lunedì 30 luglio 2012

Elogio della Milano spagnola: contro gli spettri di manzoniana memoria

Filippo II d'Asburgo-Spagna (in spagnolo Felipe II de España; Valladolid, 21 maggio 1527San Lorenzo de El Escorial, 13 settembre 1598)



Tipica ossessione del nazionalista italiota è l’assoluta e incondizionata ripugnanza per tutto ciò che, nella storia degli stati italiani preunitari, rappresenta la dominazione di una nazione o di un impero straniero nella penisola. Naturalmente tale valutazione ideologica si capovolge invece acriticamente non appena s’intraveda il minimo accenno d’italianità, vera o, più spesso, presunta. L’errore storiografico alla base di queste considerazioni sta evidentemente nella proiezione del sentimento nazionalista ottocentesco in un’epoca in cui il concetto di nazione moderna non esisteva neppure. In secondo luogo queste prese di posizione non tengono minimamente conto del reale stato della popolazione e di tutti gli altri parametri che servirebbero a definire la bontà di un governo: i milanesi stavano meglio sotto gli Asburgo “austriaci” o sotto i Savoia “italiani”? A memoria non ricordo che durante la dominazione asburgica i milanesi fossero mai scesi in piazza, mossi da quella disperazione che solo la fame può dare, come fecero nel maggio del 1898 contro il governo italiano!
Forse ancor più che il periodo della dominazione austriaca, apprezzato per aver accolto in parte gli ideali illuministi, quello del governo spagnolo sul Ducato di Milano è stata uno più vilipesi della storia della nostra terra. Il paragone tra i due, peraltro, non è certo una mia invenzione dato che il noster Lisander Manzoni, com’è ben noto, nei Promessi sposi giocò proprio su questo parallelismo per esprimere la sua critica alla dominazione austriaca, senza rischiare d’incorrere nella censura. Nonostante l’evidente gioco di specchi, non c’è dubbio che il Manzoni avesse un’idea piuttosto negativa del periodo spagnolo, in quanto epoca di decadenza sociale e letteraria, visione che sarebbe giunta pressoché invariata fino a noi a causa della sostanziale incomprensione della cultura barocca da parte dell’illuminismo prima e dell’idealismo poi.
Il Seicento lombardo per Manzoni fu un universo caotico che tanto assomigliava, parlando per metafore, allo “scartafaccio” da cui finse di aver tratto il suo racconto: “declamazioni ampollose, […] solecismi pedestri, […] goffaggine ambiziosa”, insomma una società malata nascosta dietro gli apparati della pompa magna barocca. Ecco quindi che dietro le magniloquenti grida contro i bravi non c’erano che vuote parole dei governatori spagnoli, troppo impegnati, come il famigerato Fuentes, a “ordire cabale” per amministrare onestamente la giustizia. Questa giustizia d’altra parte, dalla dotta penna del Manzoni, emerge come una cortina ingannatoria di leggi prolisse e pene “pazzamente esorbitanti”, oltre cui si celava un mondo di sopraffazioni dei potenti, affratellati contro coloro i quali, come Renzo, “non avessero mezzi di far paura altrui”. La morale cui il debole doveva uniformarsi per sopravvivere era quella di don Abbondio, d’altra parte cosa poteva fare, nella latitanza dello Stato, “un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”? Neanche la cultura esce immune dagli strali della critica manzoniana. L’inutile e pomposa cultura barocca, quando non serviva strumentalmente ai potenti (come il latinorum dell’Azzeccagarbugli), era un vuota astrazione che si rifiutava di fare i conti con i dati dell’esistenza reale: don Ferrante morì di quella peste che, secondo i suoi sillogismi, non poteva esistere!
Insomma dal riquadro storico tracciato dal Manzoni, che pur non manca di tratti d’indiscustibile storicità (soprattutto per quanto riguarda le guerre e la peste), non si salva proprio nulla e solo la maestria artistica e la fede permisero allo scrittore milanese di sublimare la vasta materia in una visione più alta: non è la giustizia dell’uomo a tirare in definitiva le somme e, al di sopra del “guazzabuglio del cuore umano”, domina quella divina Provvidenza capace di dirigere con sapienza il destino degli uomini!
La visione eccessivamente negativa che Manzoni aveva del Seicento lombardo fu ereditata dalla lettura di alcune fonti non certo imparziali: l’opera Economia e statistica del giacobino Gioia, la Storia di Milano di Pietro Verri e, soprattutto, la Storia delle repubbliche italiane del ginevrino Sismondi. Quest’opera in particolare, vituperando la tirannide spagnola contrapposta alla libertà veneziana (e ciò venne ripreso da Manzoni nella sorte di Renzo, perseguitato e infelice a Milano, felice e prospero nel bergamasco), diede vita allo stereotipo del “secolo senza politica” spagnolo, che per molti anni ha fatto il paio nella storiografia italiana con “la messa in vendita dello stato” di Braudel.
Certamente il Manzoni ritrasse gli anni più infelici del periodo spagnolo di Milano (funestati da guerre, invasioni, carestie e dalla terribile peste del 1630) ma la condanna senza appello da lui espressa non poté che trascinare con sé l’intero periodo che va dalla fine del dominio sforzesco, con la caduta del debole Francesco II Sforza nel 1535, sino al 1706 quando, durante la guerra di successione spagnola, Eugenio di Savoia occupò Milano. Certo ogni buon milanese dovrebbe rattristarsi per la scomparsa di una dinastia autoctona come gli Sforza ma, a onor del vero, bisogna dire che l’autonomia milanese era, dallo scoppiò del confronto tra gli Asburgo e i francesi Valois, del tutto un’utopia dato che fu Fernando d’Avalos, luogotenente di Carlo v, a vendicare nel 1525 a Pavia la sconfitta di Marignano (1515) e a rimettere sul trono gli Sforza.
Basterebbe anche solo menzionare la tranquillità che la pax hispanica seppe garantire a Milano per circa un secolo e mezzo, di contro alle continue guerre a cui fu partecipe nel Settecento, per ribaltare il giudizio del Manzoni, ma le motivazioni per rivedere criticamente le pagine dei Promessi sposi sono ben di più. Innanzitutto bisogna evidenziare come il dominio spagnolo sul Ducato di Milano, come sugli altri stati della penisola che la pace di Cateau Cambrésis (1559) aveva attribuito a Filippo II Asburgo, fu ben lungi dall’essere una tirannide spietata, votata solo al fiscalismo oppressivo tanto da lasciare il territorio all’anarchia dei signorotti alla don Rodrigo. In realtà i sovrani spagnoli applicarono sin da subito la prassi dell’accordo coi ceti dirigenti, cioè col patriziato cittadino, e, in secondo luogo, gli interessi di tutti i territori italiani avevano una giusta rappresentanza a Madrid attraverso il Consiglio d’Italia. Le garanzie d’autonomia del patriziato milanese s’avvalsero anche di una contingenza particolarmente favorevole: Pio IV Medici (1559-64), primo e unico papa milanese, con una bolla del 1560 garantì, riservando ai patrizi milanesi alcune cariche che gli spagnoli avrebbero potuto assoggettare, il controllo del Collegio dei Nobili giureconsulti, il cui palazzo s’affaccia ancora su piazza Mercanti. Grazie a ciò il Senato di Milano, supremo tribunale del ducato, divenne la roccaforte dell’autonomia patrizia insieme al Magistrato Ordinario, organo fiscale. Peraltro l’esser inserita nell’impero spagnolo non significò per il ducato perder la sua dimensione internazionale, dato che lo Stato di Milano, di concerto col governatore, aveva diritto d’inviare rappresentanti diplomatici a Madrid e alle altre corti europee. Come tornasole della saggezza della politica spagnola di compromesso con i notabili locali, si può osservare come anche le riforme del duca Olivares del 1647, che suscitarono il celebre tumulto di Masaniello a Napoli, trovarono pacifica accoglienza nella popolazione milanese.
Lasciando il campo della politica lo splendore della Milano barocca può sfuggire solo a chi ha gli occhi offuscati dalla cataratta del razionalismo illuminista. Lo splendore delle chiese e delle cappelle costruite durante la controriforma (di cui mirabile esempio sono S.Alessandro in Zebedia, il macabro ossario di S.Bernardino e la S. Fedele del celebre Pellegrino Tibaldi) sono l’immagine di una città nella quale la fede cattolica tornò a rivivere, scongiurando il pericolo del protestantesimo, soprattutto grazie all’operato di San Carlo Borromeo, nipote del già menzionato Pio IV (non sempre il nepotismo ha effetti deleteri!) e arcivescovo di Milano dal 1564 al 1584. I nuovi ordini religiosi dei gesuiti e dei barnabiti importarono a Milano la fede genuina e semplice della Controriforma, fatta di devozioni ma anche di confraternite e congregazioni, in cui l’intimo perfezionamento religioso non andava a scapito della dimensione sociale del cattolicesimo. Insieme alla religiosità barocca questi ordini portarono ai meneghini una ventata di freschezza culturale assicurata dalle scuole, il collegio di Brera e le scuole arcimbolde di S.Alessandro soprattutto, che avrebbero formato generazioni di nobili milanesi. Sempre ad un ecclesiastico, il cardinal Federigo Borromeo, figura che rifulge per generosità e magnanimità anche dalle righe del Manzoni, dobbiamo la nascita della Biblioteca Ambrosiana, istituto che, nei secoli, ha conservato la memoria ed accresciuto la conoscenza della storia meneghina. Manifesto di un’epoca in cui religione, politica e cultura non andavano disgiunte, ma procedevano insieme per lo scopo duplice della salvezza delle anime e la felicità sulla terra è il teatro morale in dialetto del grande poeta Carlo Maria Maggi (1630-99), inventore della figura del Meneghin, maschera del milanese schietto e cont el coeur in man.
La Milano spagnola era ancora quella in cui il lavoratore, anziché essere lasciato in balia del padrone, trovava accoglienza e riparo nelle corporazioni e nelle botteghe, dove il padrone era una maestro e un padre anziché un oppressore. Alla crisi dell’economia seicentesca Milano seppe rispondere inoltre con la conversione: abbandonò la grande tradizione metallurgica, legata alla produzione di armi e corazze, per investire sulla lana e sulla seta, che permisero anche al contado di lavorare e sviluppare, di conseguenza, l’agricoltura.
Vero è che la peste (la cui diffusione è peraltro irrelata, contrariamente a quanto si crede, con la denutrizione) periodicamente si presentava alle porte dello Stato di Milano mietendo vittime in campagna e, in particolar modo, nelle affollate città. Le epidemie e le carestie però non risvegliavano solo gli istinti turpi dell’uomo, ben descritti dal Manzoni per la peste del 1630, ma anche quelli più magnanimi, visibili, sia per quanto riguarda l’opera d’assistenza che per la preghiera, nel comportamento di San Carlo Borromeo durante l’epidemia del 1576. Questi inoltre, a peste finita, andò in pellegrinaggio a Torino per pregare sulla Sindone; monumento ancora visibile del ringraziamento all’Altissimo da parte del Borromeo è il Tempio civico di San Sebastiano.
Non vi ho ancora convinto: osservate allora l’esuberante palazzo Litta in corso Magenta, la maestosa severità del Collegio elvetico in via Senato, la facciata della Ca’ Granda oppure, ancor meglio, uno qualsiasi dei ritratti dei nobili milanesi del periodo spagnolo. Anzi prendete quest’ultimo e accostatelo alla foto di Berlusconi che fa le corna: forse Manzoni ai nostri giorni avrebbe trovato tempi più turpi di cui parlare!
Davide Canavesi
Fonte: Cinghiale Corazzato numero 25, settembre-ottobre 2008