giovedì 30 agosto 2012

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 43°): Iniziano l'assedio e il bombardamento di Gaeta

Il Re e la Regina delle Due Sicilie, Francesco II e Maria Sofia  ( sulla destra) al fianco dei loro fedeli Soldati  dentro le mura della Fortezza di Gaeta durante l'assedio .


Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.


Mentre in Gaeta abbiamo l'armistizio concesso a Cialdini per opera di Napoleone, affinchè con migliore comodità si preparassero le offese, noi volgeremo un ultimo sguardo al Reame delle Due Sicilie.
Pria di tutto è necessario ragionar brevemente della Cittadella di Messina, la quale avea in quel tempo 4155 soldati, 199 uffiziali, 28 artefici, 38 spedalieri e 26 galeotti; oltre delle famiglie che eransi rifugiate in quella Piazza.
La truppa occupava i forti S. Salvatore, Lanterna e Lazzaretto. Nulla avea di casermaggio; Clary pria di lasciare Messina avea dato tutto all'appaltatore. I soldati che aveano compiuto il tempo del servizio, rifiutarono il congedo; ed avendo il generale Fergola sospeso le paghe, il 26 novembre dichiarò che erano giunti i giorni di vera prova; tutti i soldati risposero col solito grido di viva il Re! e si sottomisero a tutte le privazioni. Mancava il tabacco, e Fergola lo comprò col suo danaro. Gli uffiziali della Cittadella pegnorarono gli ornamenti preziosi delle loro mogli, per comprare grano ed altre provvisioni necessarie.
Ogni sera i soldati si recavano in chiesa, e compivano tutti i doveri di buoni cattolici, e dando ne' rincontri attestati d'irrefragabile bravura.
Il 27 novembre, arrivava a Messina il generale sardo Chiabrera con due Reggimenti; e il 13 dicembre arrivava Negri sulla fregata Borbone, detta poi Garibaldi: Negri interrogò Fergola, se, caduta Gaeta, e' cederebbe: questi rispose risolutamente, NO. Il mio dovere, disse, è prescritto dalle Ordinanze, né questa Piazza dipende da Gaeta, ma dal Re nostro Signore.
Il 13 dicembre, il Re mandò a Fergola diecimila ducati, gliene mandò altri ventimila il 16 dello stesso mese per mezzo del benemerito e distinto Capitano Michele Bellucci, oltre una quantità di panni e vettovaglie.
La piccola fortezza di Civitella del Tronto negli estremi Abruzzi, comandata dal Capitano di gendarmeria Giovine, resisteva eroicamente all'assedio e bombardamento. Il feroce generale Pinelli, il fucilatore de' poveri villani, in novembre avea circondato quella fortezza con posti avanzati sino a mille metri distanti; però percosse le sentinelle piemontesi, da' soldati borbonici, diedero indietro. Il 25 e 29 di quel mese, gli assediati fecero due sortite, e fugarono gli assedianti.
Pinelli bombardò il paese per due giorni, cioè il 10 e 11 dicembre, e cagionò danni solamente alle case de' cittadini, nessuno ne arrecò alla fortezza.
Il 20 dicembre, i soldati borbonici uscirono fuori Civitella per far provvisioni di legna; essendosi incontrati co' Sardi, appiccarono zuffa e l'inseguirono; assaltarono la Gran guardia, saccheggiarono i posti militari, e trovando una Chiesa insozzata di tutte le abbominazioni, presero le statue de' Santi e le condussero dentro il paese collocandolo nella Chiesa Madre.
Pinelli, umiliato ed adirato, si vendicò con abbruciare tutte le case attorno Civitella; ed avendo ricevuto rinforzi con macchine di guerra e scale per salir le mura della fortezza; fu di nuovo respinto, lasciando macchine e scale in potere de' Borbonici. Allora chiede un armistizio di otto giorni, e gli accordato. Le ostilità si cominciarono il 17 gennaio. Il Capitano Giovine, per mezzo di Filippo Enea ardito paesano, diede al Re Francesco contezza di tutti i fatti d'armi di Civitella. Il Re lo ringraziò, lo promosse a Colonnello, e gli diede facoltà di promuovere i suoi dipendenti e rilasciar brevetti sino al grado di Capitano!
L'eccelso Farini, che pure avea preso gusto a far da Sovrano e far saccheggiare i reali palazzi, come avea fatto in Modena, saccheggiandone l'argenteria, il guardaroba e le cantine del duca regnante, pensò far lo stesso in Napoli. Già i mobili di Casa reale erano spariti, e la Città di Napoli fu costretta ammobigliare a proprie spese i Palazzi per gli alloggi del Luogotenente, e per ricevere convenevolmente il novello Sovrano. Era però sfuggito al saccheggio il mobilio di S.A.R. il Conte di Trapani per vendita fattane a tempo dell'onesto amministratore, comm. Giacinto Manera. Il Farini servendosi di un certo Vio Veneziano e Maggiore garibaldino, si fece presentare da costui una denunzia, nella quale si dicea, che Manera avea involato e venduto il mobilio del Conte di Trapani. Farini, avuto questo gran documento nelle sue mani, scatenò i poliziotti, e senza mandato di alcun giudice, o forme legali, fece invadere gli appartamenti del Conte di Trapani e quelli di Manera, sequestrando e suggellando tutto il bellissimo mobilio.
Manera protestò con le stampe, e reclamò presso i tribunali; conciosiachè dal decreto dittatoriale del 12 settembre 1860, chiaro appariva che i beni di acquisto privato, allodiali o patrimoniali, e specialmente quelli de' Principi reali secondogeniti, non erano inclusi nel suddetto decreto di spoliazione regia. Manera fu contradetto e vessato, specialmente da Talamo presidente del tribunale civile, e da Savelli procuratore generale, tutti e due che poco prima si mostravano sfegatati borbonici.
Manera però non si perdè d'animo, ad onta pure del chiasso che fecero i rivoluzionari, dichiarando ladri i Borboni ed i borbonici; egli intrepido difese i diritti del Principe reale a lui affidati. Quella lite si protrasse sino al 29 aprile 1861: Manera ottenne giustizia per quanto i tempi lo permettessero, e la Città di Napoli fu obbligata pagare tutti i danni, spese ed interessi a causa della prepotenza ed ingordigia di Farini. Ecco una delle ragioni per cui i municipii son ridotti alle ossa da 15 anni a questa parte!
Il debito pubblico napoletano era una spina negli occhi di Cavour; quel debito era salito al 120; dopo che Francesco II lasciò Napoli scese al 114, e più tardi all'80; mentre quello del Piemonte era al 76! Cosa strana ed ammirevole, il vinto spogliato avea più credito del vincitore fatto già ricco con le spoglie del vinto! Era questo uno scandalo come tutti gli altri e Cavour ne sentiva tutta l'onta, e ne prevedeva le brutte conseguenze finanziarie: quindi pensò uguagliare le miserie del Piemonte con le ricchezze del Regno di Napoli, il credito di quello col credito di questo.
Per raggiungere questo scopo, Cavour, aiutato da Farini, usò tutte le male arti, ricorse pure a vendere a basso prezzo la rendita sequestrata alla famiglia reale di Napoli; e non essendo riuscito neanche questo mezzo, ordinò a Farini di creare un nuovo debito, e costui decretò un prestito di venticinque milioni, e vendette seicentocinquantamila ducati di RENDITA napoletana, che comprò Rothschild al 74. E così a forza di astuzie, e far debiti, ch'è il gran forte finanziario dei rivoluzionarii, si uguagliarono le miserie del Piemonte con le ricchezze del Regno delle Due Sicilie. Il popolo redento e sovrano ne faceva le spese!
Sotto la Luogotenenza di Farini tutto andò a soqquadro, principalmente le finanze e la sicurezza pubblica. Quel Luogotenente, tra le altre manìe avea quella di snocciolare leggi piemontesi, non comprese e non accette nel Reame di Napoli.
I partiti si dilaniavano con furore spaventevole; ogni giorno si faceano dimostrazioni contro Farini e contro i consiglieri della Luogotenenza; si presentavano petizioni con migliaia di firme per essere Napoli liberata dall'eccelso e da' suoi consiglieri.
Trai garibaldini ed uffiziali piemontesi, in quel tempo furono duelli, zuffe e lotte. A 30 dicembre fu ferito di pugnale il liberalissimo duca S. Donato; e dopo pochi giorni si attentò alla vita del consigliere Scialoia.
Lo stato di Napoli raccomandava poco in Europa il nuovo ordine di cose. Il potente e magnanimo alleato, Napoleone III, che avea consigliato moderazione e clemenza a Francesco II verso i rivoluzionarii, consigliava poi all'amico Cavour rigore a qualunque costo. Costui senza farsi troppo spingere, avendo dichiarato a Persano, che il tempo delle grandi misure era giunto, mandò ordini all'eccelso Farini, di mettere in esecuzione delle leggi simili a quelle della Convenzione francese del 1792.
Farini conoscea che i rei erano tutti liberali, ma avea paura d'incrudelire contro gli antichi consettarii, e volendo far rumore e paura, incrudeliva illegalmente contro i soli Borbonici. Senza prove e senza mandato di autorità giudiziarie, in breve tempo riempì le carceri di sospetti di Borbonismo; tra gli altri più noti furono arrestati i Generali Barbalonga, de Liguori, Palmieri, d'Ambrosio, e i due fratelli Marra, tutti uomini d'onore e prodi militari. Altri uffiziali capitolati di Capua arrestò e gettò ne' castelli; ed arrestò pure i Gendarmi borbonici, ancorchè costoro avessero aderito alla rivoluzione, e si fossero fregiati della croce sabauda, servendo il nuovo Governo. Con tutti questi pretesi Catilina imprigionati, il Reame rimase nel medesimo stato in cui si trovava.
Farini per ultimo atto della sua eccelsa Luogotenenza, avendo fame di danaro, sequestrò le rendite de' Vescovi assenti dalle Diocesi, perchéerano assenti senza motivo canonico. Il motivo canonico dell'assenza de' Vescovi dalle proprie Diocesi era lo stesso Farini, il quale non dava loro riposo perseguitandoli in tutti i modi, e scatenando contro di loro la canaglia settaria. L'eccelso col suo motivo canonico, a proposito immaginato, fece un grosso boccone delle rendite vescovili; conciosiacchè in quel tempo si trovavano trentotto Vescovi fuggiti dalle proprie Diocesi.
Re V. Emmanuele poco contento del governo di Farini, il 26 dicembre partì da Napoli, e giunse il 29 a Torino: il 30 in consiglio di Ministri destituì Xeccelso Farini dalla Luogotenenza di Napoli, e vi sostituì il Principe di Carignano.
Farini, che era venuto a Napoli per restaurare l'ordine morale, depravò l'amministrazione e il popolo; e, simile a tutte le celebrità rivoluzionarie, cadde come corpo morto cade.
Farini, persecutore de' Vescovi del Regno, era lo storico-libellista, il saccheggiatore del Palazzo del Duca di Modena, l'amico e il protettore del rapitor di fanciulle, del ladro, del sicario Curletti! Era quello che avea ordinato a costui l'assassinio del colonnello Anviti di Parma. Farini dicea di voler morir povero, morì ricco di sostanze, e povero di ragione: divenuto pazzo giunse a cibarsi del proprio sterco, come l'ateo Voltaire! I cattolici, a cui fece tanto male, non lo maledirono, anzi pregheranno il Dio delle misericordie, che abbrevii le sue pene, se si trovi in luogo di purgazione. Però lo storico, qualunque siasi, è nell'obbligo di far conoscere qual fu la vita e la fine de' calunniatori e persecutori della Chiesa, perché ciò serva di salutare esempio a' presenti ed a' posteri.
Il principe di Carignano Luogotenente di Napoli, fu investito di poteri regi sino all'apertura del Parlamento italiano. Un decreto del 7 gennaio gli assegnò 20 milioni di lire annuali a peso dell'erario napoletano! Gli si diede a latere per segretario generale, superiore a tutti i consiglieri di Luogotenenza, Costantino Nigra, bellimbusto e paraninfo tra gl'intrighi napoleonici e cavourriani.
Giunto a Napoli il principe di Carignano fu ricevuto da Farini, e costui gli fece un discorso come un re che cede la corona ad un altro re.
Nigra sparse delle proclamazioni, promettendo, al solito, tutto il ben di Dio; e si augurava che i Napoletani avrebbero difeso in avvenire su' campi di battaglia il nuovo ordine di cose. A quelle proclamazioni fece eco, lo stesso giorno, l'infelice Vescovo Caputo, pubblicando una lettera sul Giornale Ufficiale, nella quale vomitava insulti e calunnie contro i Principi spodestati non escluso il Papa!
Il 17 gennaio, il nuovo Luogotenente costituì un novello consiglio di Luogotenenza: Spaventa fu creato consigliere di polizia, Mancini del culto, La Terza delle finanze, Oberty de' lavori pubblici, Imbriani dell'istruzione pubblica, Avossa della giustizia; e, il risuscitato da Nigra, D. Liborio Romano fu creato consigliere dell'interno! Costui, in meno di sei mesi, avea servito tre padroni che tra loro faceano a calci!
Questi consiglieri non piacquero ad alcun partito, e si fecero indirizzi al Luogotenente per cacciarli via. Anche la Guardia nazionale fece le sue lagnanze a Nigra contro que' consiglieri.
Nigra andava dicendo mirabilia contro l'amministrazione dell'eccelso Farini, e per provarlo co' fatti, un decreto del Luogotenente ordinò che si prestassero venti milioni di lire dall'erario di Torino; mentre Farini, il 9 dicembre, avea fatto un prestito di venticinque milioni di lire, ed avea venduto seicentocinquantamila ducati di rendita napoletana. Vicende della rivoluzione, Torino prestava danaro a Napoli!
Un decreto del 3 gennaio stabiliva l'elezioni al Parlamento italiano pel 27 dello stesso mese, poichè le Camere doveano riunirsi il 18 febbraio.
I cattolici del Piemonte e della Lombardia sin da allora emisero il celebre motto: né eletti né elettori. Que' cattolici dissero tre principali ragioni per legittimare il loro astenersi dalle urne elettorali, cioè: 1° perché mancava la libertà del voto, e se risultassero buoni deputati sarebbero cassati come accadde nel 1858 nel Parlamento subalpino; 2° eleggendo un Parlamento per tutta l'Italia, si sarebbe riconosciuta implicitamente la rivoluzione e la spoliazione del Papa; 3° perché i cattolici sarebbero sopraffatti dall'audacia e dagli intrighi degli stessi rivoluzionarii. L'astensione de' cattolici spiacque a Cavour, conciosiachè egli, conoscendo la loro moderazione, prometteasi di farsene egida contro i repubblicani. In Napoli si fece di tutto per far risultare deputati cavourriani, e non si premurarono i cattolici ad accorrere alle urne perché credeansi borbonici; anzi si scatenarono i camorristi, si fecero mettere a soqquadro le direzioni e le tipografie di tre giornali cattolici, e fu proibita la pubblicazione di que' giornali che aveano per titolo: La Croce rossa, L'Aurora e l'Equatore.Cavour in Napoli avea il celebre D. Liborio Romano; costui intrigava in tutti i modi per far eleggere deputati cavourriani; egli si fece nominare in otto collegi, ad onta che Dumas nel giornale l'Indipendente avesse rivelate tutte le vergogne di quel traditore.
Siccome alle urne elettorali accorsero molti camorristi e gente plebea, avvennero soprusi, ed in molti luoghi si versò sangue; questi fatti giustificano pure l'astenersi dei cattolici.
Tutto lo sforzo rivoluzionario in quel primo entusiasmo non potè riunire in tutta Italia più di centomila elettori, sebbene ne facessero comparire duecentoquarantaduemilacinquecento ottantuno. Basta dire che il redentore Garibaldi, nella popolosa Napoli, appena raggranellò trecento settantasei voti, e con questo scarso numero di votanti fu eletto deputato al Parlamento italiano. Nel Parmense uscì eletto un deputato con trentanove voti!
In Sicilia l'anarchia facea sempre progressi, e il decreto del 3 gennaio, che convocava i collegi elettorali, inasprì di più i partiti; chi volea la monarchia, chi la repubblica, chi il comunismo, ed erano questi ultimi i nullatenenti. I così detti comunisti in Mascalucia invasero le proprietà de' ricchi, dichiarandosi essi proprietarii pel diritto della ottenuta libertà ed indipendenza: fu necessario l'intervento di due battaglioni di bersaglieri per far ritornare alla ragione que' nuovi annessionisti.
I Consiglieri di Luogotenenza davansi al giuoco dello sgambetto, ed a guisa d'istrioni entravano ed uscivano dalla scena. Primo Torrearsa, poi Turrisi ed Amari si dimisero da' loro dicasteri, indi i consiglieri Marchesi ed Orlando. Il 26 febbraio il Consiglio rifecesi in questo modo: Amari all'interno e finanze, Santocanale alla giustizia culto ed istruzione pubblica, Carini alla sicurezza pubblica.
In que' tempi in cui ogni libero cittadino dovea eleggere il deputato al Parlamento italiano, furono mandati in Sicilia altri quindicimila soldati piemontesi; quell'Isola era in vero stato di assedio.
Gli Abruzzi erano in piena reazione, e supplicavano il Re Francesco in Gaeta a mandar soldati, perché si unissero a' paesani ed attaccassero alle spalle i Piemontesi in Mola. Il Re ridotto in Gaeta non potè soddisfare i desiderii degli Abruzzesi per assoluta mancanza di mezzi. I reazionarii si rivolsero a Roma ov'erano molti uffiziali e soldati napoletani, i quali si riunirono sotto il comando del noto legittimista Conte de Christen francese, e marciarono per gli Abruzzi, ove si riunirono a parecchie soldati sbandati. Il primo paese che assalirono fu Tagliacozzo; ivi si trovavano 400 Piemontesi, li fugarono, e ne fecero molti prigionieri. Un Giacomo Giorgi luogotenente di de Christen, con poca forza volle avanzarsi sino a Scurgola. Era egli guidato da un certo Piccione stato garibaldino, il quale diede avviso a' Piemontesi di tutto quello che i Borbonici aveano divisato di fare. Giorgi fugò i Piemontesi che trovavansi in Scurgola, bivaccò nel paese, e pose i feriti nella Caserma della Guardia nazionale, facendoli assistere dal Chirurgo Mauro, e dal Cappellano D. Gennaro Orsi. Nella notte sopraggiunse la cavalleria sarda e molti battaglioni; vi fu un vero massacro di Borbonici. Giorgi fuggì a stento, e parecchi soldati napoletani si salvarono sopra i monti. I Piemontesi entrarono nella Caserma della Guardia nazionale, e trucidarono que' miseri feriti! Indi presero il Chirurgo e il Cappellano, il primo lo fucilarono, il secondo, dopo avergli fatto soffrire tormenti da barbari, lo legarono ad un albero e lo finirono a colpi di baionetta! Fu così orribile e selvaggio il massacro di Scurgola che dovette giungere ordine dal Comando di Avezzano di tosto sospendersi. Intanto i prigionieri piemontesi fatti a Tagliacozzo furono trattati con cortesia, e mandati a' Francesi nello Stato pontificio.
Nel tempo che Gaeta era assediata, in tutti gli Abruzzi i paesani combatteano da disperati contro i Piemontesi, e costoro fucilavano, ardeano case e paesi. Tagliacozzo, perché occupato da' Borbonici, venne saccheggiato da' Sardi: lo stesso avvenne alla Badìa di Casamari, ove i monaci furono parte maltrattati e parte dovettero salvarsi con la fuga. Il bottino fatto aTagliacozzo e Casamari fu venduto a Sora, Castelluccio ed Isoletta.
De Christen che si era salvato dalle stragi di Scurgola, avea riparato a Bauco, paesetto in cima ad un Monte; egli avea raccolti tutti i soldati sfuggiti al massacro di Scurgola, ed altri ne avea raccolti che accorrevano da diversi paesi. Il Generale de Sonnaz, quello che avea insultato i Napoletani a Terracina, si partì da Sora con duemila soldati e due cannoni per isnidare de Christen da Bauco. Più volte assalì quel paesello, e sempre fu respinto con perdite. I soldati napoletani non avendo più munizioni, rotolavano grosse pietre sopra i Piemontesi, i quali aveano già perduti 180 uomini tra morti e feriti. De Sonnaz ignorando che i Borbonici non aveano più munizioni, offerse patti.
Fu convenuto che de Sonnaz si ritirasse il primo e poi de Christen. E quel Generale, che abbiamo veduto tanto superbo in Terracina, fu costretto ritirarsi di fronte a quelli ch'egli chiamava briganti, lasciando i proprii feriti a Casamari. Però costoro morirono quasi tutti, perché come ho detto, quella Badia era stata saccheggiata ed incendiata dagli stessi Piemontesi, ed i feriti non trovarono più né farmaci, né viveri, né utensili, né monaci per assisterli...
De Christen raccolse sotto Bauco 147 fucili, e parecchi soldati piemontesi semivivi, che soccorse e fece condurre a Veroli.
Il celebre generale Pinelli, memore sempre del colpo di pietra che avea ricevuto alle reni da' paesani di Pizzoli, si vendicava e si divertiva nell'Abruzzo superiore a fucilare tutte quelle persone che sospettava fossero reazionarie. I montanari di que' paesi usavano rappresaglie sopra tutti i soldati piemontesi che cadeano in poter loro. Ne teneano una compagnia assediata da più giorni ad Acquasanta: il Pinelli, il 28 gennaio, vi accorse, con quasi un esercito, e liberolla. Quel sanguinario Generale seguitò ad imbestialire contro i paesani; e sapendoli cattolici, per far loro dispetto lasciava saccheggiare ed abbruciare Cappelle e Chiese, facendo vestire i soldati degli arredi sacri, e li facea vedere a' paesani! Pinelli, non so se più feroce o pazzo, avendo perpetrate nell'Abruzzo azioni ridicole e nefande, il 3 febbraio diede il seguente ordine del giorno: «Un branco di quella progenie di ladroni ancor s'annidia su' monti; snidateli, siate inesorabile come il destino. Contro nemici tali la pietà è un delitto; sono prezzolati scherani del Vicario non di Cristo ma di Satana. Noi li annienteremo, schiacceremo il sacerdotal vampiro, che con le sue sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra. Purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infeste dall'immonda sua bava, da quelle ceneri sorgerà più rigogliosa la libertà.»
Sull'empietà di quest'ordine del giorno io mi taccio. Dirò solamente ch'è degno di un Pinelli che lo scrisse, uomo senza coltura, e con anima di fango. E pure fu lodato dal giornale Il Popolo d'Italia dichiarandolo un generoso proclama! Ohse l'avesse scritto un Generale borbonico...! Ma fu biasimato da tutta la stampa liberale estera, la quale dichiarò Pinelli uomo feroce e da trivio. Il Governo sardo fu costretto a decretare il ritiro di Pinelli (ed era il secondo finto ritiro!). Fu sostituito da un disertore dell'esercito napoletano, Luigi Mezzacapo, il quale senza pubblicare gli ordini del giorno del suo predecessore, ne seguì l'esempio. Nonpertanto Pinelli stette altri giorni al comando, poi si ritirò; ed a mezzo aprile, fu mandato di nuovo a far peggio. Egli parodiava Tito Augusto ma nel male; spesso alzandosi di desco mezzo ubbriaco esclamava: oggi, giornata perduta, non ho fucilato nessuno!Pinelli era nato da onesta famiglia, i suoi parenti furono tutti gente onorevolissima: suo fratello Pier Dionigi fu ministro in Piemonte, un suo nipote Procuratore sostituto alla Procura Regia di Napoli. Prima della guerra di Crimea, La Marmora, riformando l'esercito sardo, mandò via il Pinelli; ed interpellato in Parlamento disse tutte le vergogne che avea commesse costui. Bisogna leggere il liberalissimo giornale la Democrazia di Napoli del 1861 per conoscere quale uomo empio, scostumato e triviale era il Pinelli.

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).