Ingresso di Vittorio Emanuele II in Napoli il 7 novembre 1860
Voglio
ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi
data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.
Mentre il Regno era in preda a tutti i mali derivanti da una rivoluzione ed invasione, in Gaeta ed in Mola, i due avversari si preparavano all'ultima lotta. Il tenente generale Pietro Vial fu eletto a governatore; alla sua immediazione furono destinati i due noti capitani di Stato Maggiore, sig. Michele Bellucci e sig. Giovanni de Torrenteros fatto poi maggiore. Sotto governatore fu eletto il generale conte Marulli già sperimentato bravo e solertissimo. Cialdini comandava gli assedianti piemontesi, coadiuvato da Menabrea pei lavori del genio, col concorso dell'ingratissimo disertore Guarinelli; costui già uffiziale dello stesso corpo del genio, fatto ricco pe' lavoro eseguiti in Gaeta, e assai protetto da Re Ferdinando II, che erasi fabbricato il migliore ^¦rAjxlic> che vi è in quella Piazza. A Guarinelli erano uniti altri uffiziali dell'esercito borbonico, che pure erano disertori della patria bandiera.
Il bombardamento, da parte de' Piemontesi, cominciò ad essere serio verso la metà di novembre: dico bombardamento e non assedio, perché opere di un vero assedio per parte de' Piemontesi non se ne fecero; essi alzavano batterie sopra tutto il fronte di terra della Piazza, non con lo scopo di aprire la breccia ed assalire Gaeta, ma col fine di distruggerla, e far capitolare i superstiti afffranti dalle fatiche. La Piazza non avea cannoni rigati, solamente pochi da campo: Cialdini se ne ebbe 166 rigati, ed alcuni traenti sino a 4700 metri.
Mentre i Piemontesi alzavano batterie nel Borgo di Gaeta, la Piazza li molestava. Il 18 novembre, Cialdini chiese un armistizio al Governatore Vial, sotto pretesto di fare sgomberare i cittadini dal Borgo e gli fu concesso. Il Vial poi alla sua volta domandò che si rispettassero le case di Gaeta, si tirasse solamente contro le batterie, e si guardassero con più cura gli ospedali ov'erano i feriti. Cialdini rispose che dovea tirare contro Gaeta senza distinzione alcuna, solamente si limitava a non molestare i tre ospedali, ed il luogo ove abitasse la Regina Maria Sofia. Costei non accettò per sè quest'atto cavalleresco del Generale piemontese, ed in cambio fece alzare la bandiera nera sopra il bel tempio di S. Francesco, come si era alzata sopra i tre ospedali; que' luoghi doveano essere rispettati da' colpi del nemico. Il cavalleresco Cialdini non mantenne la parola, appena si alzarono le quattro bandiere sopra i luoghi indicati, egli le fece prendere di mira, e sovr'esse scagliavansi bombe, granate e palle piene. Fu necessario di abbassare quelle bandiere, conciosiachè molti de' poveri feriti furono uccisi; gli ospedali e la Chiesa di S. Francesco già stavano per andare in ruina. Vial scrisse a Cialdini, e lo rimproverò, non solo che non adempisse gli usi di guerra tra nazioni civili, ma neppure la sua parola. Quel Generale sardo rispose da quell'uomo ch'egli è: le bombe non hanno occhi. Questa risposta forse l'avea appresa nella guerra ch'egli dice di aver fatta per sette anni in Ispagna? Oh quante maschere sono cadute nel 1860 61 e 66! La dimane, Vial gli scrisse di nuovo, e gli dicea che vi erano in Gaeta 600 cavalli e 560 muli: gliene avrebbe dato la metà purchè facesse passare l'altra metà nello Stato pontificio, diversamente li ucciderebbe. Cialdini rispose che, li uccidesse pure. Ma nessuno ebbe cuore di uccidere quegli animali.
Il 25 novembre, una tempesta obbligò quattro navi mercantili sarde a salvarsi nel porto di Gaeta, era una regolare e giusta preda di guerra; però Re Francesco, sempre clemente, non volle punire que' mercanti innocenti e liberi li rimandò con le navi.
In Gaeta erano i Ministri esteri accreditati presso il Re, ad eccezioni di quelli d'Inghilterra, Francia e Sardegna. Francesco II, per non esporli a privazioni e pericoli di un lungo assedio, l'invitò a partirsene per Roma, e come onoranza diede loro delle decorazioni di diversi Ordini.
I Piemontesi non mancavano di amici nella Piazza, e non contenti di costoro, spesso con la condiscendenza di qualche comandante de' legni francesi, vestivano l'uniforme francese, scendeano in Gaeta, e fingendo curiosare, osservavano tutto e prendeano ad occhio il disegno de' luoghi attaccabili.
Il 19 novembre giunse a Gaeta il generale Bosco, il quale dopo di essere stato invitato dal Governo piemontese a servirlo si rifiutò: militare onorato e valoroso scelse chiudersi col suo Re nell'ultimo baluardo della tradita Monarchia. La presenza di Bosco in Gaeta rialzò gli animi de' soldati, e già si parlava fare delle sortite dalla Piazza, vociferandosi che si sarebbe anche presa l'offensiva. Veramente qualunque fosse stato lo spirito militare della guarnigione, non era più tempo di sperare di vincere, dapoichè il nemico era tre volte superiore di forze e si era ben fortificato. Neppure poteansi fare valide sortite dalla Piazza per guastare le fortificazioni, perché troppo lontane, e nell'andarvi eravi probabilità di essere tagliati fuori Gaeta.
Siccome si aveano forti indizii che i Piemontesi alzassero batterie nella valle Atratina e sul vicino colle de' Cappuccini, Bosco progettò di fare una ricognizione per assalire que' due punti che si stavano fortificando e guastare le fortificazioni cominciate. Egli scelse 400 cacciatori dell'8°, 9°, e 16°, alcuni soldati esteri, e il tenente-colonnello Migy. Invitò i Chirurgi ed i Cappellani se volessero accompagnare i proprii soldati, solamente si presentarono il Chirurgo de Dominicis del 9° Cacciatori e il Cappellano dello stesso corpo. Il Maggiore Gotscher comandava altre frazioni del 7°, 8° e 9° in riserva.
Nella notte del 28 novembre, nella quale facea gran freddo, ci condussero alla gran sortita, che corrispondeva sotto la batteria di Philipstadt di fronte a Montesecco. Di tanto vino e tanti liquori che erano in Gaeta, a' soldati neppure se ne diede una goccia per riscaldarli e porli in brio. All'alba del 29, Migy con 400 soldati scelti si avanzò sul colle de' Cappuccini, lo seguirono pure il Chirurgo e il Cappellano.
Bosco rimase nel piano di Montesecco con la riserva per osservare e dirigere quella sortita. Era quel punto assai pericoloso, stantechè il nemico se non vedeva noi che salivamo il Colle, vedea benissimo la truppa di riserva in mezzo al piano di Montesecco.
Giunti alla valle Atratina, sorpresa la sentinella piemontese, il resto della guardia fuggì e diede il grido di allarme. Quella mattina, Cialdini avea ordinato una rassegna militare, e tutta la sua gente si trovava sotto le armi, quindi gli riuscì facile spiccare parecchi battaglioni contro di noi appena intese quel grido di guerra. Tosto seguì furioso combattimento, ma i Napoletani trovaronsi uno contro dieci; nonpertanto si avanzarono sino a' Cappuccini, e poterono osservare che non vi erano fortificazioni, e che solamente erano iniziate nella valle di Colegno. Bosco, vedendo sopraffatto Migy chiamò a raccolta, e corse con la riserva comandata da Gotscher; e così i 400 soldati si poterono ritirare sempre facendo fuoco. Il nemico appena giunse a tiro dell'artiglieria della Piazza, fu arrestato nella sua marcia.
Quella ricognizione riuscì a metà, cioè non si guastarono fortificazioni perché non ve n'erano; però si venne a conoscenza che il nemico non avea fatto opere di offesa, ma che le avea iniziate nella valle di Colegno, ed ivi la Piazza diresse i suoi colpi.
La ricognizione del 29 novembre costò la vita al prode tenentecolonnello Migy, ferito di palla di moschetto; la sera morì all'ospedale di Gaeta.
Vi furono altri quattro uffiziali feriti, cioè Napoli, della Noce, Rieger, Zelger, e trenta soldati tra morti e feriti. Il generale Bosco ebbe ucciso al suo fianco il caporale trombetta di cognome Sergente, il quale stava vicino ad esso per ricevere gli ordini e trasmetterli con la tromba; un proiettile altresì forò il calzone del Generale sul collo del piede.
Intanto qualche uffiziale che godea la pace e le delizie di Roma, malignando sempre, di là vide che Bosco in quella ricognizione si occultò sotto la gran sortita; sono delle calunnie inqualificabili...!
Migy ebbe onorevoli funerali per quanto il luogo e le circostanze lo permisero, ed il sig. de Torrenteros lesse nel rincontro un commovente elogio, rammentando le virtù e le prodezze dell'estinto; quel discorso fu pubblicato nel foglio uffiziale di Gaeta.
I Piemontesi mascherandosi con le case del Borgo vicinissime alla Piazza, lavoravano ad alzar batterie.
Bosco propose un'altra sortita per diroccare quelle case, e cacciare da quel luogo il nemico. La notte del 4 dicembre, uscì dalla Piazza con 120 soldati scelti tra il 7°, 8° e 9° cacciatori, con tre uffiziali, cioè l'aiutante maggiore Simonetti, il capitano Carrubba, il tenente Corrado, il Chirurgo e il Cappellano del 9° cacciatori.
Vi erano otto artiglieri che portavano un gran barile pieno di polvere. Mentre i Cacciatori assalivano e metteano in fuga i Piemontesi, gli artiglieri, guidati dal distinto tenente Corrado, piantarono il barile in mezzo a quelle case, ove il nemico faticava per alzare una batteria. Appiccata la miccia al barile, fu dato fuoco, e tutti ci ritirammo. Dopo pochi minuti saltarono in aria parecchie case; e così si potette impedire al nemico di alzarci una batteria sotto i baffi.
I Sardi, messi dietro le batterie che aveano alzate, percuotevano Gaeta con grossi cannoni rigati collocati sui colli Montecristo, S. Agata, e Casa Arzano, senza essere molestati; dapoichè la Piaza non avea cannoni eguali a controbatterli. I più micidiali proiettili che scoppiavano dentro Gaeta erano granate sistema Charaphenel; ho detto altrove in qual modo è formato questo terribile proiettile, il quale fa l'ufficio della palla e della granata, scoppiando appena urta, perché la superficie è tutta piena di capsule fulminanti.
Ne' primi giorni di dicembre il bombardamento di Gaeta potea dirsi mite a paragone di quello che poi seguì; in que' giorni cadeano nella Piazza da 300 a 400 proiettili.
II2 dicembre il Governatore di Gaeta tenente-generale Pietro Vial, perché vecchio e malaticcio, cedè il suo posto, e fu surrogato interinamente dall'infaticabile briga diere Conte Marulli.
Ho detto che io ero rimasto cogli abiti che avea addosso, e siccome erano troppo leggieri, il freddo mi costrinse ad indossare un pantalone di soldato e un giacchettino, sopra il cappotto mezzo militare; covrendomi la testa del tricorno, che spesso abbassava le falde per lungo uso, e per le continue piogge, e ciò ad onta delle mie non poche cure per farle tener diritte. Era una vera caricatura!
Ero entrato in Gaeta in quel costume, e non avea potuto procurarmene un altro più conveniente. Un giorno trovandomi sulla batteria dell'Annunziata, vidi il Re accompagnato da Bosco; per non farmi vedere in quella ridevole toletta, cercai nascondermi; ma Bosco che mi avea veduto, mi chiamò a sè, e fu necessità avvicinarmi al Re, chiedendogli scusa se mi fossi presentato in quell'abbigliamento; dicendogli che non avea potuto trovare altri abiti per vestirmi convenevolmente. Il giovine Sovrano, ch'è la bontà e l'amabilità personificata, mi disse tante care e clementi parole, che io non dimenticherò giammai.
Indi rivolgendomi a Bosco gli disse: «Scrivi un ordine in mio nome, a ciò il Commissario di guerra dia al nostro cappellano tanto castoro per quanto ne ha di bisogno per vestirsi convenevolmente.» Io lo ringraziai, ed Egli non dandosi per inteso de' miei ringraziamenti, mi domandò piacevolmente, se avessi voluto assistere ad un'altra sortita dalla Piazza. Io risposi, non una, ma per mille volte, ordinandolo Vostra Maestà.Il generale Bosco diede l'ordine per farmi dare il castoro dal Commissario di guerra, e costui fece tante difficoltà che fui sul punto di rinunziarvi. Egli il serbava, puol' essere, a' piemontesi? Ma no, che se lo vendette poi a vilissimo prezzo!
Dopo molte insistenze ebbi il castoro, ma della più cattiva qualità; lo diedi ad un sarto per farmi un vestito ed un cappotto, di cui avea tanto bisogno. Cadde una bomba nel magazzino del sarto, e mandò tutto a soqquadro, incendiando ogni cosa, non escluso il mio castoro. Era una disgrazia! E così rimasi in quella toletta che già sapete. Fortunatamente fui in seguito provveduto da un canonico di Gaeta, il quale fu poi sventuratamente ucciso da una bomba mentre si trovava nella Curia.
Re Francesco l'8 dicembre dirigeva a' suoi popoli la seguente proclamazione.
«Da questa piazza, dove difendo più che la mia corona, l'indipendenza della patria nostra, s'alza la voce del vostro Sovrano, per consolarvi nelle miserie, e per promettervi tempi più felici. Traditi ugualmente, ugualmente spogliati, risorgeremo insieme nelle nostre sventure; chè mai non durò a lungo l'opera dell'iniquità, né sono eterne le usurpazioni. Ho lasciato cadere nel disprezzo le calunnie, ho guardato con disdegno i tradimenti; e sinchè tradimenti e calunnie assalivano me solo, ho combattuto non per me, ma per l'onore del nome che portiamo. Ma quando vedo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a' mali dell'anarchia, e della dominazione straniera; quando vedo i popoli conquistati, portati il sangue e le sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di estraneo padrone, il mio cuore napoletano mi batte indignato nel petto, solo consolato dalla lealtà di questo prode esercito e delle forti e nobili voci, che da tutto il Reame si innalzano contro il trionfo della violenza e dell'astuzia. Io sono napoletano nato tra voi; non ho respirato altr'aria, non veduto altri paesi, non conosco altro suolo che il natio. Tutti gli affetti miei sono entro il regno, i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra favella è la mia favella, le vostre nobili brame sono le mie brame. Erede di antica dinastia che ha lunghi anni regnato in queste belle contrade, ricostituendo la indipendenza e l'autonomia, non vengo già dopo spogliati gli orfani del loro patrimonio e de' suoi beni la chiesa, ad impadronirmi con estranee forze della più deliziosa parte d'Italia. Sono principe vostro, che ho sagrificato ogni cosa al desio di serbar tra voi la pace, la concordia, la prosperità. Il mondo l'ha veduto; per non versare vostro sangue, ho preferito rischiare la corona mia. I traditori pagati dallo straniero nemico sedevano accanto a' fedeli nel mio consiglio; ma nella sincerità del mio cuore non potevo credere ai tradimenti.
Troppo mi costava il punire; mi doleva aprire dopo tante sventure, un'êra di persecuzione; e così la slealtà di pochi e la mia clemenza hanno aiutato la invasione piemontese, pria con avventurieri rivoluzionarii, e poi con esercito regolare, resero inattiva la fedeltà de' miei popoli ed il valore de' miei soldati.
Fra continue cospirazioni, non ho fatto versare una goccia di sangue, e mi hanno accusato di debolezza. Se l'amor tenero pei sudditi miei, se la naturale fiducia della giovinezza nell'altrui onestà, se l'orrore istintivo del sangue meritano tal nome, certo debole fui. Quando sicura era la ruina de' miei nemici, ho fermato il braccio de' miei generali per non consumare la distruzione di Palermo; ho preferito lasciar Napoli, la mia casa, la mia diletta città capitale, per non esporla agli orrori del bombardamento, come quei che testè Capua ed Ancona patirono. Ho creduto in buona fede che il re di Piemonte, dicentesi mio fratello, mio amico, che protestava contro Garibaldi, che negoziava meco un'alleanza pei veri interessi d'Italia, non avrebbe rotto tutti i patti, e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivo, senza dichiarazione di guerra. Se questi sono i miei falli, preferisco le mie sventure a' trionfi de' miei avversarii.
Avevo data l'amnistia, avevo aperta la patria agli esuli, conceduta la Costituzione; né certo ho mancato alle promesse. Ero per guarentire alla Sicilia istituzioni libere, che tutelassero con separato Parlamento la sua economica ed amministrativa indipendenza, e togliessero ogni ragione di sfiducia e scontento.
Avevo chiamato ne' miei consigli uomini creduti più accetti all'opinione pubblica in quelle circostanze; e per quanto me n'han permesso le aggressioni incessanti di cui sono vittima, ho lavorato ardentemente alle riforme, a' progressi, a' vantaggi del paese.
Non sono i miei sudditi che han contro di me combattuto; né discordie intestine mi strapparono il regno; mi vince la ingiustissima invasione dello straniero. Le Due Sicilie, salvo Gaeta e Messina, ultimi asili della loro indipendenza, sono nelle mani de' piemontesi. E che ha dato questa rivoluzione a' miei popoli di Napoli e Sicilia? le finanze, già floride tanto, sono ruinate, l'amministrazione è un caos, la personale sicurezza è spenta; le prigioni sono piene di sospetti cittadini; invece di libertà, stati d'assedio nelle province; e un generale straniero detta leggi marziali, e decreta fucilazioni subitanee a quanti dei miei sudditi non s'inchinano alla sabauda bandiera.
L'assassinio ha premio, il regicidio ha l'apoteosi, il rispetto al culto de' padri nostri dicesi fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori del natìo paese hanno pensioni, cui paga il pacifico contribuente. Tutto è anarchia; tutto han rimestato stranieri avventurieri per saziare la loro avidità. Uomini che mai non videro questa parte d'Italia, o che per lunga assenza ne dimenticarono i bisogni, fanno ora il vostro governo. Invece delle libere istituzioni che io v'ho dato, aveste sfrenatissima dittatura; invece della Costituzione, la legge marziale. Sparisce sotto i colpi de' vostri dominatori l'antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III; e le Due Sicilie son dichiarate province di regno lontano. Napoli e Palermo sono rette da prefetti di Torino.
V'è rimedio a tai mali, e alle calamità più grandi che prevedo: la concordia, la risoluzione, la fede nell'avvenire. Unitevi attorno al trono de' vostri padri; copra l'obblio gli errori tutti; e il passato non sia pretesto a vendette, ma salutare lezione. Io fido nella Provvidenza, e quale si sia la mia sorte, resterò fedele a' miei popoli e alle istituzioni che ho concedute. Indipendenza amministrativa ed economica per le Due Sicilie, con parlamenti separati; amnistia piena per tutti i fatti politici; questo è il mio programma; fuor di tali basi non vi sarà pel mio paese che dispotismo o anarchia.
Difensore della sua indipendenza, io resto qui, e combatto per non abbandonare sì santo deposito e caro. Se la potestà torna in me, sarà per tutelare tutti i dritti, rispettare tutte le proprietà, guarentire persone e sostanze contro ogni sorta di oppressioni e saccheggi. E se la Provvidenza ne' suoi alti disegni permette che cada l'ultimo baluardo della Monarchia, mi ritirerò con integra costanza, con incrollabile fede, con immutabile risoluzione, aspettando la inevitabile ora della giustizia; farò voti fervidissimi per la prosperità della mia patria, per la felicità di questi popoli, che sono la più grande e diletta parte della mia famiglia.
FRANCESCO»
Da persona cui dobbiamo credere, siamo stati assicurati che questo proclama, come le profetiche lettere a Napoleone III, e il commovente addio a' difensori di Gaeta, sono parto della mente di quel giovinetto Monarca tanto calunniato dalla rivoluzione.Questa proclamazione commosse le anime sensibili d'Europa: è pietosa e piena di dignità. Però nel Regno non a tutti fece buona impressione, conciossiachè si rifletteva che per causa della Costituzione il Reame era a soqquadro, e l'avvenire si prevedeva tristo: a sentir promettere quella stessa Costituzione dalle ruine di Gaeta, molti amici e devoti al re furono sorpresi ed amareggiati. Francesco II, in quella proclamazione, dicevano, feriva il suo avvenire, togliendo a sè stesso la libertà di azione. Non tutti i Ministri furono di accordo a pubblicare quell'atto sovrano: si disse che Bermudez, ministro spagnuolo accreditato presso il re, l'avesse a ciò consigliato; perché quel Ministro, da giornalista e fattore di barricate in Madrid, era giunto a quel posto mercè la Costituzione, e più di tutto con la protezione di Napoleone III.
In quanto a Re Francesco è da lodarsene l'animo generoso e leale, dapoichè riconfirmando Egli con quel proclama la Costituzione, che allora si riguardava come il prototipo di tutte le felicità del vivere civile, credette far cosa grata e giovevole a suoi carissimi sudditi, L'8 dicembre giunse a Mola Re V. Emmanuele per rivedere i lavori del bombardamento. Cialdini annunziò al Comandante la Piazza di Gaeta che per quel giorno si sospenderebbero le ostilità; e gli si rispose che Gaeta volentieri farebbe tregua, essendo quello un giorno consacrato a Maria SS. Immacolata. Però si avvertiva Cialdini che per quel giorno non si eseguissero lavori contro la Piazza; costui promise, e al solito, non adempì.
Gaeta era sopraccarica di soldati, si pensò quindi a lasciar quelli che erano necessarii a sostenere la difesa. Il Re si risolvette a sciogliere i tre Reggimenti della Guardia, i quali, ad eccezione di pochi uffiziali, abbiamo veduto qual trista prova fecero sotto S. Maria di Capua il 1° ottobre! Il Re sciogliendo que' tre Reggimenti, e ritenendo nella Piazza i battaglioni cacciatori, rese giustizia al merito e al valore di questi ultimi che ben servito aveano da Boccadifalco a Gaeta, essendosi battuti da valorosi, mentre non erano stati trattati in tempo di pace con gli stessi soldi e riguardi della Guardia reale, ma a percorrere 160 passi al minuto!...
Molti uffiziali della Guardia non voleano partire da Gaeta; essi voleano partecipare all'avversa fortuna del loro amato Sovrano: e non pochi, benchè non avessero più soldati sotto i loro ordini, per grazia speciale del Re, ottennero l'onore di rimanere nella Piazza. I tre Reggimenti disciolti furono imbarcati sopra i legni mercantili francesi a servizio del Re e mandati nel Regno.
Nella Piazza di Gaeta rimasero 12219 soldati, 994 uffiziali, e 1148 tra muli e cavalli, questi ultimi non erano più utili a cosa alcuna.
Il maresciallo La Tour en Voivre, partito da Gaeta trovavasi a Marsiglia per fare acquisto di farina e gallette. Il 23 dicembre riuscì a far giungere a Gaeta due bastimenti carichi di vettovaglie. Al contrario i Piemontesi assedianti difettavano di viveri, e furono costretti farli venire dalla Sardegna.
Molte barche di Castellammare, di Napoli, d'Ischia, e di altri paesi marittimi, rischiavano spesso passando in mezzo la crociera piemontese per portare a Gaeta viveri d'ogni specie. Que' mercanti non facevano ciò allo scopo del solo guadagno, perché que' viveri avrebbero potuto portarli a Mola a' Piemontesi, che ne difettavano, ed in Gaeta li vendevano a prezzi regolarissimi; essi si esponevano a tanti pericoli per amore del Re, che voleano vedere appena arrivati, e per soccorrer i proprii connazionali; avendo in quella Piazza chi il figlio, chi il fratello, chi l'amico.
Dopo la seconda quindicina di dicembre il bombardamento divenne più frequente e micidiale; fu necessario stabilirsi gli ospedaletti provvisorii sulle batterie di fronte di terra, ove i feriti ricevevano immediatamente i soccorsi più necessarii; indi erano condotti all'ospedale centrale di Torrionfrancese. Io fui destinato a questo ospedale; eravamo due cappellani, l'altro era Libroia della disciolta Guardia reale, e facevamo a vicenda il servizio, 24 ore all'ospedale, e 24 ore allo spalleggiamento fuori la Piazza; in modo che non ci restava una sola notte libera per dormire.
Lo spalleggiamento era il servizio più faticoso e più pericoloso. Un Chirurgo ed un Cappellano doveano accompagnare un Battaglione fuori la Piazza, che restava accampato per vigilare e dar l'allarme se il nemico si avvicinasse. Quella guardia si cambiava al tramonto del Sole.
Uscivamo dalla così detta Poterna, e dietro di noi si alzava il ponte! Si dovea star lì 24 ore, esposti all'aria aperta, al freddo, in mezzo al fango; non ci potevamo né coricare né sedere. L'acqua, la grandine, e la neve cadevano sulle nostre spalle; e col freddo di dicembre e gennaio non si poteva accendere fuoco, maggiormente la notte, perché il nemico ci avrebbe meglio presi di mira. Stavamo in mezzo a due fuochi, senza parapetti e senza ripari. I proiettili della Piazza ci passavano sulle nostre teste; ed avvenne talvolta danno; dapoichè le granate scoppiavano appena uscite da' cannoni. I proiettili poi lanciati dal nemico, o scoppiavano pria di giungere nella Piazza e cadevano sopra di noi, o urtavano ne' bastioni e rimbalzavano in mezzo allo spalleggiamento, o infine non giungevano sino alla Piazza, e tante volte sopra di noi cadevano!
La notte potevamo scansare le bombe e le granate nemiche, perché si vedeano venire con la miccia accesa, e dalla direzione che aveano si giudicava se avessero potuto offenderci, ed avevamo appena qualche minuto secondo a scansarle. Ma guai a quelli che si fossero abbandonati al sonno! Le Charaphenel erano le più micidiali, non si vedevano venire; appena si sentiva l'orribile fischio, già erano arrivate, e scoppiavano immediatamente. In quello spalleggiamento era un morire ogni momento; si passavano 24 ore nella più desolante agonia. Qualche volta vinto dalla stanchezza e dal sonno mi gittai nel fango, ed ebbi la fortuna di dormire saporitamente, senza essere offeso, e senza neppure procacciarmi un catarro! Il ministero del cappellano si potea sempre esercitare al buio, l'opera del chirurgo si rendea difficile ed inutile la notte.
Fra tanti episodii avvenuti allo spalleggiamento, ne voglio ricordare un solo. Era una notte freddissima e tempestosa; un soldato guastatore volendo disertare al nemico, osò carponi sorpassare la palizzata, e spingersi fino ad essere scoperto dalle sentinelle nemiche; le quali gli fecero fuoco addosso, ma non l'uccisero; invece ferirono due soldati dello spalleggiamento; costoro cominciarono a far fuoco all'impazzata supponendo un assalto del nemico; le batterie di fronte di terra fecero lo stesso e succedette un combattimento accanito tra le due parti belligeranti.
Il Re, volendo sapere la causa di quel fragoroso combattimento, mandò un uffiziale di Stato maggiore ed ordinò pure a costui di recare della munizione a' soldati fuori la Piazza. Quell'uffiziale si avanzò sino al bastione di Porta di terra, trovò i soldati che combattevano, ma il comandante e molti uffiziali di quel Battaglione si erano eclissati; invece erano diretti dall'intrepido e distinto 1° chirurgo D. Francesco de Leo, il quale ricevette gli ordini e la munizione dall'uffiziale dello Stato maggiore. Il sig. de Leo, l'indomani si ebbe dal Re un lusinghiero encomio.
Non appena usciti dallo spalleggiamento, i chirurgi e i cappellani doveano recarsi agli ospedali, ove lor toccava di assistere a scene desolanti. Ritornavamo stanchi e digiuni, e la nostra razione consisteva in mezzo pane da soldato, non più di seicento grammi, pochi legumi crudi (rarissime volte ci davano pochi maccheroni), un pezzetto di lardo per condirli e il sale; non avevamo né gli utensili, né il luogo, né il tempo di prepararli; quindi dovevamo spesso contentarci del solo pane, il resto lo davamo al primo che ce lo avesse domandato.
Dopo che ci sfamavamo un poco col solo pane (in Gaeta nulla si vendeva, sin dal principio di dicembre), dovevamo assistere alle amputazioni di gambe e di braccia dei feriti; il cappellano dovea trovarsi presente, perché molti morivano sotto l'operazione. Io, lo confesso, non era sempre buono a quel ministero, fortuna per me che dopo il 15 gennaio fui caritatevolmente coadiuvato da Monsignor Silvestri segretario del Nunzio, da Monsignor Agnozzi Uditore, e dallo stesso Nunzio Apostolico, l'arcivescovo Monsignor Giannelli, oggi meritamente cardinale della Santa Chiesa romana; il quale dopo che ritornò da Roma, alloggiava al secondo piano di Torrionfrancese assieme agli altri ministri esteri; al primo piano era l'ospedale centrale ove si conduceano tutti i feriti. Io, sul campo di battaglia avea veduto mucchi di morti e di feriti mutilati orribilmente, e non mi era mai venuta meno la presenza di spirito e il coraggio di soccorrere quegli infelici: ma vedere a sangue freddo tagliare una gamba o un braccio, o sentir gridare spesso i pazienti, era una scena che non potea sostenere; mi assaliva una specie di convulsione da inutilizzare le mie forze fisiche e le facoltà intellettuali. Sieno rese grazie a que' tre caritatevoli Prelati romani, i quali non solamente si prestarono in simili circostanze, ma assistevano i moribondi ed alleviavano le mie fatiche e quelle del mio collega.
I disagi, le pene, i pericoli che ci circondavano in Gaeta, noi li affrontavamo con intrepidezza e coraggio, perché avevamo sotto i nostri occhi esempii maravigliosi di coraggio e di sublime carità evangelica. Non credo necessario ragionare de' pericoli a' quali si esponeva ogni momento il Re e con esso i conti di Trani e di Caserta; quest'ultimo principalmente dirigeva il fuoco di talune batterie sotto una miriade di proiettili che lanciavano i nemici. Il Conte di Caserta, quello di Trani, e l'augusto Sovrano esponevano le loro persone come il più bravo de' soldati, e con un sangue freddo ammirevole.
Intendo qui ragionare dell'eroina di Gaeta, dell'augusta Regina Maria Sofia di Baviera. Quella eroica giovanetta, di giorno e di notte, si recava all'ospedale centrale di Torrionfrancese a visitare ad uno ad uno i feriti, che animava, confortava, consolava, con quelle sue parole, non di Regina, ma di sorella e di madre; prestando quegli aiuti e servizii come ogni altra sorella di carità. Io l'ho veduta continuamente portare delle frutta e de' dolci, che divideva con le sue mani a' feriti che poteano mangiarli. Io intesi parecchi soldati, che commossi, invidiavano i feriti, perché costoro aveano la sorte di essere visitati e serviti dalla Regina.
I soldati, avendo fatta una lunga e disastrosa campagna, senza mai svestirsi, non pochi aveano addosso degli insetti. Un giorno io rabbrividii nel vedere l'abito di velluto nero della Regina sul quale brulicavano quegli insetti.... Supponeva il suo naturale disgusto a quella vista, ma niente affatto: quando fu da me con ogni riguardo avvertita, disse solamente sorridendo: il mio abito si è popolato!Non volle permettere ch'io col mio fazzoletto spazzassi quella trista popolazione, invece chiamò un infermiere, e costui disimpegnò la sua missione.
Era poi una maraviglia vedere quella bellissima e maestosa giovanetta diciassettenne, sotto il più micidiale bombardamento, montare sopra un focoso cavallo, visitare tutti gli ospedali provvisorii delle batterie, ove si combattea ed arrecare consolazioni e soccorsi. Essa appariva in mezzo al fumo delle bombe nemiche, come il genio del bene, come l'Angelo consolatore. Oh! donna veramente ammirabile, quante volte io ti vidi avvolta in un turbine di micidiali proiettili; e mentre tremava per Te, Tu uscivi dalle fiamme e dalle ruine balda e sorridente! Tu eri la maraviglia del tuo sesso; Tu l'onore e l'orgoglio de' pari tuoi. Se la tristizia di pochi malvagi giunse a strapparti la corona, Gaeta te ne pose un'altra sul tuo nobile capo smagliante di luce imperitura, che abbagliò e prostrò i tuoi stessi nemici, e fece sorridere di compiacenza e di orgoglio i tuoi fedelissimi sudditi.
E mentre queste coraggiose e caritatevoli azioni si compivano in Gatea, lo spirito di abisso incarnato in Napoleone III, fingendo magnanimità, adoperava tradimenti per distruggere quell'ultimo rifugio di quella coppia reale, che riempiva il mondo con le sue nobili e strepitose gesta. Mentre tutti i cuori sensibili palpitavano di ammirazione e simpatia per tanta costanza, quel settario coronato facea la parte di Satana, insidiando quelli augusti sposi rifugiati, non già nel paradiso delle delizie, ma sopra un vulcano spaventevole che minacciava ogni momento ruine e distruzioni. Egli vile, invidiava e temeva quei generosi, e facea di tutto per disfarsene; conciosiachè la non comune rinomanza di Francesco e Sofia era per lui una minaccia, un amaro rimprovero, un'aspide velenoso che gli rodeva il suo cuore perverso e codardo. Ma Francesco e Sofia caddero da valorosi; il loro tramonto fu bene una splendida aurora di un fulgidissimo giorno, che gettando uno sprazzo di luce sopra i troni d'Europa fece alzar orgogliose le fronti coronate. La Storia registrerà a lettere incancellabili quei giorni memorandi tanto onorevoli a' Borboni di Napoli. E tu come cadesti, crimine coronato? Sedan! le sventure e le umiliazioni della nobile Francia, il grido di esecrazione che «Scoppiò da Scilla al Tanai - dall'uno all'altro mar» ti dissero che cadesti da vile ed abbietto!
Napoleone III tenea la flotta a Gaeta fingendo di proteggere Francesco II: la vera ragione era quella di evitare che altra Potenza lo proteggesse e che guastasse i suoi tristi disegni. Egli con quella apparente protezione addormentò tutti i potentati; e mentre avea designata la sua vittima, avea stabilito freddamente il modo e il tempo di sacrificarla, senza rumore e con sicurezza. Ove non potea farne a meno di agevolare la rivoluzione, si facea condurre da questa, come avvenne pel bombardamento del Garigliano e di Mola, mentre avea inibito alla flotta sarda di oltrepassare i limiti di Mondragone e Sperlonga. Egli sperava che Francesco II, avvilito da tante catastrofi, tradimenti e sventure abbandonasse Gaeta; quando però vide che il sangue di S. Luigi e di Enrico IV circolava nelle vene del Re di Napoli, cominciò a levarsi la maschera dal viso, e fece sentire alla sua vittima un linguaggio sibillino per la via del suo Viceammiraglio Barbier deTinan. Costui l'1 1 dicembre mandò al Re Francesco una lettera del suo padrone nella quale gli dicea: «Essere stata ingiusta l'aggressione sarda, ed aver lui impedito il blocco per dargli prova di simpatia, ed evitare una lotta estrema, dove la giustizia stava dalla parte di chi dovea soccombere. Ma non potervi egli intervenire; credere appartenere agli interessi del Re ritirarsi con gli onori di guerra, prima di esservi inevitabilmente sforzato. Lodarsi la costanza sino a che si può sperare di vincere; ma quando inutile sangue si sparge, il dovere del Re come uomo e come Sovrano obbligarlo ad arrestare lo spargimento del sangue, ed Italia ed Europa lo ammirerebbero per avere evitato al popolo nuove sventure. Valutasse da una parte il disinteresse di lui, e dall'altra il dispiacere d'avere forse a ritrarre la flotta.
In questa lettera era un parlar doppio, uno spergiurare ed ingannare: cose degne di un Napoleone III! Si conoscea sacro il dritto del Re di Napoli, e si scatenava contro di lui la rivoluzione, abbandonandolo in preda alla medesima, quando con una parola si potea salvare quel dritto e quella giustizia che tanto si riconosceva e lodava.
Francesco II, sorpreso da quest'altra slealtà napoleonica, scrisse a Barbier de Tinan che Egli non era soltanto Re, ma duce de' suoi soldati, e quindi che dovea guardar l'onore de' medesimi. Facea tre domande a Barbier, cioè: se la flotta si trattenesse altre tre settimane come avea promesso l'Imperatore; se lasciasse qualche legno per impedire il blocco; e se le navi mercantili francesi al soldo napoletano potessero liberamente partire da Gaeta e ritornarvi.
Barbier avea animo nobile, e non era educato alle doppiezze e slealtà napoleoniche; avea però presso di lui un uffiziale di Stato Maggiore che sapea le intenzioni di Napoleone, e quindi fece rispondere a Francesco II che s'illudesse, che sarebbe abbandonato; che la guarnigione vedendo venire meno l'aiuto francese, sentirebbe un vuoto difficile a colmare, e che resterebbe abbattuta moralmente. Che nessun legno potrebbe rimanere nelle acque di Gaeta per impedire il blocco; né le navi mercantili, benchè francesi, oserebbero navigare in que' paraggi.
Il Re scrisse a Napoleone una nobilissima e dignitosa lettera, dicendogli che lo ringraziava di quanto avea fatto per Lui. Si lagnava del tradimento di alcuni suoi Generali, e dell'ingiustizia del Piemonte unito con la rivoluzione. Che non potea cedere Gaeta, perché in quella Piazza in principio era re, in fatto capitano, cui incombea obbligo di salvar l'onor militare. «Sire, gli dicea, di raro un re torna sul trono se un raggio di gloria non indora la sua caduta. Quello almeno è certo, combattendo pel mio dritto, soccombo con onore, sarò degno del nome che porto, e lascerò un esempio ai principi futuri - Morire posso o restar prigioniero, ma i principi debbono saper morire a tempo. Francesco I fu prigioniero, non difendeva come me il suo Regno e la Storia il lodò.
Profetiche parole che dovrebbero essere incise sul sepolcro di Napoleone III.
La sera dell'11 dicembre, mi fu consegnato allo Spedale di Torrionfrancese un biglietto del generale Bosco, col quale m'invitava a nome del Re a recarmi vicino la batteria di S. Ferdinando, ov'era l'alloggio della famiglia reale, per assistere al moribondo generale duca di S. Vito attaccato di tifo.
Quel biglietto invece di farmi inorgoglire, mi arrecò dispiacere; conciosiachè io dovea lasciare tanti feriti moribondi per andare ad assistere una distintissima persona, la quale potea essere assistita da qualche altro prete o Monsignore che abitava allato a quell'illustre moribondo. Si trattava di malattia contagiosa, cioè del tifo, quindi vi erano quelli che si guardavano bene la propria pelle non solo dalle bombe ma pure dal contagio. Io ubbidii: e mentre si bombardava Gaeta, traversai una strada la più esposta e pericolosa. Trovai l'ottimo Duca di S. Vito agli estremi; lo assistetti da prete e da infermiere. La mattina del 12, quel nobile duca, uno de' veri signori che accompagnarono il Re e la Regina a Gaeta, rendeva l'anima a Dio da ottimo cattolico, e da prode e fedele soldato: ed io ritornai all'Ospedale salvo d'ogni pericolo. Appena giunto mi convenne correre all'altro Ospedale ov'erano raccolti tutti i soldati attaccati di tifo, de' quali ne morivano molti tutti i giorni.
In Gaeta eravamo pochi cappellani militari, quattro in cinque facevamo tutto il servizio: gli altri erano ammalati e stavano sotto le casematte; vollero rimanere nella Piazza, mentre avrebbero potuto recarsi alle loro famiglie per curarsi la propria salute.
Il 20 dicembre tutti gli uffiziali, chirurgi e cappellani della guarnigione di Gaeta fecero al Re il seguente indirizzo: «Tra' disgraziati avvenimenti, di cui la tristizia de' tempi ci fa spettatori, noi in una volontà rinnoviamo l'omaggio della nostra fede al trono della Maestà Vostra, reso più onorato e splendido dalla sventura. Cingendo le spade giurammo che la bandiera a noi affidata sarebbe difesa col nostro sangue; ed ora quali si siano le sofferenze, le privazioni e i pericoli, cui il cenno de' duci ci appella, gioiosi sacrificheremo le nostre vite ed ogni altro bene pel trionfo della causa comune. Custodi dell'onor militare, che solo distingue il soldato dal bandito, vogliamo mostrare all'Europa, che, se molti de' nostri col tradimento e con la viltà macchiarono il nome napoletano, molti più furono che lo trasmisero senza macchia alla posterità. Sia che presto si compia il nostro destino, o che sovrastino lunghe sofferenze e lotte, baldi e rassegnati affronteremo la sorte, e incontreremo le gioie del trionfo, o la morte de' prodi con calma dignitosa; e da soldati ripeteremo il nostro grido: Viva il Re!»Francesco II fece ringraziare tutti que' prodi militari, e fu per lui una grande consolazione il sentire quelle nobili proteste de' suoi fedeli uffiziali.
I Piemontesi, come ho già detto, non faceano un regolare assedio alla Piazza di Gaeta; essi volevano farla cadere a furia di bombe, incendii e ruine. Essi non dirigevano i loro proiettili alle opere di difesa, ma sopra la innocua Città. Voleano far presto per iscansare qualche imprevisto accidente, che avrebbe potuto guastare i loro disegni, e togliere loro di mano una preda sicura. Cialdini avea collocati cannoni sulle nuove batterie costruite su tutto il fronte di terra della Piazza. Ma quelle batterie non erano ancora sufficienti a distruggere le case di Gaeta. Nei suoi lavori guerreschi, il duce piemontese era molto ritardato e vessato dalle batterie della Piazza, e principalmente da quella costruita in Torre Orlando dal distinto 1° tenente di artiglieria Raffaele Mormile, il quale avea collocati ivi quattro cannoni rigati da campo.
Quella batteria molestava molto i lavoratori di Cialdini, e guastava i divisamenti di costui. Quel duce assediante, per offendere gli assediati e presto vincerli, ricorse a quello stesso Napoleone, il quale fingeva di riconoscere che la giustizia stava dalla parte di Francesco II, e dichiaravasi protettore di costui. Il 27 dicembre, il Sire di Francia, per mezzo del suo Viceammiraglio Barbier de Tinan, fece al Re doppia proposta: cioè o che fosse armistizio per 15 giorni, dopo dei quali la Piazza cederebbe, o che durante l'armistizio, nessuna delle parti belligeranti lavorasse ad opere di offesa o di difesa. Il Re rispose che quella proposta era un agguato a lui teso, perché si pretendea la cessione di Gaeta, o che si desse al nemico il tempo e il comodo di lavorare impunemente contro la Piazza.
Rigettata la proposta del potente alleato de' Piemontesi, Cialdini si affrettò a far pompa di forza, credendo così di mettere paura agli assediati. Egli fece costruire 15 batterie con 59 cannoni di grosso calibro, 52 dei quali rigati, e 7 ad anima liscia; oltre di 18 mortai che lanciavano bombe scoppianti. Una bomba da 13 è tanto pesante che devesi maneggiare da due artiglieri.
Cialdini abitava in Castellone, ed ivi avea fatto costruire una batteria di cannoni detta Cavalli, che colpivano alla distanza di 4700 metri! co' quali lanciava nella Piazza delle Charaphenel di un calibro enorme; un uomo di forza regolare con istento può rimuovere da terra questo proiettile di forma conica. Questi micidiali complimenti ci largivano i nostri liberatori!
Cialdini si affrettò a dare all'Europa lo spettacolo delle sue bravate; egli, che se ne stava in Castellone, fuori tiro da' cannoni della Piazza, sorseggiando un bicchiere di Champagne, ordinava: fuoco...! Che bel modo di far la guerra e vincere, senza contrasto e senza tema di offesa!
All'alba dell'8 gennaio, i Piemontesi smascherarono tutte le loro batterie, e soltanto quel giorno lanciarono dentro Gaeta ottomila proiettili tra granate, bombe e Charaphenel. Le batterie della Piazza furono pochissimo danneggiate, ma la città fu a metà distrutta. L'8 gennaio fu uno de' tre terribili giorni dell'assedio di Gaeta. Noi assediati per intenderci dovevamo parlarci al alta voce ed all'orecchio; tanto era il rombo de' nostri cannoni, e lo scoppio de' proiettili nemici. Non vi era punto risparmiato nella città, che non presentasse l'impronta delle ruine e della devastazione. Ogni scoppio di proiettile metteva tutto a soqquadro, distruggeva le abitazioni e le incendiava, che tale è la prerogativa de' proiettili vuoti. Noi eravamo nelle viscere di un vulcano ardente, ed il più spaventevole; molti perivano sotto le ruine delle case, o in mezzo all'incendio di queste. Que' medesimi che riparati si erano sotto le casematte soffersero uccisioni e ferite specialmente dalle Charaphenel, perché, spesso questi proiettili, deviando dalla direzione lor data, descrivono curve regolari e talvolta divergenti, introducendosi dalla aperture delle casematte.
In quel giorno stavano sotto le casematte i soli soldati che erano di servizio, gli altri erano tutti per le vie della Città, o sopra le batterie. Il Re, la Regina, i Principi reali si moltiplicavano infaticati, e si vedevano nei siti più minacciati, incoraggiando con l'esempio, dando consigli ed arrecando soccorsi. La Regina poi, facea raccogliere i feriti, li soccorrea, e faceali trasportare all'ospedale. Era una maraviglia vederla calma e sorridente in mezzo a quel turbine di fumo e di proiettili!
La Piazza di Gaeta, quel giorno 8 gennaio, lanciò contro il nemico duemila trecento ventisette proiettili, e fece ammutire le batterie avverse, cioè quelle ove giunger poteano i suoi colpi.
I Piemontesi bombardavano senza riguardo e senza tener conto delle leggi di guerra tra nazioni civili. Vedendo però che la piazza lor recava gravi danni, e la eroica resistenza degli assediati, sul mezzodì in pieno bombardamento, un Generale sardo si recò dal Viceammiraglio Barbier, acciò costui domandasse al Re una sospensione d'armi. Oh! se con sì poco danno chiedevano tregua, cosa avrebbero fatto, se si fos sero trovati sotto una pioggia di ottomila proiettili lanciati in poche ore, in un luogo ristrettissimo come Gaeta, ed ove non si trovava né rifugio, né via per mettersi in salvo?! Intanto a sentire i giornali di quei tempi, i Piemontesi erano i bravi, i Borbonici i codardi. Barbier, sempre a nome di Napoleone III, mandò un uffiziale al Re, pregandolo che sospendesse il fuoco per conchiudere un armistizio sino al 19 gennaio: le ostilità si sospesero.
La mattina del 9, il Viceammiraglio si recò dal Re, e promise guarentire egli i patti dell'armistizio. Si stabilì che Cialdini e il Governatore di Gaeta s'impegnerebbero di non fare opera alcuna di offesa o difesa in tutto il tempo della sospensione d'armi: e gli uffiziali francesi doveano sorvegliare le due parti belligeranti per lo adempimento di quanto si era stabilito.
Cialdini non volea sottomettersi al controllo delle visite francesi, volea solamente impegnarsi, dando la sua parola d'onore, che non lavorerebbe contro la Piazza. Però al cenno del Viceammiraglio francese, quel gradasso abbassò il capo e si sottomise a tutto.
Quel giorno stesso Re Francesco elesse Governatore titolare il tenente-generale Ritucci, il quale sospese i lavori cominciati per le batterie di Malpasso e Torre Orlando. Cialdini che avea impegnata la sua parola d'onore, appena fu libero de' proiettili della Piazza, cominciò a far lavorare con più alacrità, ed ebbe l'impudenza di non farne un mistero. Da tutti si vedeano i lavoratori sardi che alzavano novelle batterie contro Gaeta. Il governatore Ritucci fece vedere al Viceammiraglio francese i novelli lavori e i lavoranti. Costui richiese a Cialdini l'adempimento de' patti, e il duce piemontese negò i patti, proseguì a lavorare, e piantare cannoni sulle novelle batterie. Egli era sicuro del fatto suo, operava secondo i consigli di Napoleone III. Nella Piazza sollevossi un grido d'indignazione contro quest'altra soperchieria e malafede cialdiniana; e si dicea che si sarebbero riprese le ostilità immediatamente. Però il consiglio di difesa di Gaeta, temendo che la flotta francese se ne partisse in que' momenti che se ne avea bisogno per aver libero il mare dal blocco nemico, aspettandosi da Marsiglia de' bastimenti carichi di provvigione, dichiarò essere suprema necessità sopportarsi in pace quel sopruso di un nemico sleale, e di un falso protettore qual'era il Sire francese.
Il 15 gennaio, il Re scrisse un'altra lettera a quel traditore di Napoleone III, nella quale gli dicea, che non potea cedere Gaeta, perché avrebbe offuscato l'onor militare dei suoi soldati; e per una vana prudenza avrebbe Egli rinunciato alle speranze dell'avvenire, mentre i suoi popoli, e tutta l'Europa lo incoraggiavano a difendere la sua causa che era quella di tutti i Sovrani.
Dicea pure ch'era rassegnato di seppellirsi sotto le fumanti ruine di Gaeta; gli sarebbe stato però doloroso, se nella sua persona, in caso di prigionia, fosse oltraggiata la dignità regia. Ma se l'Europa avesse acconsentito a tanto oltraggio, Egli si sarebbe rassegnato alla sua avversa fortuna. Quella lettera conchiudeva: «Ho fatto ogni sforzo per persuadere la Regina a separarsi da me; le sue tenere preghiere e generose risoluzioni m'hanno vinto; dividerà meco la fortuna si consacrerò alla cura de' feriti; sarà una suora di carità.
Il 15 gennaio ritornarono a Gaeta i ministri esteri per presentare gli omaggi al Re pel suo giorno natalizio.
Francesco II volle far vedere a que' personaggi che rappresentavano i proprii Sovrani, qual conto tenesse il Piemonte de' patti dell'armistizio, facendo loro osservare i lavori che facea Cialdini contro Gaeta. Indi invitò que' ministri a rimanersi con lui in Gaeta per assistere ufficialmente al bombardamento contro un Re ed una Regina, che altra colpa non aveano in faccia al Governo sardo se non quella di essere Sovrani della più ricca e più bella parte d'Italia. Alcuni di que' ministri, che per paura, chi per politica si negarono a rimanere in Gaeta; rimasero però l'Arcivescovo Monsignor Giannelli, Nunzio Pontificio, Bermudez de Castro, ministro di Spagna, Conte Szèchenyi, d'Austria, Veger di Baviera, Kleist Looss di Sassonia, Frescobaldi di Toscana. Il ministro d'Austria, dopo il 22 gennaio, volea uscirsene da Gaeta, ma fu necessità rimanervi, perché il blocco era già dichiarato.
Il 16 gennaio, giorno natalizio del Re, i cannoni di Gaeta lo salutarono per l'ultima volta..! Risposero i legni francesi e spagnuoli che si trovavano nel porto. Alla Cattedrale si cantò il Te Deum; e vi fu baciamano in Corte; nel pomeriggio la parata militare.
Il ministro degli esteri, Casella, il 18 gennaio, mandò una nota a tutti i gabinetti d'Europa, con la quale annunziava l'armistizio domandato da' Piemontesi, e che era solamente utile a costoro. Che il Re lo concedette per non disgustare Napoleone III che l'avea voluto. Che Francesco II difendeva in Gaeta il dritto di tutt'i Sovrani, e non potrebbe supporre che l'Europa sopportasse in pace il bombardamento e il blocco di una città, ove si trovasse un Re ed una Regina: anzi sperava che i Sovrani con nota collettiva intimassero al Piemonte di guarentire la libertà di Lui e della Regina, qualora avessero salva la vita nel disperato furore dell'assedio.
Il Re riunì la Commissione di difesa, e volle interrogarla sulla possibile durata della Piazza a fronte de' mezzi che usava il nemico. Il generale Pelosi, il maggiore de Sangro e il capitano Andruzzi furono di avviso che la Piazza dopo 15 giorni sarebbe costretta a rendersi, perché non si aveano cannoni simili a quelli del nemico, né materiali e strumenti per rifare le distrutte fortificazioni, e non esservi riserve per le polveri, le quali erano esposte a tutti i pericolosi accidenti. I generali Traversa e Polizzy, i colonnelli Ussani e Rivera furono di avviso, che, attesi i pochi guasti delle batterie fatti dal nemico sino allora, e stante lo spirito guerriero della guarnigione, la Piazza avrebbe potuto reggersi per altri due mesi.
Il Re, come ho già detto, avea mandato in Francia il maresciallo la Tour per comprare cannoni rigati di grosso calibro; Napoleone III non volle che se ne vendessero per difendere il suo protetto Francesco II! e proibì pure che quelli comprati nel Belgio non potessero transitare per la Francia. Il tempo intanto stringeva, Gaeta ed i suoi difensori rimanevano eroica vittima di quel galeotto coronato!
(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un
viaggio da Boccadifalco a Gaeta).