima manchi di fede a Dio, di quello che la moglie manchi di fede al marito [13]?» E S. Gregorio Magno scriveva a Maurizio Imperatore: «Per questo scopo la potestà sopra gli uomini alla pietà de' Principi nostri è stata data da Dio, acciocchè fossero aiutati i sudditi al bene, e la via del cielo più ampiamente si aprisse, e il terrestre regno servisse al celeste [14].»Ma lo Stato, egli dice, è impersonale, e non è giudice competente in materia di religione. Rispondiamo: è impersonale in astratto, non in concreto. Dei due elementi sociali, la moltitudine e l'autorità, come il primo si personifica nei sudditi, così il secondo si personifica nel superiore. Lo stesso Tagliaferri attribuisce allo Stato la personalità, quando gli approda; giacchè là dove vuol concedergli il diritto di limitare la libertà dei culti, dice: Qual Governo cristiano vorrebbe così bruttamente sconoscere i proprii diritti e doveri, da tollerare che nel seno del cristianesimo si risusciti il culto di Priapo o di Venere? Ecco lo Stato riguardato come persona, giacchè se gli attribuiscono diritti. Anzi eccolo riguardato come persona battezzata, giacchè si chiama cristiano, e da tal professione si fanno derivare in lui de' doveri. Or perchè non si poteva dalla medesima professione dedurre l'obbligo di vietare la libertà di coscienza; la quale, essendo, per confessione dell'Autore, un'assurdità in ordine al Vangelo, non può non esser tale agli occhi del cristiano? Non si poteva, dirassi, perchè lo Stato non è giudice della verità religiosa. Ma noi non vediamo perchè questa ragione debba valere per la libertà di coscienza, mentre secondo lo stesso Tagliaferri, non vale per la libertà dei culti. Egli, come a pagina 383 riconosce la personalità dello Stato, dopo averla negata a pagina 381; così dopo aver detto più volte che lo Stato non è giudice in religione, a pagina 381 il riconosce finalmente per tale, concedendogli fino a un certo limite il diritto di conoscere ed esaminare le religioni dei sudditi. E qui vuolsi avvertire che nel sistema del Tagliaferri lo Stato eserciterebbe un tal sindacato, dopo avere stabilita la libertà di coscienza, vale a dire contraddicendo a sè stesso, e lo eserciterebbe in nome proprio, cioè erigendosi in vero giudice della religione: laddove nel sistema degli avversarii della libertà di coscienza lo Stato è consentaneo a sè medesimo, e non proferisce giudizio da sè, ma sol si conforma a quello della Chiesa, afforzandolo colle sue leggi. Noi per fermo non giungiamo a capire la logica del nostro Autore. Lo Stato, secondo lui, ammaestrato dalla ragione, può giudicare, per cagion d'esempio, che il culto di Priapo viola i dettami della morale e sovverte l'ordine civile; e non può, ammaestrato dalla Chiesa, giudicare che tale o tale eresia o credenza scismatica viola i dettami del Vangelo e sovverte l'ordine religioso!
Se ciò potesse, ripigliasi, allora come gli Stati cattolici han diritto a vietare le altre credenze per serbare l'interna pace e l'unità nazionale; così per la medesima ragione gli Stati infedeli ed eterodossi avran diritto a proibire il Cattolicismo. Ed ecco l'Achille del Tagliaferri, a cui sovente ricorre. Ma in primo luogo una tale difficoltà milita anche contro di lui, giacchè egli vuole esclusi dagli Stati cristiani i culti idolatrici. Contro di lui pertanto può dirsi: se voi stabilite ciò, gli Stati idolatrici avranno dritto a vietare il culto cristiano, val quanto dire il Cristianesimo; giacchè il Cristianesimo non può stare senza culto. In secondo luogo diciamo che la ragione primaria e sostanziale, per cui si riprova la libertà di coscienza, non è la pace e l'unità nazionale, bensì l'obbligazione di professare l'unica vera religione e di provvedere così al conseguimento del supremo fine dell'uomo. La pace e l'unità nazionale può allegarsi come ragion secondaria (giacchè è un bene ancor essa), ma nella supposizione del possesso della vera religione. Imperocchè nell'ipotesi contraria ha luogo piuttosto la sentenza di Cristo: Non veni pacem mittere sed gladium; essendo, senza paragone, minor male la discordia nazionale, che la perseveranza nell'errore in materia di religione, da cui dipende l'eterna salute dell'anima. Ma quando già si possiede per questa parte la verità, è certo una nuova ragione per tener chiuso l'adito alle false credenze, la scissura che esse arrecherebbero in un medesimo popolo. Premesse siffatte cose rispondiamo alla difficoltà del Tagliaferri colle sapienti parole del P. Tarquini, il quale avendosi fatta la medesima obbiezione la risolve così: «Nego il supposto, cioè che all'errore, per questo capo almeno che non si crede tale, competano gli stessi diritti che alla verità: la qual cosa è tanto falsa, quanto il dire che ai matti, per ciò che non si sentono tali, competano gli stessi diritti che ai sani di mente. In questa materia deve distinguersi un triplice aspetto. Il primo è in ordine alla coscienza della Chiesa; il secondo in ordine alla coscienza degli eterodossi; il terzo in ordine alla cosa stessa, secondochè può essere giudicata da un estraneo qualsiasi. Per quel che spetta alla Chiesa, ella, non tanto per l'opinione propria, quanto per la testimonianza divina, è certa che in lei si trova la verità, nelle false religioni l'errore, e che ciò appartiene ad un articolo di fede, contro cui non può far nulla. Quindi ella non fa uso di due bilance e due misure, ma sta ferma nella legge eterna, la quale attribuisce alla verità il dominio sopra l'errore, e nega ogni partecipazione della giustizia colla iniquità e comunanza tra la luce e le tenebre (II Cor. VI) [II Cor. VI, 14-16: Quae enim participatio justitiae cum iniquitate? aut quae societas luci ad tenebras? quae autem conventio Christi ad Belial? aut quae pars fideli cum infideli? qui autem consensus templo Dei cum idolis? N.d.R.]. Quanto agli eterodossi, finchè essi sono inbuona fede, godono dello stesso diritto che gli amenti, ai quali non viene imputato nulla di ciò che essi fanno in tale stato. Finalmente per ciò che riguarda la cosa in sè stessa, ella ha tali caratteri, che nel foro, almeno esterno, non ci ha persona equa, la quale non debba riconoscere i diritti della Chiesa. Imperocchè, checchè sia dell'interna buona fede degli eterodossi, questa per fermo non può esternamente dimostrarsi presso nessun giusto estimatore. Conciossiachè o essi seriamente e con retta volontà pongono mente ai motivi di credibilità della Chiesa cattolica, e alle note di falsità della propria setta, ovvero no. Se in nessun modo o indebitamente vi attendono, la loro ignoranza, essendo crassa o affettata, non può conciliarsi con la buona fede. Se vi attendono e debitamente, molto meno può ammettersi che essi perseverino nel loro errore in buona fede. Imperocchè sia che ponderino dall'una parte l'origine della Chiesa cattolica, e, insieme colla perpetua serie de' suoi Pontefici, la non mai mutata fede, da S. Pietro e però dallo stesso Cristo fino a Pio IX, che ora ad essa presiede, la fermezza di lei e conservazione ed eziandio propagazione contro le porte dell'Inferno, la sua santità e i non mai cessati miracoli, e gli altri, che diconsi motivi di credibilità e sono agli occhi di tutti testimonianze divine; sia che dall'altra parte considerino l'origine della propria setta, la variazione della dottrina, le male arti colle quali si stabilì e combattè contro i cattolici, l'aridità dello spirito, lo studio della carne e dei temporali vantaggi, la mancanza de' miracoli, la fecondità o nulla o procurata con turpi mezzi, e le altre macchie, di cui ogni setta è insozzata; se essi, diciamo, ponderino bene coteste cose, indubitatamente debbono confessare, purchè abbiano sana la mente, di trovarsi nell'errore. Checchè sia dunque dell'interno stato di ciascun eterodosso, del quale è giudice Iddio, per certo esternamente nessun giusto estimatore può giudicare che essi sieno in buona fede [15].»
Niuna confusione adunque tra la verità obbiettiva e subbiettiva si fa dai Cattolici, allorchè negano alle false religioni i diritti della vera. Essi intendono parlare della verità in quanto informa il soggetto; giacchè, in quanto informa il soggetto, genera in esso diritti: e ciò in niuna maniera può competere all'errore; poichè primo fondamento del diritto non è che il vero. Che poi taluno stando nell'errore creda di essere nella verità e quindi possedere i diritti che da essa derivano, questa è un'altra faccenda, la quale si riferisce non al diritto pubblico, ma alla casuistica, e nei casi particolari non può essere giudicato da noi, ma dal solo Dio. Ricordi il lettore quelle parole di Cristo agli Apostoli: Venit hora et nunc est, ut omnis qui interfecit vos arbitretur obsequium se praestare Deo [16]. Ecco accennati dei persecutori del Vangelo, i quali credevano di esercitare non pure un diritto, ma un dovere. Ma che per ciò? Ne scapitava forse il merito degli Apostoli? No, certamente: perchè la santità del martirio procede dalla santità della causa, per cui s'incorre; non dalla buona o mala fede, in cui per ventura si ritrovi chi lo infligge.
Piuttosto il sig. Tagliaferri incorre in confusione ed equivoci, allorchè stabilisce che subbiettivamente possono darsi molte Chiese vere. «Obbiettivamente, egli dice (pag. 381) una è la vera Chiesa, come una è la verità; ma subbiettivamente può dirsi il medesimo? La Chiesa vera è di fatto riconosciuta da tutti gli Stati e da tutti i popoli della terra? Pur troppo no. Dunque dando allo Stato e alla società civile il diritto di imporre ai sudditi la fede della propria Chiesa, tu darai agli Stati eterodossi, alle società pagane il diritto di bandire e perseguitare la fede cattolica.» In prima noi saremmo curiosi di sapere come l'Autore definisce la verità subbiettiva. Sembra che egli pensi che l'adesione dell'animo, quale che essa sia, debba aversi per verità soggettiva. In ciò egli s'inganna a partito. La verità subbiettivamente, cioè in quanto informa il soggetto, è definita da S. Tommaso: l'adequazione, ossia la conformità, della mente coll'oggetto. Essa è la manifestazione, che la verità oggettiva fa di sè nel soggetto. Dunque, quando una tal manifestazione non ha luogo, quando invece di conformità ci ha difformità dall'oggetto, la verità soggettiva non sussiste, ma invece ci ha falsità. Può la persona non accorgersi di tal falsità, e talvolta invincibilmente. Ma questa, come dicemmo, è un'altra quistione, la quale riguarda la coscienza dinanzi a Dio, ma non costituisce nessun diritto nel mondo sociale. Menereste voi buona ai briganti la scusa d'essere intimamente convinti, che nelle presenti condizioni d'Italia, in cui tutto è ladroneccio, sia lecito far bottino della roba altrui, ecombattere la forza pubblica, da loro riputata illegittima? Sarebbe retto il discorso, che se voi concedete alla società il diritto di punirli, date anche ad essi il diritto di punire i gendarmi, che capitassero nelle loro mani? Se ogni persuasione, quale che sia, dovesse dirsi verità soggettiva, non ci sarebbe più errore; giacchè l'errore obbiettivo non esiste: ogni errore è sempre subbiettivo.
In secondo luogo il sig. Tagliaferri si finge a volontà l'avversario, allorchè combatte il principio: Avere lo Stato il diritto d'imporre ai sudditi la fede della propria Chiesa. Certamente, stabilito un tal principio, esso varrebbe per tutti gli Stati, quale che fosse la religione del paese. Ma chi mai ha sognato di dire ciò? Quel, che si dice, si è che, come l'individuo, così lo Stato ha il dovere di abbracciare la vera religione ed, abbracciatala, ha non pure il diritto ma il dovere di assicurarne il tranquillo possesso e la conservazione ai suoi sudditi, col chiudere l'adito alle false religioni; e ciò non imponendo la fede, la quale s'induce colla predicazione non colla forza, ma vietando nell'ordine esterno, su cui solamente ha potere, la professione de' falsi culti. Il che dallo stesso Tagliaferri si riconosce, come notammo, per rispetto ai culti idolatrici; nè, a dire il vero, sappiamo perchè non possa egualmente riconoscersi per rispetto agli altri culti, non idolatrici ma nondimeno eterodossi. Non sono essi altresì contrarii alla verità, la quale è una ed indivisibile? Non mettono essi altresì, sebbene per altra via, a ripentaglio l'eterna salute degli uomini? Dirassi: ma allora anche gli Stati eterodossi si arrogheranno il diritto di escludere il Cattolicismo. Rispondiamo: Se ciò faranno, opereranno iniquamente per le ragioni recate di sopra, e saranno puniti da Dio; ma possiamo noi, perchè altri ingiustamente si arroga un diritto, negarlo eziandio a cui giustamente compete, e per riguardo all'altrui malizia, o, se volete anche ignoranza, mutare l'ordine della verità e della giustizia?
È curiosa ancora la confusione che fa l'Autore tra Dio come creatore e Dio come provisore. Egli in ordine al male confonde la libertà fisica, creata da Dio nell'uomo come risultato della sua natura razionale finita, con la libertà morale, che Iddio non concede ma nega all'uomo in virtù della legge che impone al medesimo, e di cui nella società viatrice ha costituiti suoi esecutori e ministri le legittime autorità sulla terra: Dei minister est..... vindex in iram ei qui malum agit [17]. Lo stesso dicasi del tanto esaltare, che fa il nostro Tagliaferri, la forza della verità a fronte dell'errore. Qui, sì, egli confonde l'ordine obbiettivo col subbiettivo. Imperocchè la verità, quantunque potentissima in sè medesima, nondimeno, attesa la corrotta nostra natura, perde assai della nativa sua forza in noi, a fronte di errori che favoreggiano le passioni. Ubi sumus, dice acconciamente S. Bernardo, vallisest lacrymarum, in qua sensualitas regnat et consideratio exulat; in qua libere quidem et potestative se exserit sensus corporeus, sed intricatus caligat oculus spiritualis[18]. Per riguardo adunque della nostra fralezza la verità e la virtù han bisogno di aiuti e di presidii. E di fermo, ci sarebbe mai un padre sì matto, che permettesse ai suoi figliuoli e alle sue figliuole qualunque compagnia, qualunque lettura, qualunque discorso, sull'idea che il bene è più potente del male e la verità dell'errore [19]? Ma che volete? Appena uno si dà al liberalismo, benchè d'altra parte persona savia, non sappiamo per qual malo fato, comincia issofatto a vacillare nei concetti più ovvii del senso comune. E un vacillamento appunto di tal fatta ci sembra la conclusione dello scritto, che stiamo esaminando, allorchè propone di fare lo sperimento della libertà religiosa, per vedere che cosa n'esce. Un punto, da cui dipende la morale dei popoli, e la felicità, non pur temporale ma eterna d'intere generazioni, metterlo in avventura, farne obbietto di curiosità sperimentale! L'Autore concede che il sistema contrario ha finora dominato il mondo. Or vi sembra piccola bagattella abbandonare un sistema, che ha per sè il suffragio dell'intera umanità? –– Ma i liberali moderni così la pensano. Molte cose pensano i liberali moderni; ma noi più che ai loro pensamenti crediamo prudente attenerci ai dettami della ragione e del senso comune; e soprattutto agli insegnamenti di chi è stato dato da Dio maestro e duce alle genti, quale è il suo Vicario in terra. Or la voce di questo maestro non pare che sia fin qui molto concorde a quella dei nostri barbassori liberaleschi.
NOTE:
[1] Quaderno 58.[2] Pag. 375.
[3] Pag. 377.
[4] Pag. 376.
[5] S. Bernardo, parlando di questa razza di obbedienti, i quali invece di conformarsi al sentimento del Superiore, vogliono che il sentimento del Superiore si conformi al loro, dice: Quisquis vel aperte vel occulte satagit ut, quod habet in voluntate, hoc ei spiritualis Pater iniungat; ipse se seducit, si forte sibi quasi de obedientia blandiatur. Neque enim in ea re ipse Praelato, sed magis ei Praelatus obedit. Sermo de tribus Ordin. Ecclesiae.
[6] Vedi l'articolo precedente.
[7] Pag. 376.
[8] Ivi.
[9] Pag. 378.
[10] Pag. 383.
[11] «L'unità religiosa è necessaria o no a costituire una nazione? Se non è, l'obbiezione che stiamo esaminando cade da sè. Se è, lo è per tutti, ed i Governi etorodossi e idolatri hanno il dovere di mantenerla, non meno dei Governi cattolici. Ma quelli, dirai, non sono nella verità, come questi. Siamo sempre al medesimo sofisma di confondere la verità obbiettiva con la subbiettiva. Pag. 390.»
[12] Pag. 391.
[13] Cum nondum Reges Domino servirent scd adhuc meditarentur inania adversus Dominum et adversus Christum eius, non utique tunc possent impietates legibus prohiberi sed magis exerceri ... Postea vero quam coepit compleri quod scriptum est: Et adorabunt eum omnes Reges terrae, omnes gentes servient illi, quis mente sobrius Regibus dicat: Nolite curare in regno vestro a quo oppugnetur Ecclesia Domini vestri; non ad vos pertineat in regno vestro quis velit esse sive religiosus, sive sacrilegus; quibus dici non potest: Non ad vos pertineat in regno vestro quis velit pudicus esse, quis impudicus? An fidem non servare levius est animam Deo quem feminam viro? Epist. 185, alias 50.
[14] Ad hoc potestas super omnes homines Dominorum nostrorum pietati caelitus data est, ut, qui bona appetunt, adiuventur, ut caelorum via largius pateat, ut terrestre regnum caelesti regno famuletur. Lib. 2. Ep. XI.
[15] Iuris Ecclesiastici publici Institutiones, Auctore Camillo Tarquini e Societate Iesu, Iuris canonici Professore in Collegio Romano eiusdem Societatis, Romae 1868, Pag. 77.
[16] Ioan. XVI, 2.
[17] Ad Rom. XIII, 4.
[18] De Consideratione, l. V, c. 1.
[19] Vedi sopra questo punto l'articolo precedente.