di Luca Fumagalli (Fonte: http://www.edizioniradiospada.com/ )
Accanto ai grandi avvenimenti della storia sorge sempre un corollario di aneddoti più o meno fantasiosi. Tra quelli connessi alle imprese dei volontari di Pio IX, uomini che da tutto il mondo raggiunsero il piccolo Stato pontificio per difendere il Papa dalle mire espansionistiche di Cavour e di Vittorio Emanuele II, ve ne è uno davvero singolare che riguarda la famosa medaglia d’argento “Pro Petri Sede” distribuita ai sopravvissuti della battaglia di Castelfidardo. Una consolidata tradizione orale garantisce che una di queste sia stata rinvenuta fra le spoglie del famoso capo pellerossa Toro Seduto. L’avrebbe strappata a un soldato irlandese passato dall’esercito papale a quello statunitense. Coinvolto nello scontro di Little Bighorn, dove gran parte del reggimento a cavallo del generale Custer fu massacrato, il soldato si comportò con tale coraggio da suscitare l’ammirazione dei vincitori. Toro Seduto si appropriò quindi della medaglia ritenendola un amuleto di forza e temerarietà.
Dato il triste destino del capo indiano, sembra che il feticcio tutto sommato non abbia sortito l’effetto sperato. Ma l’episodio, sebbene marginale, testimonia l’enorme eco internazionale che ebbero le imprese dei crociati antirisorgimentali accorsi a Roma tra il 1860 e il 1870. Nella Città Eterna in dieci anni transitarono volontari di ben ventisette nazioni. In tutto mai superarono le quindicimila unità, ma le scarse disponibilità economiche della casse pontificie non permettevano di mantenere un esercito più grande. I richiedenti furono numerosissimi e alcune fonti parlano addirittura di centomila giovani pronti a partire dal solo Quebec. Le reclute vennero dunque inquadrate in diversi corpi, il più famoso dei quali fu quello degli Zuavi, nato ufficialmente il 1 gennaio 1861 sui resti dei Tiragliatori franco-belgi.
I mazziniani accusavano la Chiesa di opporsi alla modernità, di arroccarsi dietro i bastioni dell’assolutismo per tentare inutilmente di proteggersi dall’inevitabile avanzata repubblicana. Forse non si accorsero – o non vollero accorgersi – che mai come nell’esercito papale la democrazia aveva trovato più vasta applicazione. Infatti, per la prima volta nella storia, il fabbro bavarese combatteva fianco a fianco con il conte francese, lo studente italiano con l’agricoltore irlandese, l’ex seminarista fiammingo con il cacciatore di bisonti statunitense. Nobili e popolino avevano trovato nella Fede e nella comune causa della difesa del potere temporale della Chiesa un collante così efficace da travalicare qualsiasi steccato sociale. Inoltre, diversi ufficiali che avevano edificato la propria carriera sui più famosi campi di battaglia europei dettero prova di grande umiltà arruolandosi a Roma come soldati semplici, e furono numerosi quelli che rinunciarono allo stipendio per devolverlo in favore di opere pie.
L’appassionante vicenda dei volontari di Pio IX, spesso ignorata dalla storiografia risorgimentale mainstream, è raccontata nel recente saggio di Alfio Caruso intitolato Con l’Italia mai! La storia mai raccontata dei Mille del Papa (Longanesi, 2015). Caruso, giornalista e scrittore, si accolla l’oneroso compito di scavare nuovamente nel passato scomodo dell’Italia per riportare alla luce una delle pagine più contraddittorie della storia nazionale. I Mille a cui si riferisce il sottotitolo, in particolare, furono coloro che come Kanzler, De Courten, Allet, Azzanesi e Ungarelli maturarono una lunga carriera nell’esercito pontificio: giovani tenenti nel 1848 durante la difesa di Vicenza a fianco dei soldati di Carlo Alberto, divennero i generali che nel 1870 tentarono l’ultima e disperata resistenza a Roma. Caruso parte dalla loro esperienza individuale per imbastire una narrazione di taglio giornalistico, frizzante e accattivante, che non risparmia elogi e critiche a entrambe le parti in lotta. L’ago della bilancia in ultima istanza sembra però pendere più dalla parte dei militi del Papa per cui l’autore prova una naturale ammirazione. La prospettiva complessiva tende comunque all’oggettività e l’apparato bibliografico – piuttosto limitato, ma adatto per un lavoro a scopo divulgativo – rivela l’utilizzo di fonti composite che vanno delle testimonianze dei reduci agli studi di Montanelli e di Denis Mack Smith.
Il volume abbraccia un arco temporale piuttosto lungo, dall’elezione di Pio IX nel 1846 alla caduta di Roma nel 1870. Dal tema centrale si dipanano poi diverse piste che approfondiscono vicende collaterali come il complesso quadro politico internazionale dell’epoca, la fine del Regno delle Due Sicilie, l’esilio romano di Francesco II, il Concilio Vaticano, il brigantaggio e, in generale, i tanti nodi irrisolti dell’unità. A questo proposito il giudizio dell’autore è tranciante: «L’Italia è da subito un grande mercato nel quale ciascuno prova a concludere l’affare migliore. A cominciare dai Savoia nessuno ha l’autorità morale per ergersi a custode della nazione; stanno sul trono per una serie di eventi spesso indipendenti dai loro desideri, dalla loro volontà. A differenza di quanto ancor oggi si ripete, non sono stati loro a fare l’Italia, è l’Italia che se li è trovati sul groppone essendo stata l’unica dinastia a guardare oltre i propri confini».
Lo spirito revisionistico del libro è ben esemplificato dalla descrizione dell’incontro tra il giovane tenente Riccardo Mortara, da poco entrato a Roma con gli italiani, e il fratello minore Edgardo, sottratto dodici anni prima a Bologna ai genitori per espresso volere delle gerarchie ecclesiastiche. Il “caso Mortara”, che all’epoca suscitò un moto d’indignazione in tutta Europa, ebbe luogo il 23 giugno del 1858, quando la polizia venne a sapere che la cameriera dei Mortara, agiati ebrei romagnoli, aveva battezzato a due anni il bambino, gravemente malato. Il battesimo, secondo la legge allora in vigore, escludeva che Edgardo fosse allevato da genitori non cattolici: il giovane fu quindi condotto nella capitale. Ciò che però si tace è che l’incontro tra i due fratelli nel 1870 fu tutt’altro che piacevole. Edgardo, da tre anni accolto nell’ordine dei Canonici regolari del Laterano, non accettò di tornare in famiglia: l’unica che ormai riconosceva era quella clericale.
Ma il grande merito del testo di Caruso è quello di soffermarsi sui protagonisti, grandi e piccoli, che animarono l’azione antirisorgimentale di Pio IX, il più grande nemico dell’Italia massonica, lo stesso che fu scambiato nei primi anni di pontificato per un convinto liberale. Sotto di lui, mossi innanzitutto dall’affetto per il Papa e dalla convinzione che la perdita del potere temporale avrebbe scosso la Chiesa dalle fondamenta, tanti impugnarono le armi per difendere le prerogative del trono e dell’altare.
È questo il caso, per esempio, delle “anatre pazze”, soprannome affibbiato dai romani ai tumultuosi irlandesi, intrattabili dopo aver alzato il gomito in qualche osteria – cosa che, detto per inciso, accadeva spesso – ma soldati estremamente affidabili in battaglia. Cresciuti a patate e Vangelo, molti di essi compirono azioni eroiche guadagnandosi le lodi dei superiori e numerosi riconoscimenti. Meritano di essere citati anche i “zampitti”, pastori e contadini ciociari che ebbero un ruolo determinante soprattutto nello sgominare le bande di briganti penetrate nel Lazio meridionale. Sudditi fedeli, arruolati soprattutto per la conoscenza del territorio, si rivelarono presto instancabili cacciatori di fuorilegge.
A sostenere le peripezie di un esercito costantemente in inferiorità numerica e inevitabilmente votato alla sconfitta accorsero anche diverse donne che, accanto a frati e suore, svolgevano mansioni infermieristiche. La Rosalia Montmasson dei pontifici fu l’inglese Katherine Stone. Sanfedista tutta d’un pezzo, era solita aggirarsi tra i feriti completamente vestita di nero, in testa indossava un baschetto inforcato da una piuma alla cacciatora con il velo ripiegato intorno e trattenuto da un fermaglio rappresentante la medaglia di San Pietro. Di stanza presso le Suore della Carità, si comportò egregiamente portando ai sofferenti non solo i medicinali, ma anche il conforto di un sorriso e di una preghiera.
Accanto ai volontari mossi da nobili ideali non mancarono diversi che giunsero nello Stato della Chiesa solo per sfuggire alla giustizia dei rispettivi paesi o attirati dalla prospettiva di uno stipendio sicuro. Famoso fu il caso di John Surrat, ex soldato confederato accusato di aver preso parte alla cospirazione per uccidere Lincoln. Arruolatosi negli Zuavi sotto falso nome, fu riconosciuto e costretto a scappare. Catturato ad Alessandria d’Egitto e ricondotto negli Stati Uniti, per sua fortuna venne scagionato per insufficienza di prove.
Principi, banditi e uomini di Fede, la storia dei Mille del Papa si concluse a Roma il 20 settembre 1870. Dopo che le speranze di vittoria erano presto naufragate davanti alla preponderanza delle armate guidate da Cadorna, lo stato maggiore papalino, su consiglio di Pio IX, puntò a una resistenza poco più che simbolica. Qualche cannonata, alcune decine di morti e la città si arrese: la rivoluzione italiana alla fine aveva trionfato. I reparti pontifici, il cui bivacco si trovava in piazza San Pietro, alla sera cantarono per l’ultima volta “L’inno a Pio IX” composto da Charles Gounod; il giorno dopo avrebbero dovuto abbandonare la Città Eterna, condannati fino alla morte a vivere la misera condizione di stranieri in patria. L’unica consolazione che dava alla piazza ancora la forza di abbozzare un sorriso tra le lacrime era quella che, almeno in cielo, Qualcuno si sarebbe ricordato di loro.
Il libro: A. CARUSO, Con l’Italia mai! La storia mai raccontata dei Mille del Papa, Milano, Longanesi, 2015, pp. 313, prezzo 18,60 Euro.