giovedì 24 dicembre 2015
[TOLKIENIANA] Gandalf, voce di uno che grida nel deserto
di Isacco Tacconi (Fonte: http://www.radiospada.org/)
Forse il personaggio di cui ci apprestiamo a fornire una descrizione, diciamo così, “metafisica” cioè che si spinga un poco oltre le mere apparenze, è il più amato fra le creature di Tolkien. Di certo è il più rappresentato, forse a causa dell’aspetto ieratico, simbolico, a volte oscuro e impenetrabile che il vecchio Barbagrigia evoca nella mente del lettore. Gandalf è certamente una figura difficile da inquadrare, e carpirne l’anima non è cosa facile giacché è un personaggio fluido, etereo, sfuggente. Come nel libro infatti appare e scompare in maniera repentina, allo stesso modo è quasi impossibile riuscire ad intrattenersi, letterariamente parlando, con lui più di qualche minuto, perché è egli stesso a non consentircelo.
Ma chi è Gandalf? Ascoltiamo cosa dice in proposito nonno Tolkien: “Alla fine della seconda settimana di settembre, un carro proveniente dal Ponte sul Brandivino traversò Lungacque in pieno giorno. Era guidato da un vecchio con un aguzzo cappello blu, un largo mantello grigio ed una sciarpa color argento. Aveva una folta barba e sopracciglia cespugliose che spuntavano oltre le falde del cappello […]. Il vecchio era Gandalf in persona, lo Stregone la cui fama nella Contea era dovuta in primo luogo alla sua abilità nel maneggiare fuochi, fumi e luci. Il suo vero lavoro era di gran lunga più difficile e pericoloso, ma la gente della Contea non lo sospettava nemmeno”[1].
La descrizione, come si vede, è sfuggente e lo stesso Tolkien è avaro di dettagli, anzi ce lo presenta attraverso gli occhi degli hobbit che lo considerano poco più di un “prestigiatore”. Ma la vera natura di Gandalf si svela attraverso le sue parole e le sue azioni, in osservanza dell’adagio aristotelico-tomista «agere sequitur esse» (“l’agire è una conseguenza dell’essere, cioè della natura delle cose, che le fa essere ciò che sono”). Ma proprio questo è il punto: qual è la natura di Gandalf? Egli è uno stregone, certamente, ma è molto di più di un semplice magus. La sua identità sembra sfuggisse allo stesso Tolkien, tant’è che sarebbe meglio porre la questione in questi termini: “Che cosa è Gandalf?”. La sua prima comparsa assoluta così ce lo presenta: “ecco arrivare Gandalf. Gandalf! Se di lui aveste sentito solo un quarto di quello che ho sentito io, e anch’io ho sentito ben poco di tutto quello che c’è da sentire, vi aspettereste subito una qualche storia fuor dal comune”[2]. Tolkien, da scrittore e narratore sapiente non ci fornisce una descrizione dettagliata di ciò che Gandalf è in se stesso, contrariamente all’odierna civiltà dell’immagine che invece annichilisce la fantasia, facoltà così importante per la vita dell’uomo perché possiede la capacità di riportarlo allo stato di interiore e ingenua fanciullezza richiesta per entrare nel Regno dei Cieli.
No, Tolkien non è invadente e pedante, nondimeno appare impegnativo e attraente perché solletica e sollecita la fantasia del lettore. Lo afferma lui stesso in una lettera: “Penso che sia meglio non affermare esplicitamente ogni cosa…la verità deve essere scoperta o indovinata dalle prove fornite”[3]. Pedagogia, questa, eminentemente divina.
In questo senso, la realizzazione cinematografica del Signore degli Anelli ha senza dubbio molti meriti ma altrettante colpe, come quella di aver ridotto e a volte contaminato l’essenza di alcuni personaggi. Fra quelli che hanno subito una maggiore perdita di spessore vi è certamente Gandalf. Il libro, infatti, ce lo presenta come un personaggio, prima facie, poco simpatico tutt’altro che bonaccione. Lo stregone grigio è, anzi, piuttosto burbero e ispido come la sua barba, pungente nei suoi ammonimenti come il suo cappello a punta.
Eppure, allo stesso tempo, Gandalf è una figura estremamente confortante, è il sostegno e la guida della Compagnia ma anche dei sovrani degli elfi e degli uomini. Egli giunge al momento opportuno, “al mutar della marea” nelle vicende della Terra di Mezzo. L’ammirazione che quasi sfocia in una venerazione per la figura di Gandalf, fu palpabile già subito dopo la pubblicazione del Signore degli Anelli negli Stati Uniti quando, verso la fine degli anni cinquanta, si potevano vedere nella metropolitana di New York scritte di questo genere: “Gandalf for President”.
In una delle sue lettere, Tolkien cerca di fornire una spiegazione, a dire il vero piuttosto vaga, sull’origine della “razza” degli Istari cui Gandalf appartiene: “La loro origine – dice – è conosciuta solo da pochissimi (come per esempio Elrond e Galadriel) nella Terza Era. Si dice che siano comparsi per la prima volta intorno all’anno 1000 della Terza Era, quando l’ombra di Sauron cominciò nuovamente a prendere forma. Hanno sempre un aspetto anziano, ma diventano ancora più vecchi esercitando la loro opera, lentamente, e spariscono con la fine degli Anelli. Si pensava che fossero “Emissari” (all’interno di questo racconto emissari dal lontano Occidente al di là dal mare), e il loro vero compito, mantenuto da Gandalf e distorto da Saruman, era quello di rafforzare e portare alla luce i poteri naturali dei nemici di Sauron. L’opposto di Gandalf era Sauron”[4].
Ma direi di fermarmi qui con le citazioni tolkieniane perché io, al contrario di Tolkien, non sono né un vero scrittore né tanto meno un filologo, ma mi piace cercare Dio in ogni cosa e trovare in ciò che leggo, vedo e ascolto la presenza di Colui che ogni cosa ha fatto. Sono consapevole che una tale ammissione comporti, dalla prospettiva di chi legge, una diminuzione di valore di quanto scrivo e una sorta di “autogol letterario”, eppure non pretendo di considerarmi quello che non sono né di proporre ciò che scrivo come frutto di un lavorio meritevole di considerazione. Le mie non sono altro che meditazioni ad alta voce, che non pretendono in alcun modo di rettificare i pensieri e le intenzioni del professore di Oxford ma soltanto di approfondire, come già detto, la ricchezza di senso racchiusa in un’opera d’arte, qual è il Signore degli Anelli, lasciata in buona parte, per ammissione del suo stesso autore, incompiuta e aperta.
Dunque, procediamo. La composizione trinitaria di ogni realtà e di ogni essere finanche il più infimo, come insegnano sant’Agostino e san Bonaventura, è per me via al «Factorem coeli et terrae» il quale, come sigillo, ha impresso la propria immagine ad ogni realtà creata seminando tanti piccoli indizi nel mondo, di modo che ci guidino, discretamente, come le briciole di Hansel e Gretel alla “Casa paterna”. Ad esempio un vento freddo d’autunno fra le colline brulle e silenziose della Toscana; una rossa coccinella che sale lenta, un filo d’erba verde; un vecchio tronco maestoso all’esterno e vuoto al suo interno, divenuto rifugio a qualche famiglia di topolini; una goccia d’acqua caduta su una pozzanghera, residuo di una tempesta e preludio a una nuova bufera in un cielo di vitreo argento simile al mithril; creste di montagne nebbiose che ricordano i viaggi della Compagnia verso il monte del Destino; l’odore di biscotti che si spande dalla cucina in tutta la casa mentre fuori si respira aria di Natale; un saio marrone e consunto di panno grezzo che sgrana una corona del Rosario mentre avanza per la via boscosa come Radagast il Bruno. Ecco, questi gli indizi di verità, bontà e bellezza che il Creatore seminò nel mondo quali segni evidenti di quell’“Amor che move il sole e l’altre stelle”. Tali sono i segni e le visioni che lo sguardo di Gandalf, di Frodo e di John Ronald Reuel Tolkien incontra mentre si avviano verso i porti grigi nell’ultimo viaggio. “La morte – dice Gandalf – è soltanto un’altra via, dovremo prenderla tutti”, ma il modo in cui ci si dispone ad intraprendere un viaggio, ben lo sapeva Tolkien, determina il suo successo o la sua rovina. In questo viaggio, infatti, se non si è ben equipaggiati e rettamente orientati verso la mèta, ci si può perdere e smarrire per l’eternità.
Gandalf, essendo emissario dei Valar (potremmo dire, parafrasando, «del Cielo»), è stato mandato sulla Terra di Mezzo proprio per raddrizzare le vie e appianare i sentieri per preparare la venuta del Re, come risuona nel Tempo santo d’Avvento la novena in preparazione del Natale: “Ecce Rex veniet Dominus terrae, et ipse auferet jugum captivitatis nostrae”. È pur vero che Tolkien lo definisce una sorta di “messaggero angelico” eppure per il suo aspetto, per il suo ruolo e per le sue gesta, Gandalf appare più simile a un profeta dell’Antico Testamento, sembra cioè essere più un «ish Elohìm» ossia un “uomo di Dio”.
Egli viaggia attraverso le contrade della Terra di Mezzo ad esortare, insegnare, correggere e guidare popoli e re, hobbit, uomini ed elfi parlando con l’autorità profetica di colui che solo, appunto, è la “bocca di Dio”. Gandalf dice la verità, insegna il bene, è prudente e, per questo, previdente, dalla sua bocca escono parole sagge e giuste: “Os iusti meditabitur sapientiam, et lingua ejus loquetur judicium” (Ps 36, 30). L’opposizione di Gandalf messaggero di verità, alla “Bocca di Sauron”, personaggio oscuro di cui Tolkien non indica neanche il nome, è forte tanto quanto la verità si oppone alla menzogna.
Gandalf è colui che “andrà davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per volgere i cuori dei padri ai figli e i ribelli alla saggezza dei giusti, per preparare al Signore un popolo ben disposto” (Lc 1,17). Ma la sua vera antitesi è Saruman che in qualche modo rappresenta uno dei falsi profeti. Ma dello stregone bianco, divenuto poi Saruman il multicolore (interessante coincidenza con il “pacifismo multicolore” contemporaneo), ci occuperemo nello specifico in una trattazione a parte.
L’azione principale che vediamo svolgere da Gandalf che in questo senso si, come uno “spirito buono”, aleggia fra le pagine della Terra di Mezzo, è quella di infondere coraggio, di additare la via e scuotere gli animi rattrappiti, tiepidi come quello di Bilbo, spingendolo energicamente verso l’avventura della vita, verso ideali e valori che trascendono il piccolo mondo, un po’ materialista, della Contea. “Imparerai più nei boschi che nei libri, gli alberi e le rocce ti insegneranno le cose che mai nessun maestro ti dirà”. Questa frase, se non sapessimo che appartiene a San Bernardo da Chiaravalle, potremmo tranquillamente pensare che sia di Mithrandir, epiteto elfico che significa «Grigio Pellegrino o Viandante», usato in Gondor per chiamare Gandalf. E non è forse questa una caratteristica tipica dei profeti, il viaggiare e il peregrinare?
In particolare la missione di Gandalf è quella di battistrada al viaggio di Aragorn verso il suo trono, preparando il ritorno del Re. Inoltre, Mithrandir agisce come un pastore che si sforza di radunare il gregge disperso e confuso, correndo sulle ali di Ombromanto («Shadowfax» in inglese) ai quattro angoli della Terra di Mezzo per compattare le ultime resistenze e convogliare le energie dei popoli liberi della Terra di Mezzo in uno sforzo comune contro il Male che rischia di inghiottire ogni cosa. Perciò quello che all’inizio sembrava soltanto un amico degli hobbit, stimatore dell’erba pipa di Pianilungone si rivela essere un condottiero di armate. Egli è anche sentinella e custode in particolare di Frodo, il portatore dell’Anello: “Dallo a Frodo – dice a Bilbo – ed io veglierò su di lui”[5].
Ma c’è un altro elemento per lo più trascurato o ignorato dai commentatori di Tolkien, che è l’aspetto eminentemente sacerdotale di Gandalf. Infatti, se facciamo attenzione, la simbologia e i segni che caratterizzano Saruman e Gandalf sono anzitutto i loro bordoni, simili ai pastorali dei vescovi, il loro aspetto da old wise che ricorda le immagini dei padri della Chiesa, e la loro appartenenza ad un vero e proprio ordine superiore di saggi, costituiti pastori di tutti i popoli della Terra di Mezzo. Saruman infatti è anzitutto il sommo sacerdote del suo ordine e non a caso il colore che contraddistingue il suo grado supremo è il bianco che, in seguito al suo tradimento, passerà a Gandalf insieme allo scettro e al bastone, segni del potere e dell’autorità. L’analogia tra Caifa e San Pietro che lo sostituirà come nuovo Sommo Sacerdote nel regno che viene, che è la Chiesa Cattolica, si sovrappone e aderisce in maniera impressionante alla vicenda di Saruman e Gandalf.
Ma c’è di più. Il nostro buon vecchio Barbagrigia è al contempo, come altri personaggi tolkieniani, una figura eminentemente cristologica. La sua morte e la sua risurrezione ne sono un rimando implicito ma chiaro. “«Un Balrog», mormorò Gandalf. «Adesso capisco». Vacillò, e si sostenne faticosamente col bastone. «Che sorte malefica! Ed io sono già stanco»”. La debolezza e lo sconcerto di Gandalf difronte al suo destino di sacrificio consapevole che è giunta “la sua ora”, sembra rievocare quell’estremo momento in cui Nostro Signore, stanco, debole e prostrato dall’angoscia sentì tutto il peso dei nostri peccati nel Getsemani. Molti santi e mistici dichiarano che proprio quello fu il momento più doloroso e buio di tutta la Passione di Cristo. “«Attraversate il ponte!», gridò Gandalf, radunando le proprie forze. «Fuggite! Questo è un nemico troppo forte per chiunque di voi. Devo difendere io lo stretto passaggio»”. Ecco che comincia a svelarsi la missione personale di Gandalf. Il suo compito piomba all’improvviso su di lui inesorabile come il destino: deve difendere lo “stretto passaggio”, ossia quella via stretta che conduce alla vita, che richiede inevitabilmente una vittima di espiazione. L’ostacolo che si frappone fra la morte, il Demonio e noi è il Sacrificio di Nostro Signore, ovvero la Sua Santa Croce, simbolo di ignominia, obbrobrio e sconfitta eppure di gloria, di amore e di vittoria. E in quell’imperativo “fuggite!” di Gandalf ritroviamo il precetto divino di fuggire il male, non pretendendo di affrontarlo con la nostra fragile umanità, perché esso è un nemico superiore alle nostre forze. Solo la Croce di Nostro Signore ha vinto il Mondo e il Demonio, guadagnandoci la corazza della Grazia per presentarci, a suo tempo, dinanzi al Nero Cancello con Lui alla testa per sfidare la Morte.
Il momento dello scontro è terribile e la descrizione che Tolkien ne fornisce, penetrante. Il Balrog “avanzò lentamente sul ponte, e d’un tratto si eresse ad una immensa altezza, estendendo le ali da una parete all’altra; ma Gandalf si scorgeva ancora, un bagliore nelle tenebre; pareva piccolo, e del tutto solo: grigio e curvo come un albero avvizzito prima dell’assalto di una tempesta”. Quanto dovette sembrare piccolo e debole Nostro Signore appeso sulla Croce, solo e nudo dinanzi alla vittoria (apparente) dei suoi nemici. Appeso al patibolo di morte che diventerà poi l’Albero della Vita, Nostro Signore, come Gandalf a Khazad-dum, si lascia trascinare nello sprofondo della morte nascondendosi per un poco allo sguardo dei suoi amici, ma solo per tornarne Liberatore e Redentore.
Nell’affrontare il Demone del mondo Antico, Gandalf si immerge nell’abisso e in quel momento tutto sembra perduto. Colui che era la guida e il pastore lascia orfani i membri della Compagnia i quali, addolorati ed abbattuti, cominciano a disgregarsi e a perdere la speranza di riuscire nella loro impresa. Gandalf affronta quel nemico, superiore alle forze di qualsiasi altro mortale, da solo, nell’abisso infernale in un duello mirabile come recita la sequenza di Pasqua: “Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus”. Dal torrione più basso alla cima più alta lo scontro prosegue all’insaputa del mondo. Ma da quello scontro invisibile dipende la salvezza della Terra di Mezzo.
Ad ogni buon conto, nonostante la curiosità sia molta e le domande che vorremmo porre a Tolkien siano numerose, credo che la domanda «chi (o che cosa) sia, Gandalf?» sia destinata a non trovare una risposta compiuta e definitiva. E come neppure il nostro buon vecchio nonno Tolkien ha voluto né potuto levare il velo che avvolge alcune delle sue “creature”, non sarò di certo io ad avere la presunzione di tentarlo. Il mistero, dunque, rimane al pari di quello che avvolge la figura del profeta Elia rapito in cielo su di un carro di fuoco. Eppure, con gli indizi in nostro possesso possiamo formulare un’ipotesi, a mio avviso, più che verosimile: Gandalf “è colui del quale è scritto: «Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero, che preparerà la tua via davanti a te»” (Lc 7,27). La sua essenza, infatti, si identifica con la sua missione e questa si esaurisce con l’avvento del Re, del quale egli è stato precursore e consigliere. Solo quando il Re avrà preso possesso del regno e ristabilito ogni cosa, solo allora il Grigio Pellegrino potrà prendere congedo dalla Terra di Mezzo per sciogliere le vele verso il meritato riposo.
Non a caso la Chiesa in questo santo tempo di Avvento, ci ammonisce e dispone alla venuta del Messia con la predicazione di san Giovanni Battista, pellegrino e profeta nelle terre intorno al Giordano. Egli, il Battista, vissuto nel nascondimento, la cui vera identità sfuggì ai suoi stessi contemporanei fu colui che traghettò l’antica Legge alla Grazia di Cristo. Poveramente vestito, ma rivestito dello spirito e della forza di Elia, San Giovanni condivide con Gandalf la missione profetica e ancor più l’altissimo compito di essere l’araldo del Gran Re, “di lui parlò infatti il profeta Isaia quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri»” (Mt 3,3).
Così, san Giovanni, cede il passo al Figlio di Dio: “fissando lo sguardo su Gesù, che passava, disse: «Ecco l’Agnello di Dio!». I suoi due discepoli, avendolo udito parlare, seguirono Gesù” (Gv 1,36-37). Similmente, Gandalf, giunto al dunque, avendo terminato la corsa e combattuto la buona battaglia, esce dalla scena di questo mondo dicendo: “Cari amici, qui sulle rive del Mare finisce la nostra compagnia nella Terra di Mezzo. Andate in pace! Non dirò: «Non piangete», perché non tutte le lacrime sono un male”. E quanto siano vere queste parole ce lo attesta l’Inno della Novena in preparazione del Santo Natale: “Omnes simul cum lacrymis, precemur indulgentiam”. Fratelli d’esilio, leviamo, dunque, il capo perché la nostra liberazione è vicina.
Sancte Joànnes Baptista: ora pro nobis.
[1] Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano 1999, pp. 51-52.
[2] Lo Hobbit, Adelphi, Milano 2002, p. 16.
[3] Lettera n. 268 in La realtà in trasparenza, Bompiani, Milano 2002, p. 398.
[4] Lettera n. 144, op. cit., p. 204.
[5] Il Signore degli Anelli, op. cit., p. 63.