Di Isacco Tacconi - Fonte: http://www.radiospada.org/
Come può un uomo dimostrare il suo valore? Da cosa conosciamo la sua virtù? Seguendo la philosophia perennis risponderemmo: dalle sue azioni, in virtù del postulato metafisico «agere sequitur esse». Una verità espressa da San Francesco d’Assisi con queste semplici parole: “tanto sai quanto fai” per insegnare che il valore, il prezzo di un uomo si valuta in base alla sua virtù, al bene che egli compie e si sforza di compiere in un combattimento virile e diuturno.
Parlare di Aragorn vuol dire, a mio avviso, parlare del “Tutto”, ossia avventurarsi nelle profondità della spirituale fatica della vita cristiana fino alle più alte vette del Mistero del Verbo Incarnato; dalla essenziale humilitas – costituzione fondante e irriducibile – della humanitas all’insondabile e ineffabile altezza del Cristo; dalla debolezza dell’umano volere allo sconfinato potere della Grazia. Ci vorrebbe, a mio avviso, un trattato di teologia mistico-ascetica per trarre i molteplici significati che questo personaggio racchiude e riflette come un prisma ottico. Per questo motivo ho ritenuto più opportuno procedere “a braccio” non per presunzione ma, al contrario, proprio per mancanza di mezzi ma anche, e soprattutto, perché prediligo una trattazione appassionata, personale, intima e vera ad una, seppur precisa, apaticamente “scientifica”. In proposito devo dire che gli scritti di Newman hanno influenzato in maniera non poco decisiva la presente impostazione. Preferisco, non me ne vogliano gli esperti tolkieniani, muovermi sul piano del cuore e del sentimento e non su quello freddamente accademico e, per così dire, della “lettera morta”. In fondo, la modalità più efficace e fruttuosa di conoscere, ritengo sia quella di amare l’oggetto della conoscenza più che la conoscenza in se stessa e per se stessa secondo quanto dice con semplice e penetrante profondità, sant’Alfonso Maria de’Liguori: «Chi più ama Dio, più lo conosce. “Amor notitia est”, diceva san Gregorio. E sant’Agostino: “Amare videre est”». Non credo che Tolkien approverebbe il modo di fare di quei cristiani che imparassero tutta la toponomastica e le genealogie della Terra di Mezzo a memoria e poi trascurassero di vivere nella propria vita il coraggio di Boromir, l’umiltà di Sam, la prudenza di Gandalf o l’abnegazione di Frodo. I circoli tolkieniani dove si conoscono a memoria tutte le locande della Terra di Mezzo o i nomi di tutti i personaggi del Silmarillion ma si ignora ed anzi, si combatte la Fede Cattolica sono un’offesa al loro autore. Studiare, analizzare, classificare l’opera di Tolkien prescindendo dalla sua fede intima, semplice e profonda come le radici che non gelano, è come, salvando le dovute differenze, analizzare la Sacra Scrittura da atei-razionalisti: non si potrebbe mai penetrare l’essenza sottesa a quelle parole ordinate in forma di racconto. È un po’ quello che succede a coloro che, ammirando la bellezza della Crocifissione di Giotto o ascoltando lo Stabat Mater di Pergolesi, restano colpiti dai colori e dalle forme, dall’espressività palpabile dei personaggi, dalla musicalità e dall’ordine delle note che sprigionano un pathos che tocca le corde più profonde dell’anima ma non scendono più in profondità a chiedersi quale ne sia la causa, da dove sgorghi quella bellezza così a noi intima quanto sconosciuta. Soltanto se conoscessimo la fede che guidò quelle mani e quell’orecchio capiremmo quanto di divino e sovrumano c’è in quelle opere tanto da renderle immortali, fisse, quasi eterne e di certo non ascriveremmo la loro bellezza soltanto alle capacità tecniche dell’artista.
Se esiste un qualche modo a questo mondo di onorare l’umile e straordinaria opera di John Ronald Reuel Tolkien, credo sia quello di mostrare la superiorità della morale cristiana sull’agire – quantunque il più elevato – naturale umano. “Che ti serve – domanda il beato Tommaso da Kempis – saper discutere profondamente della Trinità, se non sei umile, e perciò alla Trinità tu dispiaci? Invero, non sono le profonde dissertazioni che fanno santo e giusto l’uomo; ma è la vita virtuosa che lo rende caro a Dio”. Non è, infatti, il grado di conoscenza dei dettagli che ci permette di conoscere il tutto, ma l’amore che si ha per il Tutto e, in esso, di tutti i suoi dettagli, anche di quelli che si ignorano, per il solo motivo che appartengono a Lui. Dio non potremmo mai comprenderlo neanche in Paradiso nella visione beatifica, neanche gli angeli lo potranno, eppure quanto più lo si ama tanto più lo si penetra, tanto più lo si gusta tanto più lo si conosce e, conoscendolo lo si ama ancor più in un circolo ascendente di contemplazione amorosa che nessuna penna umana è capace di descrivere.
In ultima istanza, per conoscere adeguatamente e apprezzare profondamente Tolkien bisognerebbe amare ciò che lui amava, sperare ciò che lui sperava, pregare come lui pregava, in altre parole, mettersi alla ricerca della Fonte della Vita. Quella Plenitudo Gratiarum, Maria sempre Vergine, la cui devozione Tolkien nutrì con la semplicità e spontaneità di un figlio; Pienezza di Grazia, dicevo, da cui si schiuse quasi un raggio di quella Bellezza tanto antica e tanto nuova che costituisce quell’aura calda e discreta che circonfonde l’epopea della Terra di Mezzo.
Ma sarà meglio terminare qui la, pur doverosa, premessa ed attraversare decisamente il fiume Brandivino per avventurarci nelle Terre Selvagge, non senza aver prima attraversato la terra di Buck e la Vecchia Foresta con la sola guida della Divina Provvidenza: non si sa mai una scorciatoia per i funghi, imboccata “per caso”, quali inaspettati incontri possa favorire…
Grampasso, un ramingo del nord, incappucciato, mezzo avvolto dalla semioscurità della locanda del Puledro Impennato in un crepuscolo avanzato, quasi notte, freddo e piovoso mentre ombre oscure si avvicinano silenziose da Est. Fuma la sua lunga pipa, gli occhi coperti ma ben attenti, celati dal cappuccio impolverato da un lungo viaggio scrutano la sala e gli avventori in cerca di qualcuno. Il suo aspetto a primo impatto non ispira fiducia, tutt’altro, sembrerebbe quasi un malvivente o comunque uno straniero poco amichevole. “Si alzò in piedi e parve all’improvviso diventare altissimo. Nei suoi occhi ardeva una luce penetrante e autoritaria. Scostando la cappa, mise la mano sull’elsa di una spada che pendeva al suo fianco dissimulata dalle pieghe del manto…abbassando verso di loro [gli hobbit] un viso improvvisamente addolcito da un luminoso sorriso. «Io sono Aragorn figlio di Arathorn; se con la vita o con la morte vi posso salvare, lo farò»”. Sia sufficiente questa breve descrizione per immaginarci il tipo che ci troveremmo innanzi se fossimo noi a doverci incontrare con Gandalf a Brea per muoverci, insieme con lui, verso Granburrone. Un simile personaggio corrisponde più o meno ad un guardiano, un cercatore selvaggio, un «wild rover» più abituato a vivere in mezzo agli animali della selva che con gli uomini, nella solitudine anziché nel villaggio, in pellegrinaggio piuttosto che nella stabilità di un focolare. L’immagine che ne emerge è quella di un anacoreta, di un guerriero solitario che dopo aver appreso dalla sua comunità d’origine, i Dùnedain, a combattere da monaco cenobita può diventare un guerriero eremita nel mondo, come l’Abba Gandalf e gli altri Istari. A questo proposito mi piace inquadrare i raminghi del nord secondo quanto la Regola di San Benedetto attribuisce agli eremiti; essi sarebbero «coloro che non sono mossi dall’entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero, dove con l’aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio; quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell’eremo, sono ormai capaci, con l’aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni» (Regula c. I, vv.3-5).
Per una larga parte del racconto, Aragorn è conosciuto più come Grampasso che come l’erede di Isildur eppure questo ramingo del nord, avvolto in umili vesti, è colui che indossa il diadema del Re. Egli è colui che è destinato a prendere possesso del trono di Gondor e ristabilire la legittima monarchia sul più antico regno degli uomini della Terra di Mezzo. I sovrintendenti, dovranno cedere il passo a Grampasso, dovranno consegnare la sua eredità, dovranno restituire il talento loro affidato perché il Re di Gondor ristabilisca ogni cosa nell’ordine e nella giustizia di un tempo. Un pellegrino guerriero rivendica ciò che è suo, uno che ha passato la sua vita senza avere dove posare il capo, dovrà fissare la sua dimora e renderla stabile per sempre. Invisibile protettore delle genti, il ramingo e fuggiasco che ha speso la sua vita a difendere i confini della Contea e a combattere guerre per cui nessuno dimostrerà mai gratitudine deve ora farsi innanzi per fronteggiare il Male a viso aperto, non tanto per se stesso quanto per il bene degli altri. Nel personaggio di Aragorn vediamo via via che la trama si va definendo uno sviluppo del suo ruolo, un crescendo anche psicologico che lo conduce verso una maggior presa di coscienza della propria identità, potremmo dire, della propria “vocazione regale”.
È significativo che la nobiltà in Tolkien sia legata non solo alla bontà del cuore, cosa che prende forma nelle figure di Frodo e Sam, ma anche al sangue ossia al casato e alla stirpe carnale, e ne vedremo il perché. Il sangue reale come un patrimonio mai interrotto si trasmette di padre in figlio nelle alterne vicende del mondo. Le genealogie sono estremamente importanti per Tolkien: Aragorn si conosce in quanto figlio di Arathorn discendente di Isildur. La Tradizione mai interrotta, seppur occultata, è la garanzia dell’autorità legittima dell’erede al trono, il valore del suo sangue risiede nella sua antichità ossia nella sua diretta dipendenza dall’origine regale. Ma esso, nel corso del tempo, è stato certamente offuscato se non addirittura obliato dalla quasi totalità dei popoli che brancolano senza guida nella confusione e nella gretta empietà che tutto conduce all’autodistruzione, favorendo l’avanzata delle nere armate delle tenebre. In questo ceppo sanguigno che attraversa la storia si comprende come il Re sia tale anzitutto per diritto di natura, non c’è nessun’altro che possa vantare per sé il trono di Gondor che, altrimenti, sarebbe destinato a restare vuoto. Una possibilità questa che farebbe gola a molti custodi del tempio di Gondor e, oggigiorno, ai custodi del tempio di Cristo che è la Chiesa i quali, piuttosto che cedere la regalità a Colui che solo ne ha il diritto preferiscono volgersi al Palantìr per chiedere a “qualcun altro” quel potere agognato che, non li renderebbe veramente dei re ma delle patetiche e maligne caricature regali. Costoro non si curano dell’eredità, diremmo noi del gregge, loro affidata, non pensando che un giorno il Gran Re tornerà sulle nubi del cielo con il vessillo della Croce spiegato come nella raffigurazione scultorea che domina su Roma dalla facciata di San Giovanni in Laterano. Essi vivono per l’oggi, chiudendosi come disperati barricati dentro la sala del trono per impedire che il Re, il Vero Re, il Re della Gloria alzando le porte antiche la riconquisti, e li scacci fuori nelle tenebre esteriori. È questa la tentazione di Boromir e il peccato di Denethor che conduce inevitabilmente quest’ultimo alla pazzia e alla morte: chi non è come Dio ma brucia dal desiderio sciagurato di esserlo finisce col bruciare tra le fiamme dell’immane caos della notte eterna, e tale sarà, di fatti, l’ingloriosa fine di Denethor, sovrintendente-pastore di Gondor.
Abbiamo già compreso forse dove una tale simbologia voglia condurci: alla cristologia implicita di Aragorn, ma questo era facilmente prevedibile. Egli è il Gran Re che rivendica a sé il trono, avanza brandendo la Spada che anticamente aveva ferito e umiliato il Nemico delle anime. La spada spezzata segno di una stirpe stroncata a causa della colpa di colui che avrebbe dovuto superare la prova della tentazione sul Monte Fato e che, fallendo, trascinò con sé nella rovina tutta la sua discendenza. Ma un germoglio, un virgulto, una gemma di quella stirpe doveva essere il nuovo inizio. Da quell’albero secco di Minas Tirith il fiore della Grazia sboccia piccolo e discreto, mentre la civitas hominis va in fiamme. L’umanità ferita, come una spada rifusa nel crogiuolo e ricomposta più forte e splendente, viene ricostruita con il fuoco e la grazia, e brandita dall’unico capace di renderla letale per l’Oscuro Signore. Non è un caso che l’eroe per eccellenza dell’epopea della Terra di Mezzo sia un uomo e non un elfo, non cioè una creatura quasi angelica, disincarnata, a noi aliena ma è un uomo il cui sangue è al contempo umano ed elfico, mortale e immortale, un rimando, forse implicito, all’unione ipostatica del Verbo Incarnato il quale “pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8).
Di fatto, notiamo un aspetto determinante e singolare nella psicologia di Aragorn: egli non vuole il trono. È questo un peso che lui deve portare, al pari di Frodo, malgrado se stesso. Non agogna il potere né il dover assumersi il peso e l’ingratitudine di popoli meschini che non lo vogliono come Re. Codesto sarà il secondo “fardello” del racconto, non esplicitato ma chiaro, latente eppur determinante. È questo il destino dell’erede di Isildur, la Divina Provvidenza lo ha disposto in maniera mirabile ed egli, da vero cristiano, da autentico cavaliere di Cristo, lo accetta, lo abbraccia come Nostro Signore Gesù Cristo nell’agonia del Getsemani. Il Gran Re, vero Dio e vero Uomo supplica il Padre di allontanare da sé il calice della Passione a motivo dell’ingratitudine e la perdizione di molti uomini che non profitteranno della sua Redenzione e, per i quali, quel Sangue Reale, preziosissimo quanto necessario al Sacrificio sarà versato in vano, anzi, per la loro rovina.
L’umanità di Aragorn si mescola alla sua origine, per così dire, “divina” in una complessità psicologica al contempo tormentata e nobile; un personalità introspettiva simile a quella di Agostino d’Ippona cui competé l’onere, suo malgrado, dell’episcopato, strappato alla solitudine della contemplazione perché si prendesse cura dei suoi sudditi. Afflitto dal peso che su di lui è ricaduto, il Re Ramingo procede guidato da un’invisibile forza che tutto dispone, anche il male, per il maggior bene dei giusti.
“Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per huius aquæ et vini mysterium, eius divinitatis esse consortes, qui humanitatis nostræ fieri dignatus est particeps, Jesus Christus Filius tuus Dominus noster”. Una tale commistione di acqua e di vino, di humus et divus, costituisce la ricapitolazione della creazione e della redenzione perfettamente concluse e sintetizzate nell’unica Persona al contempo umana e divina del Cristo, perfetto Dio e perfetto Uomo, la cui doppia natura soltanto poteva procurare a noi la salvezza; in quanto Dio ci ha meritato una salvezza eterna ed efficace, in quanto Uomo ha ricostituito in giustizia la razza umana perché fosse resa atta a ricevere tale salvezza e riabilitata a prendere parte alla divinità come e più che non al Principio.
Ma c’è un’altra nota molto bella e significativa che distingue la figura di Aragorn, ossia quella definizione che nel libro suona quasi come una profezia secondo cui “le mani del re sono mani di guaritore”. Il fatto che un re cristiano, consacrato con un rito d’incoronazione che costituiva un sacramentale era, nell’evo cristiano, considerato come la condizione per cui il re, in virtù della sua regalità, possedesse poteri taumaturgici, ossia di guarigione e di esorcismo. E questo si è dimostrato vero non poche volte nelle vite di re santi, di regine e principesse sante. Certo la regalità non agiva ex opere operato come un sacramento ma, appunto, come un sacramentale cioè ex opere operantis. Una tale concezione la ritroviamo in Aragorn, figura e immagine di Cristo Re “il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10,38). Un aspetto questo che ritengo la versione cinematografica abbia reso abbastanza fedelmente ed efficacemente, ossia la capacità di Aragorn di guarire le ferite del maligno e dei suoi emissari oscuri in quanto eletto e consacrato re già dal suo sangue. La facoltà che egli possiede di guarire le ferite inferte dall’Oscuro Signore, utilizzando per giunta l’atelas, non a caso «foglia di re», è un segno chiaro della sua unzione regale da cui si può cominciare a riconoscere in lui l’erede di Isildur, un po’ come Nostro Signore attraverso il suo potere di guaritore ed esorcista svela progressivamente la sua natura divina.
La regalità assoluta di Aragorn si mostra però non solo sul regno dei vivi ma anche su quello dei morti. Perché nel Suo nome ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; il suo sangue è il lascia passare per il regno dei morti, la via del Dimholt, il sentiero sotto la Montagna, un regno di sofferenza e di attesa, quasi un purgatorio dove coloro che non saldarono i conti a tempo dovuto, finché erano in vita, ora devono pagare fino all’ultimo spicciolo la loro infedeltà e vigliaccheria. In una discesa anastatica al limbo, il Rex omnium hominum promette a quelle ombre tristi e prigioniere libertà e pace, il riposo delle anime loro ma solo dopo che avranno contribuito al bene dei vivi. Una sorta di trasposizione fantasiosa della comunione dei santi in cui le anime sante e sofferenti del purgatorio le quali, nulla potendo più per se stesse, possono però molto per i vivi e, tramite la riconoscenza e carità di questi, abbreviare la loro permanenza sotto la dantesca montagna che conduce attraverso un’ascesa catartica alle prime sfere dell’Empireo. Un circolo di carità che unisce i vari strati dell’essere e i differenti livelli della vita in tempore et in aeternitatis, tenuti insieme dal solo sangue del Re dei vivi e dei morti, al cui giudizio né gli uni né gli altri potranno sottrarsi: “et iterum venturus est cum gloria iudicare vìvos et mòrtuos”.
E come non parlare, infine, di quell’amore tra il Nostro Re e quella donna immortale, figlia di una stirpe non umana, superiore e sacra, cioè separata, che porta il malinconico nome elfico di «Undòmiel», la Stella del Vespro. Nessun nome è casuale in Tolkien e il fatto che questa figlia di elfi sia chiamata «Stella del Vespro», richiama alla mente una luce che comincia a splendere nella notte mentre il suo chiarore si confonde col crepuscolo del sole ormai quasi scomparso dietro la linea dell’orizzonte. La razza degli elfi è al tramonto, il loro scopo in questo mondo è terminato ed ora questi primogeniti dei Valar lasciano il posto agli uomini, ma non abbandonano il mondo senza lasciare traccia del loro passaggio. Lasciano all’umanità nientedimeno che una luce del loro popolo, una gemma preziosa si offre spontaneamente: resta per amore di un uomo, per amore del Re rinunciando ai privilegi della sua razza, una personificazione dell’amor cortese che esprime, allo stesso tempo, anche il Mistero dell’Incarnazione nell’Emmanuele, il «Dio con noi». Arwen ed Aragorn in definitiva rappresentano un’unità indissolubile, un connubio ossia una commistione umano-divina che prolunga nel mondo la grazia degli elfi, la bellezza, la saggezza, la luce e quell’immortalità dei figli di Dio che costituisce il segno dell’origine e del destino di beatitudine eterna non più riservato ai soli elfi, che escono di scena, ma ora, grazie ad Aragorn e al suo matrimonio con Arwen, anche agli uomini.
Prepariamoci, dunque, al Ritorno del Re perché Egli avanza seppur nascosto qual ramingo, giusto samaritano, disprezzato dagli uomini e desiderato dalle genti, si avvicina e non tarderà. Porta con sé il premio, ma lo precedono i quattro cavalieri dell’Apocalisse, Fame, Morte, Guerra e Pestilenza. Soltanto dopo l’estrema battaglia alle soglie del Nero Cancello al termine di questa nostra breve vita, se avremo perseverato con Cristo, meriteremo di essere accolti nel sala del Trono ed ammessi, quali commensali, al banchetto dei cavalieri che hanno condiviso con il Re la fatica della lotta, il dolore delle privazioni insieme al piacere della sua compagnia, che allora non sarà più la Compagnia dell’Anello ma il festante coro dei beati nella cui gloriosa compagnia non dovremo più vergognarci.
O Rex omnium cordium, non tardare, Maranathà!