mercoledì 23 dicembre 2015

A Cesare sì, a Dio no

39279_georges-pontier-marseille_440x260

Fonte: http://www.radiospada.org/

In rete troviamo questo contributo su laicità/laicismo, separazione Stato/Chiesa e “libertà religiosa”; volentieri lo offriamo ai nostri lettori. [RS]

di don Gabriele D’Avino

Un distinto gentiluomo in giacca e maglione (si tratta di mons. Georges Pontier, Arcivescovo di Marsiglia e Presidente della Conferenza Episcopale Francese) si è sentito in dovere, il 4 dicembre scorso, di pubblicare una dichiarazione a nome dell’episcopato gallico sulla celebre legge del 1905 relativa alla separazione tra la Chiesa e lo Stato in Francia, legge di cui ricorre il 110° anniversario in questi giorni. Nessuno, ma proprio nessuno glielo aveva chiesto né sollecitato.
Eppure, il prelato ha preso spunto da questo deplorevole anniversario per sottolineare come, pur essendo “buona” secondo lui la legge, è stata tuttavia mal interpretata e ha portato non ad una “laicità dello Stato” ma ad una “laicizzazione della società”.
A parte il fatto che ci sfugge la realtà della distinzione tra i due termini, è evidente l’intento di mons. Pontier di evitare una stigmatizzazione (non già dei cattolici che lui rappresenta!) di tutti i credenti, cosa che impedirebbe loro di “esprimersi come cittadini”: l’argomento è che, secondo lui, non bisogna esagerare nell’applicare la legge fino a relegare la religione (si badi, una qualsiasi, non necessariamente il cattolicesimo) nella sfera privata, altrimenti si rischia “l’emergenza di correnti e attitudini fondamentaliste”. Un po’ relegati, insomma, ma non troppo. Basterebbe che, a suo dire, “la legge fosse applicata con vigilanza e rispetto”.
Si dirà: già visto e rivisto, è la solita applicazione della solita libertà religiosa, ampiamente condannata dai papi dell’800 e del primo ‘900, affermata invece con forza dall’ultimo Concilio come diritto inalienabile. Certo, tuttavia può essere interessante rinfrescare la memoria su un episodio storico ben preciso, cioè che la promulgazione di questa legge fu oggetto di una precisa, diretta e solenne condanna da un’enciclica scritta ad hoc: la Vehementer nos di Papa San Pio X, dell’11 febbraio 1906.
La legge in questione inizia col dire che “la Repubblica assicura la libertà di coscienza” ma che “non riconosce né finanzia né sovvenziona alcun culto”. Il prelato dalla memoria corta afferma che il testo legislativo è atto a “favorire l’esercizio delle libertà”, e che perciò “la Chiesa cattolica, da qualche decennio, non rimette in causa questa legge ma la rispetta”. Linguaggio politicamente corretto che avrebbe fatto inorridire papa Sarto il quale, senza mezzi termini, nella lettera enciclica pubblicata tre mesi dopo la promulgazione della legge iniqua tuona: “È questo un avvenimento gravissimo, e tutte le anime buone devono deplorarlo”.
Questo provvedimento legislativo, infatti, si basa su una tesi perniciosa; dice ancora il Sommo Pontefice: “È una tesi falsa, un errore pericolosissimo, pensare che bisogna separare lo Stato dalla Chiesa”; e ancora, il principio secondo cui lo Stato non deve riconoscere nessun culto religioso “è assolutamente ingiurioso verso Dio, poiché il Creatore dell’uomo è anche il fondatore delle società umane”. La Chiesa, si vede bene, la Chiesa di sempre, non rispetta affatto questa legge…
A fondamento della sua zoppicante tesi, il Vescovo francese, per dimostrare che la Chiesa riveste qualche importanza cita le sole opere naturali a cui essa si dedicò: “l’educazione, la sanità, la cultura, la promozione sociale, il sostegno alle famiglie, la presenza presso i giovani”, come se questo fosse l’unico compito della società fondata da Gesù Cristo. Lo ricorda bene San Pio X, insistendo sul fatto che la tesi della laicità dello Stato “è un’ovvia negazione dell’ordine soprannaturale”, proprio perché il compito della società civile sarebbe ridotto alla sola prosperità materiale, come se l’uomo non avesse altro fine. Ma l’uomo ha un fine soprannaturale, e se la conquista della beatitudine eterna non è diretto appannaggio dello Stato, esso deve necessariamente non solo non impedirla, ma “aiutarci a compierla” (cit. dall’Enciclica) appunto favorendo la vera religione.
Mons. Pontier sembra poi dimenticare del tutto che la legge del 1905 non si limita solo ad enunciare princìpi teorici, ma mette in atto una vera e propria spoliazione dei beni della Chiesa, togliendole la proprietà di tutti gli edifici di culto che (ed erano solo una parte!) con il Concordato napoleonico del 1801 erano stati restituiti alla Santa Sede come risarcimento parziale delle spoliazioni della Rivoluzione. Insomma, “date a Cesare quel che è di Cesare ma pure quel che è di Dio”.
La gestione degli edifici di culto (chiese, monasteri, ecc.) viene infatti affidata, come leggiamo nel Titolo III e IV del testo legislativo del 1905, a delle Associazioni “culturali” di laici, le quali sono, in ultima istanza, sottoposte al controllo del Consiglio di Stato. Queste misure, rimproverò con veemenza il Santo Padre, “mettono odiosamente la Chiesa sotto il dominio del potere civile”; e ancora: “lo Stato così offende la Chiesa”. Ecco perché l’enciclica si conclude in maniera impetuosa, con le forti parole che oggi la gerarchia ecclesiastica non è più in grado di pronunciare: “noi riproviamo e condanniamo la legge votata in Francia sulla separazione della Chiesa dallo Stato come profondamente ingiuriosa rispetto a Dio che essa rinnega ufficialmente”. Com’è possibile che oggi la “Chiesa” rispetti questa legge?
Mons. Pontier è figlio ed erede della nuova teologia e della “nuova religione” della libertà di culto. Egli non fa che applicare l’ermeneutica della continuità, senza dubbio. Ma il suo comunicato del 4 dicembre, del tutto gratuito, fatto a nome di un’intera conferenza episcopale, non è la voce della Chiesa, non è la voce di un suo ministro ma di un suo nemico che, oggi come ieri, trama contro di essa e per la sua distruzione, sebbene con sorrisi smaglianti e con la falsa pretesa di salvaguardarne i diritti.
Sant’Ignazio di Loyola, al num. 22 degli Esercizi Spirituali (è il “presupposto”) dice che “ogni buon cristiano deve essere più propenso a salvare l’affermazione del prossimo che a condannarla: se non può giustificarla, indaghi come è intesa […]”.
Abbiamo girato e rigirato tra le mani tanto la dichiarazione della Conferenza Episcopale, quanto la Vehementer nos di San Pio X; abbiamo provato in tutti i modi a interpretare bene o a salvare le affermazioni dell’Arcivescovo di Marsiglia.

Ci dispiace.
Non ci siamo riusciti.


Fonte