venerdì 1 novembre 2013

Giacinto De Sivo: La Storia occulta e la fine dei Borbone




Giacinto De Sivo.

Giacinto De Sivo nacque a Maddaloni, in Terra di Lavoro, il 29 novembre 1814. Di nobile famiglia, dopo una giovinezza trascorsa nei possedimenti aviti, il giovane Giacinto compì i suoi studi a Napoli, dove, alla scuola di Basilio Puoti, iniziò la sua attività di scrittore. Poeta e tragediografo, divenne storiografo dallo stile ricercato. Fu anche uomo d'azione: per due volte assunse il comando della Guardia Nazionale del suo paese.
Legittimista e difensore " del Trono e dell'Altare ", dopo la caduta dei Barbone fu arrestato e conobbe la prigione. Svolse attività di storiografo e pubblicista anche durante il suo esilio romano, e a Roma lo colse la morte, il 19 novembre 1867.
I brani che seguono, raccolti sotto il titolo La Storia occulta e la fine dei Borbone - sono tratti dalla Storia del Regno delle Due Sicilie dal 1847 al 1861
.
Biografie e opere di Giacinto de Sivo nel Web:
1.
http://www.vocedimegaride.it/e-book/napolitanicospettoNazionicivili.htm
2.
http://www.kattoliko.it/leggendanera/personaggi/de_sivo.htm
3.
http://www.editorialeilgiglio.it/articles.php?lng=xx&pg=51
4.
http://members.tripod.com/~Corneliu/c227_a07.htm Amor del popolo al trono.

La consuetudine al principato, otto secoli di colleganza fra re e popolo, la gratitudine e la simpatia, fan qui (nel Regno delle Due Sicilie. ndr) della monarchia un sentimento, che s'afforza negli affetti, nelle tradizioni, negl'interessi e nel bisogno del paese. Essa è lo stato nostro conveniente. Le menti napolitane sì n'eran convinte, che nel comunal pensiero re significa giustizia, repubblica subbuglio; perocché sebbene altri di fuori speculasse con sette e cabale a porre in questo paese qualche radice, avvizzì, per mal concio terreno. A' tempi ultimi la nobiltà, paga di entrare a corte, e d'aver giuste ricchezze e moderate leggi, fu quasi tutta pel trono; e la bassa gente era sì al trono devota che poco più l'era alla religione. Fidava nel re come pregava Dio; ne sapea più. Nella mezzana classe serpeggiava meglio il veleno di subite salite, e pigliar nome e uffizi onde smesso il freno religioso, vagheggiava forme di governo dove di leggieri potesse entrare. Costoro in ogni paese aspirano a novità, e insorgono, potendo. Ma qui potean poco, non essendo gente d'armatura.
Guatando il passato luccica meglio questo vero: che in tutte commozioni popolari trovi la devozione al re. Sicilia nel dugento ammazza a suon di vespro i Francesi dominatori violenti, e grida re lo Aragonese, erede della dinastia legittima. Napoli al cinquecento si leva contro il viceré Toledo, che volea l'inquisizione, ma co' viva a Carlo V. Nel seicento insorge con Masaniello contro i balzelli e la baronia, e pur grida i viva al re. A tempo de' genitori nostri, al sentir Francesi, i popolani nudi e senz'arme, combattonli co' sassi tre dì; e poco stante al veder repubblica vengon da tutte provincie in massa con un prete in testa a schiacciarla con quella rabbia che ne fe' sì tristo e famoso l'anno 1799. Quando poi Napoleone frustava mezza Europa, solo Calabria dice no sdegnosa, e sforzata ma non doma da il sangue pel suo re lontano. Nel 1820 il popolo lasciò i settarii soli ad Antrodoco. Nel 1848 la rivoluzione mandata e attizzata dallo straniero fu spenta con arme patrie. E nel 1860 la nazione, conquisa da oro e ferro estero, a lungo riluttò; e inerme e in ceppi ancora rilutta. Ne' Napolitani la monarchia patria è religione.

Le sette.

Queste verità son dure a' novatori del paese; ma sorretti da quei di fuori non hanno scrupolo di porre in fuoco la patria, e darla a mangiare a' forestieri. Oggidì le rivoluzioni suscitate in tutti regni hanno una, anzi unica cagione, la setta. Ancor v'ha chi crede i rivolgimenti seguiti da ottant'anni in Europa fosser per circostanze di ciascuno stato, non per trame generali premeditate da un concetto. Danvi cagione il mal governo, la oppressione, i balzelli, la poca libertà, e altro; credono il governar bene, le buone leggi, e la piena libertà abolirebbero le rivolture. Dicono chimere le società segrete; Massoni, Filosofi, Illuminati, Giacobini, Carbonari, Mazziniani, Unitarii nomi da spauracchio; le sette, anche che fossero, non aver forza da sollevar nazioni; e addebitano piuttosto al caso che alla settaria possa le ruine rivoluzionarie. Altri sono che non negano un po' di premeditazione ma sputan sentenze: le intenzioni esser buone, le idee volere trionfo di virtù, e la società rigenerata; i mali essere insiti alle mutazioni, dopo la tempesta venire il cielo netto e bello. Però guerra civile, saccheggi, arsioni di città, uccisioni d'innocenti non li spaventano, che tai disordini dicono menare ad ordine duraturo.
I settarii poi, se in disgrazia, negan la setta; se in fortuna ne menan vanto. Ricaduti rineganla sempre. Ma v'han di essa documenti innumerevoli: confessioni, rivelazioni, catechismi stampati, riconoscimenti in legali giudizi!, libelli proprii, e celebrazioni. Si riuniscono in segreto ove stan sotto, in palese ove stan sopra; si riconoscono in capo al mondo, si sorreggono, s'aiutano, si spingono alla preda concordi; ma abbrancatala se la stracciano, si insidiano, si sbugiardano, si accusano e si pugnalano a vicenda. Vediam tai sette cambiar nome e forme; ferite risanare, percosse reagire, schiacciate rinascere, e sempre con uno intento: colpire chiesa e trono, pigliare la potestà e la roba, e surrogare alla legge del diritto quella della passione. Dicono voler libertà ed uguglianza, ma le voglion per sé; voglion sugli altri l'arbitrio e la dittatura. Fatti a un modo in tutte parti, con un programma, divampan contemporanei a spartirsi la terra.
Il volgo s'annoia a pensare, e volentieri s'acconcia alle idee altrui; così pochi scaltri fanno 1'opinione che si dice pubblica, e partorisce ruine. Molti negatori delle sette son come settarii, che ne riescono stupidi strumenti; e imboccati ne ripetono i motti in piazza; plebe essi, persuadon la plebe, che n'è tanta al mondo; e con vaghe parole seminan ree dottrine. Voglion parer saputi, e son zimbello di furbi. Servonli a bocca come eco, a dar novelle false, a infamare la potestà, e a denunziare i fatti, a farla parere esosa e insopportabile. Dichiarato malo il governo, suscitato il desio del nuovo, e l'ansia del ribellare, la setta domanda prima giustizia, poi riforme, franchigie, costituzioni, costituenti, armi, castelli, e tutto; ma fa fare a quei suoi gridatori; e se plaudisce a parziali mutazioni il fa salendo un altro piuolo di quella scala, che mette al pieno mutamento della società. Questo vuole. Essa oggi è forte, vincitrice, ha in Italia il dominio, ma non riposa; si abbevera di vendette, ma non si sazia; va dritto sempre innanzi.
Informate e mosse le ultime rivolture dalle segrete società, non potrei di quelle far limpida storia, se di queste non notassi i nomi, gli autori, i dogmi, le leggi, l'opere, gl'incrementi ed i trionfi. Però brevemente dirò di ciascuna, e '1 loro confederarsi, e succedersi, e il divampar di tutte insieme, lo sforzato rintenebrarsi, e l'improvviso risfavillare. Gli uomini operano per le idee che hanno, un'idea moltiplicata si chiama opinione, e si fa potentissima; ond'è degli onesti ed avveduti raddrizzarla sul giusto. Che se l'opinione sinistra prevalga, e cresca, e corra come sinora, allora le trame e le menzogne settarie indorate di parole brille appellanti alle passioni comprimeranno la ragione, il dovere, ed il bello; cadrà allora ogni religione, quale che sia, e ogni presente ordine di stato; sacerdozio, scettro, milizia, magistratura, ricchezza, nobiltà, tutto. Sparirà anche la proprietà: non campi chiusi, non termini, non palagi, non capanne; tutto è di tutti e di niuno, non pur mogli e figli saran nostri, si perderà la nozione di Dio. Queste verità sovente qualche animoso predisse, non creduto abbastanza, malgrado le insidie svelate dagli esecrandi fatti visti con gli occhi, e più volte rinnovati. Or se dopo l'ultime sperienze le nazioni non s'adergono a difesa, i nati o i nipoti nostri piangeranno, e indarno.

Acciecamento de' re.

In pochi lustri la congiura fe' larga rete, e seguaci innumerevoli, all'esca d'onori accademici, di celebrazioni letterarie, di cariche lucrose, e pur di carezze principesche. Con mansuetudini di sorrisi, e baciamani, ed astuzie eran riusciti a entrare in ogni parte. Nelle reggie, nelle case grandi, negli eserciti, ne' governi sedean settarii. Precettori, ai, cattedratici, balii, duci imperevano in magistratura, in amministrazione nei consigli dei re. I re anzi andavan primi. Tutto era novazione, tutto parve intento a far della terra Eliso. I Luigi XV e XVI di Francia, Giuseppe imperatore, Leopoldo di Toscana, e Ferdinando IV di Napoli ciecamente correano innanzi, e si fecero iniziatori di quei mutamenti civili e religiosi, cotanto allora celebrati, che detter poi sui cardini della società, che tanti secoli avea riposato in pace. L'ira cominciò contro i religiosi, e più contro loro robe; che, temuti pel pio insegnamento pubblico, e per possa di scienza e ricchezza, s'avevano a scacciare e a spogliare. Prima i Gesuiti, siccome soldati di Roma; poi gli altri. Delitto il sapere, la possidenza, la virtù; massimo delitto il vestir clericale.
Nel nostro regno l'opere del Giannone, precedute alle volteriane teorie, a queste avean dato facile passata. Lo avversar le cose di chiesa fu andazzo e vanto; ogni passo contro Roma parve una vittoria. Cotesta guerra iniziò e proseguì il filosofo Tanucci, toscano, surto a un botto ministro e capo della reggenza al minore Ferdinando IV, dopo che in ottobre 1759 il genitore Carlo III, reduce a Spagna, il lasciava rè indipendente. Il Tanucci iniziò la guerra al sacerdozio; lanciò lo stato sulla via sdruscevole da metter capo al 1799; e dall'altra trascurò la educazione del giovanetto principe, sì da tenerlo indietro al secolo, che tanto camminava baldanzoso. Ferdinando a 12 gennaio 1767 era richiarato maggiorenne, ma trovava già conficcate le basi dell'avvenire, e sé ed altri incapace a mutarle al dritto. Diceva il Tanucci: Principini, ville e casini, cioè i principini non ad arme né a governo avere a pensare, ma a darsi bel tempo; e i moderni che dicono i re dover regnare, non governare, han mutato le parole, non il senso.

Acciecamento de' nobili e de' popoli.

Non è tanta maraviglia che i monarchi volonterosi d'accontentare i popoli, circondati e consigliati da stolti o traditori, cadessero nelle reti; ma l'è più veder la nobiltà, così numerosa e balda nell'Europa feudale, entrar nell'insigne stoltezza di reputar buone e belle le idee novatrici, che niente meno accennavano che a struggerla, spogliarla e darla ai boia. Potenti, ricchi, rispettati, i nobili potevan rintuzzar la congiura, e invece per vezzo o imitazione, o voglia di parer saputa congiurarono anch'essi. Addottrinati dall'Enciclopedia, educati da dottoricchi forniti dal d'Alembert, sputanti sentenze contro la religione ed i re, non s'accorsero che dopo i privilegi reali cadrebbero i privilegi di casta; posero il pondo de' loro gradi riveriti a prò del nemico sociale, e con l'esempio concorsero ad abbacinare i re, e a storcere le popolazioni.
I bassi eran più facili a corrompere; che l'uomo bisognoso e ignaro, se ode non esister Dio né inferno, la roba esser comunale, esso uguale al ricco e al signore, non dover ubbidire, esser anzi sovrano, potere aver capriccio d'ogni vietata cosa, ei si cala presto a persuadersi. Nondimeno la religione e i sacerdoti mantennerli in gran parte. Nel Napolitano poco furon guasti; molto in Francia, massime a Parigi, dove la setta avea le braccia nella plebe. La borghesia da per tutto fu la peggio infatuata. I Francesi sempre solleciti dell'onor nazionale, allora ciechi, incaponiti alle assemblee del Rousseau, vollero quello stesso che già i nemici di Francia volevano. Perocché quando Germania, Inghilterra, Spagna, e Olanda, confederate per la guerra di successione al trono di Spagna, tementi della potenza francese, stipularono il trattato dell'Haya a 16 gennaio 1691, pattuirono non posar l'arme se non fossero ristabiliti gli Stati Generali in Francia, con l'antica libertà e privilegi che infrenavano i suoi re. Cotale libertà volevano in Francia i nemici di Francia per finir di temerla; ma Luigi XIV trionfò di quei patti, e morendo lasciò forte lo scettro e potente la nazione. I filosofi che sottomettono lo scibile a' sistemi celebrarono le assemblee come sociale perfezione, e ne invogliavan tutti: l'Inghilterra soffiò in quei spiriti, e die a' novatori aiuto, appunto per abbattere la prosperità della sua rivale, e vendicarsi dell'America aiutata da' Borboni. Il nemico appaga le passioni dell'avversario per rovinarlo. E i liberali trionfati bruttaron di patiboli la Francia; e con quella libertà resero impossibile la libertà. Frutti delle lezioni de Montesquieu e Rousseau.

Cagione l'egoismo di ciascuno.

Ogni ordine di persone, strascinato come da torrente, lavorò alla macchina abbattitrice di tutti; che la cupidigia pigliò gl'intelletti, e fe' vedere utilità dov'era danno. Utile solo è il giusto; seguendo giustizia s'ha utilità; ma sovente visiera di giustizia maschera sconvenevoli brame. S'acciecarono governanti e governati. I sovrani si credettero quel rumorio riescir contro i preti e i baroni; pensavano che affievolito il braccio baronale e clericale, guadagnerebbero forza, e indipendenza da Roma; però lasciavan fare, e proseguivan con leggi i cupi disegni delle sette. Così rè e regine di corona stipendiare filosofi d'empietà, tenerli a corte, onorarli, averli maestri e consiglieri; re e regine entrare in logge massoniche, parteciparne gl'infimi gradi sottomettersi a' ciarlatani riti. Dall'altra i nobili per ignavia e lascivia obbliata l'avita virtù, vaghi sol di tresche amorose, plaudivano a quel filosofar facile, che dicea la religione ostacolo a' piaceri; né sospettavan che le sette accennanti a' troni s'avessero a rovesciar su di loro; speravano anzi che franti gli scettri raccoglierebberli essi. In contrario le popolazioni, più salde nella fede, ravvolte in tante reti e vischi, poco quella filosofia intendevano, ma sentivano volersi men severi ordini di stato, e franchezza di vita; però vi s'acconciavano, e spinte spingevano, intronate il capo di libertà. Né i rè né i nobili, né i popoli vedean più là dell'offa lor menata negli occhi; l'un credeva minacciato l'altro, e si stava pago; non sospettanti aver tutt'insieme a esser percossi. Larghezza di coscienza, larghezza di leggi, larghezza di costumi, non più rigidezza di virtù, tutte blandizie e carezze e speranze facean larga, lubrica, infiorata la via del precipizio. L'egoismo fu danno di tutti. Soltanto la Chiesa, che sta sul vero e sul giusto universale ed immutabile, vide e manifestò il periglio, ma sola fu. Sin dal principio il clero svelò in mille modi la congiura, la combattè con prediche e libri insigni, confutò le dottrine false, prolungò la lotta, ritardò il progresso dell'empietà, e avrebbe meritato di vincere; ma il Signore volea permettere il breve trionfo del male, perché la deformità ne sfavillasse. Il clero profetò la rivoluzione, profetò la distruzione de' templi, e l'abolizione di Dio, profetò il regicidio, e la persecuzione; e quando tali atroci empietà si perpetrarono al cospetto del sole, seppe imperterrito sotto i pugnali e sulle scale de' patiboli confessare la verità della Fede, rinnovare i martirii de primi secoli della Chiesa.

Weishaupt.

La gran rivoluzione fu affrettata da un Bavarese, il cui nome dovrebbe andar primo dopo Satanasso. Adamo Weishaupt fondò ]a setta dell'Illuminati, madre e modello organatore di tutte quelle de' tempi nostri. Funesto conoscitore del male, fabro insigne d'artifizii, ipocrita stupendo, indoratore d'ogni vizio, prepara sotterra una rivoluzione d'idee immensa, che sa dover divampare in lontano avvenire; eppur pertinace ne tesse le brune fila, nemico della luce copre la verità, ateo senza rimorso bestemmia sorridente. Da natura ebbe inattitudine al bene, intelligenza del fosco, mente organata ad ampie congiure. Nacque nel 1748; diconlo discepolo de' Gesuiti, poi d'un Irlandese detto Kolmer, e condiscepolo di Pietro Balsamo siciliano, famoso ciarlatano dettosi conte Cagliostro che insegnava magia e massoneria egiziana. Sappiamo da lettere di lui messe a stampa, che fu incestuoso e infanticida. Serrava in petto vulcani di passioni coperte con neve d'ipocrisia, né altri mai meglio improntò il linguaggio della virtù. Addottrinato nell'ateismo de' filosofi e nel liberalismo de' Massoni, ambo con incestuoso connubio congiunse; ideò un modo da guadagnare il genere umano e imporgli il suo volere; cioè minare insieme religione, governo e proprietà. Sendogli indifferente ogni delitto, vi si mette con perseveranza e dissimulazione da superare o evitare qualunque ostacolo; si fa centro d'un circolo d'adepti sparsi in ogni città, per infiltrarli in tutti gli ordini. Si fa chiamare Spartaco: questi a capo di gladiatori s'era ribellato a' padroni del mondo, ei capo si fa di gladiatori morali contro la società.

Gli Unitari

Il Mazzini mette innanzi la divisa: Dio e Popolo: né dice che Dio, che popolo intenda. S'è visto da' fatti intender popolo la massa de' suoi settarii, e Dio la sua dittatura. Divisa trionfale è; Non Re, non Papi, popolo e repubblica, libertà politica e religiosa. La comunella non si dice, ma si fa. Libertà intendono non ubbidire a nessuno legittimo superiore, il che è l'opposto della vera libertà, che è il non ubbidire a chi non ha dritto e in cosa non dritta; ma van dicendo schiavo il figlio ubbidiente al padre, e il voglion liberare dalla potestà paterna, per farlo invece ubbidire a rè stranieri, che si cacciano in casa altrui a tiranneggiare le famiglie. Noi ubbidienti alla legge siam liberi; calpestandola, siam servi di passioni brutali e di furbi usurpatori.
Adunque Carboneria e Giovine Italia, figlie di Giacobini e Illuminati mettono pretesto al congiurare l'unità d'Italia: dico pretesto, perché le loro costituzioni sin da' primi Massoni, e per dipendenze con la Giovine Europa, dichiarano voler la libertà e l'uguaglianza de' primi uomini, il che non è unire ma dissolvere. Oggi stesso unificando l'Italia, tendono a dissolvere Germania e America. Se Italia potesse essere una, già sarebbela da migliaia d'anni; ma noi fu mai, non con gli Etruschi, ne' co' Romani, che tennerla serva. I Barbari che affogarono questi popoli nel sangue ben potean farla una, come fecero una Francia e una Spagna; il tentarono i Goti senza effetto; e anco i Longobardi s'ebbero a dividere. Carlomagno volevalo, ma la sua potenza s'arrestò sul Volturno, ed ebbe a far pace con Arechi Longobardo Beneventano, che raffermò l'autonomia di queste contrade che fanno il reame; perlocché, acconciato il pensiero alla natura, Carlo riconobbe il dominio papale, e miselo in mezzo all'alta e bassa Italia. Noi tredici secoli restammo gli stessi; solo mutando i principi nei rè, e scacciando i Bizantini. L'Italia superiore ebbe mutazioni e tagliuzzamenti infiniti. Ora quello che non fecero Etrusci, Romani, Goti, Longobardi, e Carlomagno, in tempi più opportuni e ne' principii delle nazioni, e con forze prepossenti, dicon di farlo le sette segrete dopo tanti secoli, sconfessando la storia, la natura, e gl'interessi del paese.
Speciosa idea è l'Italia una, idea da muovere i giovani; che certo far la patria grande, potente, e rispettata, saria onesta e bella impresa. E dove ella potesse esser unita sarebbe tortissima, per l'indole de' suoi abitanti fervidi e ingegnosi, per sue naturali ricchezze, per lo stare in mezzo al mare, fra Asia, Africa ed Europa, e per la coscienza dell'antica e moderna grandezza; ma questi beni che fanla invidiata e agognata, essi appunto sono che le vietarono, e sempre le vieteranno, d'essere uno stato solo. L'indole altera degl'Italiani li fa di spiriti municipali, perché ciascuno si sente grande, vuole il primato, e sdegna dipendenza; la forma della penisola lunga e sottile, dove ogni parte basta a se, ne ha mestieri d'altri, fa ciascuna regione paga del suo e indifferente del vicino; e le molte secolari autonomie surte, cresciute e compiute, rendono l'Italia per questo maravigliosa nella sua divisione. Ciascuna parte ha vita e storia sua, costumanze, dialetto, passioni, bisogni e interessi distinti, monumenti, nomi, ricordi rinomanze speciali; ciascuna stata indipedente e separata tanti secoli, ebbe leggi, guerre, trionfi ed arti sue. Uccidere codeste persone sociali, per farne una mole mostruosa di parti eterogenee e discordi, è ruina appunto della sua grandezza. L'Italia che vide tanti secoli i suoi figli accoltellarsi. Bianchi o Neri, Guelfi o Ghibellini, gelosi l'un dell'altro, diversi di razze e d'interessi, diventar una! La fittizia e sforzata unità farebbela schiava d'una fazione, e però cento fiate più debole e infelice; sarebbe risuscitare Guelfi e Ghibellini, veleni e pugnali, ferali conviti e crudi esilii, nefandi sacchi, e arsioni atrocissime di città e di campagne. E già si sono risuscitati.
Ma l'Italia, siccome la Polonia, la Germania e la Grecia sono pretesti alla sette. Movono del pari Francia e Spagna state sempre une. Ma là e qua, con queste ed altre lustre, voglion abbattere la potestà umana e divina. Questo fine è il dogma de' loro comuni catechismi. Però come possono addentano la proprietà, percuotono il clero e combattono il Papa ch'è grandezza italiana e mondiale. Il loro anti-papa è il Grande Oriente de' Massoni; vogliono la rivoluzione delle idee, della morale e delle leggi; e per farla non vogliono religione. Qua, perché Italia ha più stati, gridano Italia una; se fosse una griderebbero Italia divisa. E perché il popolo li respinge, e li fa impotenti a ogni conato, eglino, mentre sclamano fuori lo straniero, chiamano gli stranieri a far cotesta loro Italia.
Pria volean progresso civile, poi appagamento di bisogni sociali, poi costituzioni, poi federazioni, ora siamo all'unità ch'è distruggitrice d'ogni dritto altrui; domani vorranno repubblica, e poi? Vantatori di progresso, spingendo incessanti in tutti i versi governanti e governati, ciechi sconoscono la meta, e se ne allontanano; gridano civiltà, e arrovesciano il secolo al medio evo; proclamano dritti di popolo, e schiacciano quelli di ciascuno, e tornano indietro a quel della forza sulla ragione; lodano la ragione ed operano con delirio, e camminando sempre a sproposito non procedono, retrocedono. Per progresso intendono il progredire della rivoluzione, non quello della civiltà.
Loro grande alleato è il lusso. Quando l'uomo avea pochi bisogni con poco era felice. Il Romano con solo la toga era vestito, e il resto del giorno spendeva speculando sull'arti belle, o in fatti egregi. Oggi ammiriamo le virtù pagane, e quella sconosciamo che nella parsimonia li feceva grandi. Noi per vestire abbiamo mestiere di cento arnesi, e di mille e più per la casa; né già d'opere d'arti, ma di luccicanti minuzie, che agli occhi non all'animo fan piacere. Il vestimento, il mangiare, il gioco, il fumare ne piglia tutta la vita. La meravigliosa necessità delle inezie che circondali la donna non conto. Ciascuno sospira il possedimento di tali vanità, che al savio son giocarelli da bimbo; ciascuno si fa tutta la vita bambino, si affatica a cumularne, e guarda in altri con invidia cotesto sommo di felicità. Quindi brame inappagate, sforzi per conseguirle; vane aspirazioni, dispetti, odii e dolori. Siamo a tale che la parsimonia è considerata ridicola; e molti si smorzano d'arricchire più per la pompa che per godere delle ricchezze.
Quando questa foga di cose dorate piglia i popoli, non è possibile che restin virtuosi. Non costume, non giustizia, non fede, non quiete. Mal curando il bene sodo, si va appresso a folla di beni futili; ne si può badare alla moralità dei modi a conseguirli. Ciascuno a stendervi le mani, a uscir dal grado nativo, e a lanciarsi innanzi sempre; che più cammina e consegue, e più via e più cose da conseguire si vede avanti. Allora nessun governo legittimo è buono, perché affrenatore di brame immoderate; e quando anche un governo rivoluzionario abbian fatto, neppure il fanno riposare, che tosto si scatenano contro di esso, e con più ragione, le passioni stesse che l'aiutarono a salire; perché non è lo stare che appaghi, ma il mutare e l'agitarsi; oltre di che a' sazii subentrano i digiuni incessantemente. In questa grande ansia irrequieta è moltissima gente. Corrotta, corrompe; balorda, imbalordisce; sospinta, sospinge, si lancia ad ogni reo partito, sconfessa la morale e la religione, e incensa cavalli, drappi, frange e cortine d'oro. Grida patria, e sdegna vestir di tela tessuta in patria; grida Italia, e parla francese, e tien gli occhi a' figurini di Parigi e di Londra; grida indipendenza e plaude all'arme straniere, ne' altro loda che cose estranee; e cinguetta e mangia e danza alla forestiera. Così ignorando le leggi patrie sospiriam costituzioni all'inglese; vogliam diventare grande nazione, e disprezziamo noi stessi.
Di tutte le classi la media è la più sprofondata nel lusso, o che il possa o no. Ha prurito di parer grande; il fa come può con le carrozze, le porcellane e le assise; e della moda sente frenetica necessità. E peggio che questa classe media ingrossa ogni dì. V'entra il nobile scaduto, per le mancate sostanze e i cresciuti bisogni, e come non potendo essere vuoi parere, si lancia di leggieri nelle rivoluzioni, dove spera subiti guadagni. Aristocratici nell'essa, contraffanno democrazia per farsene sgabello, ignoranti parlan di progresso, prepotenti vantano uguaglianza; infanciulliti con fievoli pensieri in bazzecole, trinciano politica e legislazione; e bassi sollecitatori di ciondoli e nastri, fanno i Bruti per diventare Antonii. Antonio fu appunto un nobile scaduto.
Entrano in più nella mediana classe gli artigiani arricchiti, i contadini ch'han posata la marra, i fratelli o nipoti di preti, i figli degli uscieri e bidelli, e altri cosiffatti che vogliono salire. Per far vista di saputi questi sovente son servi di setta. Ogni dì la buona classe degli operai e de' contadini scema, e s'ingrossa il numero di chi senza far niente vuol vivere alla grande. Pertanto lo stato medio, dove son pur molti virtuosi, e ornamento della patria, va sempre crescendo, con elementi guasti che scendono di su, o salgono di giù, irrequieti, bisognosi, vanitosi, ed audaci. Questi in tempi di pace sono insigni per cortigianerie, inchini ad arti basse; in tempi di subugli alzan le cervici, e parlan come Scipioni e Camilli, per vivere da Sardanapali a spese della nazione.
Il lusso avversa la natura, perché fa bello il raro. Esso nutrica la sete insaziabile dell'oro, l'ingordigia dell'averlo, e la immoralità su’ modi a conseguirlo; esso abbarbica il vizio, toglie via la vergogna e la probità, fomenta libidini, e fa l'animo servo; esso fa eludere le leggi, beffar la virtù modesta, trionfar la tristizia. Il lusso ha oppressa l'umanità. Più rari i matrimonii, più frequente il concubinato, difficile l'amicizia, la fede un miracolo, divisioni nelle famiglie e nello Stato, non v'è pietà, ne carità; e per esso manca poi il tozzo di pane a migliaia d'infelici che d'inedia finiscono nelle città più popolose.
Per cagion del lusso le arti belle non han più capolavori; e l'ingegno umano volto alla soddisfazione di futili bisogni par ch'abbia perduta la favilla creatrice. Gli antichi savii proscrivevano il lusso co' costumi e con leggi; i moderni il fomentano, e ne fan lodi insigni. Scrittori di economia il predicano fonte di civiltà, e ne han persuaso il mondo. Oggi uno Stato si ruina senza rimorso. Siam diventati corrotti, come i Romani del basso Impero, cui il Signore per purificare mandò il ferro ed il fuoco de' Barbari. Ma, si risponde, oggi in Iscizia non sono più barbari, Se non ve n'ha in Scizia, ve n'ha in mezzo a noi. I nostri barbari sono le sette che muovono i comunisti e i proletarii, e questi se non si rimedia subisseranno la nostra snervata civiltà.
La setta è potenza mondiale. Ha re, senati, magistrati, eserciti, tasse, navigli, bargelli, finanze e condottieri. Ha codici, fa sentenze e le esegue in ogni paese. Ha sudditi su tutta la terra, e ne ha ubbidienza cieca, combatte con la fama, con la stampa, col pugnale, e col cannone. Sudditi ha di tutte condizioni e stati, d'ambo i sessi, monaci e preti, re e imperatori. Domina nelle famiglie, nelle città, nelle reggie, ne' tribunali, sulla terra e sul mare. Oggi ha sedia in Londra. Di là il Mazzini, il Kossuth, il Ledru-Rollin governano le rivoluzioni, mandano sicarii a ferire i re della terra e i ribelli alla loro potestà. La storia narrerà quanti alti personaggi facesser colpire. Otto attentati in sette anni sull'imperatore Napoleone se non lo spensero, pur seppero con l'ultime bombe dell'Orsini ricordargli la mole de' suoi doveri. E ch'egli ubbidisce con la guerra d'Italia del 59 è voce che sin nelle camere legislative di Francia risuonò. In questo tempo è la gran lotta finale fra la setta e la società; e chi sa se col secolo sarà compiuta? Essa confida nel trionfo: procede sempre, ne' mai si da vinta, ne' mai perde terreno; percossa, si rannicchia, si fa piccina, si finge oppressa, piange, invoca pietà e con sotterraneo lavorio prepara la riscossa e più prolifica si spande. Ripercossa, aspetta un'altra generazione; è misera, lusinghiera, cortegiana, servile, accattona, pinzochera e spigolistra, aborre il sangue e la pena di morte, invoca la civiltà e la religione la giustizia, la legge, e l'umanità; mostra pentimento, fa elegie e canti epitalami! in lode di re e principi, inneggia a' Santi ed a Dio, si confessa, giura, protesta fede; e arriva a farsi credere la parte migliore della società.
Frattanto tiene conciliaboli nelle vie, ne' caffè, nelle feste da ballo, nelle reggie e nelle chiese; fa testimonianze false, e raccomanda e difende, salva e sostenta i suoi, calunnia gli avversarii, li abbassa, li rende poveri e odiati, li divide, li combatte ad uno ad uno, e li stiletta; frattanto si fa maestra alla gioventù, la corrompe, promette l'età dell'oro, e guadagna seguaci. A modo di talpa mina il terreno sociale, e quando crede maturo il tempo, abbrucia i puntelli, e con gran fracasso fa crollare i fondamenti della società. Trionfa allora, gitta le maschere, passeggia con le spade sanguinose fra monti di cadaveri, bandisce il regno della ragione, proclama il dritto nuovo, canta sue glorie, vuota di malfattori le carceri, e le popola d'onesti; implacabile vendicatrice colpisce spietata, saccheggia, arde, stupra, fucila senza giudizii; e tali nefandezze appella sentenze di pubblica opinione. Senza più ritegno, balla sugli altari del Signore, guerreggia frati e suore, carcera vescovi e cardinali, vilipende e maledice il Papa, vuoi Roma e il Campidoglio, nega la divinità di Cristo, e predica sin nelle chiese contro la Vergine Madre. Allora tutto è suo. Delle reggie fa osterie, de' templi fa stalla, delle città fa bordelli; mutila i monumenti, rapina il tesoro pubblico, le casse ecclesiastiche, i luoghi pii; vende i beni demaniali e clericali, fa debiti a milioni di milioni, e attenta alla privata proprietà con tasse interminabili e gravosissime. Quella è la invasione de' Barbari, e peggio; che i Barbari fra tante mine distrussero gli avanzi del gentilesimo e sublimarono la Cristianità; ma i Barbari presenti, abbattono anzi il cristianesimo e la fede, per estollere l'ateismo ed il nulla. Da' Barbari del settentrione emerse la società nuova; ma questi Barbari che abbiamo in tutte le zone, nel mezzo delle città nostre, sono sterili e distruggitori; quelli nel sangue affogarono la corruzione pagana, questi con sangue vogliono abolir Cristo, e intronizzare la corruzione universale; quelli abbatterono gl'idoli, questi assalgono Dio. Ma v'è la Provvidenza.

[da: Storia del Regno delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, libro I]

Trame settarie in Londra.

A Londra avea seggio un comitato centrale democratico europeo, dichiarantesi rappresentante di dugento milioni d'uomini; diviso in sezioni di corrispondenze, informazioni, soccorsi, giornalismo, società segrete, erario e percezioni. S'avean partiti gli stati: chi dirigea Francia, chi Germania, chi Svizzera, chi Italia. Tutti i faziosi o gonzi del mondo eran loro tributarii, e sudditi ed secutori. Il Mazzini rappresentava Italia, il Ledru-Rollin Francia, il Ruge Germania, il Durosz Polonia, il Kossuth Ungheria, tenevan le file d'un governo mondiale ascoso; mandavan lettere circolari a' comitati paesani, e spedivano legati e spioni nelle città e nelle corti. Non credo mai se ne vedesse altra simile d'una cospirazione universale costituita contro la costituita umana società. Londra sciente ospitatrice era antro inviolabile di quei fabbri di ruine. Nel 1849 un Carlo Heigen tedesco fuoruscito vi stampò in un giornale un opuscolo, intitolato Ammaestramento della rivoluzione, ove diceva: "Questa costerà all'Europa due milioni di teste, ma esse sono olocausto lieve pel bene di dugento milioni. Essa con ispada sterminatrice deve guizzare in ogni canto della terra, e far sue vendette su monti di cadaveri; in ogni paese avrà un dittatore, il cui principato uffizio sarà l'esterminio de' retrogradi, il legarsi con tutti i governi rivoluzionarii, e pattuire la consegna de' reazionari fuggitivi, pe’ quali non debbe esservi asilo. A questi nulla deve restare in terra fuorché la tomba". Favella poi del rapire i beni, perseguitar principi, e altre cosiffatte, ch'abbiam poi visto con gli occhi nostri perpetrare da' dittatori Garibaldi, Farina e loro seguaci.
Il Ledru-Rollin teneva cattedra, e a gente scelta dava lezioni di colpi di mano rivoluzionarii. Scrisse nel 1850 una pubblica lettera al redattore del Corriere Batavo, plaudendo agli sforzi di lui per propagandare sensi repubblicani in Olanda; affermò far lo stesso in tutta Europa, e si plaudiva della unione di tutti i ribelli: " I re s'uniscono: e i popoli per liberarsi denno unirsi; i re han la lista civile, e la democrazia deve avere la lista civile ". Il Mazzini in quel tempo stesso stampava uno scritto, invitante i liberali d'ogni terra a formare uno stato solo, per sollevarsi in un sol dì in tutto il mondo. Propone sopire ogni disparità d'opinione, per discuterla dopo la vittoria; intanto stringersi su queste basi: distruzione d'ogni autorità, progresso continuo guidato dal popolo. E in novembre di quell'anno fece un progetto d'imprestito per la rivoluzione; ed egli con altri cinque dette una proclamazione minacciante la guerra; e disse all'Europa: Noi agiremo da noi medesimi. E i sovrani dormivano, e credevan trionfare vietando ne' loro stati ogni notizia palese di tante minacce, celandole anche a' pubblici uffiziali; sicché sendo serpentina l'offesa, e nulla la difesa, lavorarono col loro imbelle e stolto silenzio al trionfo del comune nemico. Soprattutto nelle due Sicilie la pace profonda e l'ignoranza di tali insidie generò una sicurezza balorda e fatale: di maniera che la rivoluzione piombò come fulmine senza lampo in cielo sereno, ch'ogni persona abbarbagliò e prostese.
Londra stessa tenentesi quel fuoco ne fu scottata un poco. A' 19 maggio '49 un James Hamilton, operaio, tentò con la pistola di assassinare la regina nell'Hyde-Park. A 30 giugno '54 la regina fu percossa di bastone da un Roberto Paté, luogotenente del 16° ussari in ritiro. Disserli pazzi, ma innanzi non s'eran visti tali pazzi. Dappoi seguirono interpellanze in parlamento contro i fuorusciti, che si valevano dello asilo per turbare la società; e Lord Gray ministro dell'Interno rispose protestando contro il costoro abuso, e promise far cose grandi per rimedio, ma non si vide nulla d'efficace. Crebbero anzi i fuorusciti, e le accoglienze e i festeggiamenti. Se n'eran fatte d'eccelse all'Ungaro Kossuth, che da Turchia a 23 ottobre 1851 sbarcava a Southampton, e qualche giorno dopo a Winchester: bandiere, processioni, grida di Viva e Morte, saluti, concioni, indirizzi, banchetti, brindisi tutto istigante il ministero. Così costui tenuto stretto in Turchia, e rifiutato da Francia, era sublimato in quel paese, dove poco avanti avean fischiato il tedesco generale Haynau difensore del dritto. Poi nel 1853 il Russel si vantò in parlamento essere stato il suo amico Palmerston ch'avea fatto venire il Kossuth, e indotto Turchia a lasciarlo andare, con promessa di soccorso, dove ne venisse da altri redarguita o assalita.

Opere settarie in Italia.

Come Londra era fucina della congiura mondiale, Torino l'era della italiana. I banditi di tutta penisola cospiravanvi aperto contro i governi delle patrie, e collegati col protestantesimo e l'eterodossia, diffondevano il tossico per tutta Italia. Davan libri stampati bene a poco prezzo, da invogliar leggitori e compratori; il mistero, il pericolo aggrandivanli; figure oscene, diatribe anticristiane, accuse e calunnie contro il papa e i sovrani, satire, canzonacce, vituperii, erano arti da far cadere da' cuori il rispetto a Roma e al dritto. Il costituzionale Piemonte, Stato modello, faceva fare, instigava, ordinava, pagava. In ottobre 1850 videsi una società d'operai, detta La vera compagnia di Gesù; perché, dicevano, Gesù stato artigiano falegname a Nazareth avervi consacrato la santità del lavoro. Affettavano lavoro, mentre volean rivolture appunto per campare senza lavorare. E quando nella monarchica Torino s'erigevano tal combriccole, quelle erette a Parigi repubblicano si scioglievano, anche prima del 2 dicembre.
A Genova, sentina di democrazia, nel 1851 fur tumulti e grida d'abbasso al re. Vi s'ersero associazioni operaie di mutuo soccorso, e il tiro nazionale della carabina, per formare Carabinieri italiani. Che facesselo il governo fu provato dal veder fatto Consolo de' carabinieri quel senatore Plezza mandato dal Gioberti legato a Napoli, e non ricevuto a corte. Stampò questi una lettera circolare dicente: la carabina costituisce il popolo civile, lo esercito permanente esser cosa da barbari. A Genova il Mazzini pubblicava il suo giornale Italia e Popolo; i confratelli gli facevano coro; aveva retroguardia e rinforzo a Capolago, con la tipografia Elvetica, venduta alla setta, per istamparvi ogni malvagità. Decretato un tempio protestante sin dal dicembre 1850, se ne poneva la prima pietra a 29 ottobre seguente, con gran pompa, e presenza de' ministri Inglese, Prussiano e Americano.
In Toscana stanziavano Tedeschi, onde si poteva far meno: nondimeno v'agitavano il protestantesimo sì che seguirono arresti e condanne. Tentarono celebrar funerali in S. Croce di Firenze pe' morti di Curtatone; il negò il governo, sciente volersi non pregare pe' defunti ma pompeggiar vanti di rivoltosi. Eglino presero il destro in quel dì dell'ascensione, 29 maggio 1852; mentre la chiesa affollata era parata a festa, i congiurati tolsero a staccare i drappi che coprivano le iscrizioni co' nomi de' morti in quella zuffa; ciò col proposito di porvi i fiori. Accorsero gendarmi, seguirono busse, colpi di fuoco, contusioni, ferite, e spavento di popolo. Fu necessità farne il processo, quindi lamentanze per tirannia.
Il Guerrazzi arrestato sin dal 12 aprile 1849 ebbe lungo giudizio; la sentenza n'uscì al 1° luglio 1853, mitissima pel reato, dannatelo a quindici anni d'ergastolo, e a cinque dopo di vigilanza. Ricorse per cassazione: ma tosto cercò grazia a quel buono Gran Duca, che gliela fe' subito, mutata la pena in esiglio. Anche a Roma su' primi di maggio '51 fur lievi tumulti, e una rissa tra Papalini e Francesi, tosto sedata.

E nel regno.

Nel regno, con le popolazioni reazionarie, la setta non osava niente; non potendo meglio, gittò fra' suoi adpeti il ridicolo ordine di non fumare, per impoverire l'erario; di che tutti beffandosi, vedevi gentiluomini e popolani vagolare contro l'usanza per Toledo con lunghe pipe. Meglio potevano in Sicilia. Già in marzo '50 s'era preso un Maltese latore d'opuscoli e bandi mazziniani; e a' lagni del governo nostro il governatore di quell'isola die' ordine a quei negozianti di pensare al negozio non a congiure italiane. A 6 luglio a Palermo s'ammutinarono i fornai. Questi a tempo della rivoluzione avean troppo alzato il prezzo della mercede, il che gravava sulla popolazione, laonde il municipio rifatti i saggi lo moderò al giusto; allora i panettieri che volean quella usata cuccagna, anche di segreto instigati, il mattino del 6 non lavorarono, pensandosi pigliar la città per fame. Ma il governo che l'avea preinteso fé' fare il pane da' frati e monache e artigiani delle ville; poi ghermì 74 de' più sediziosi, tenneli alla Favignana qualche poco, sinché lor passò il grillo delle cose passate.
Nelle Calabrie dove son boschi e monti solinghi, s'erano rifugiati chi non voleano tornare a vita civile; e da masnadieri n'uscivano alle rapine e ai ricatti. Il maresciallo Nunziante ito colà comandante territoriale cominciò con editto del 14 gennaio 1850 a porre in istato d'assedio il distretto di Crotone, e altri due circondari. A' 24 altro editto da Cosenza, e altro da Corigliano a' 24 febbraio, invitando i delinquenti a presentarsi; e prometteva perdono, minacciava pene, e ponea taglie. Se ne presentarono molti, molti furon presi, pochi caddero uccisi; sommarono a 107 in febbraio, altri 47 dopo, in aprile se ne presentarono 131, n'erano aggraffati 49, ne perivan 13 nelle zuffe. Le guardie urbane in breve nettarono quei luoghi. A 27 settembre si fecero quattro squadriglie per assicurare i banditi alla giustizia, ciascuna di trenta armigeri ed un capo; le quali resero di buoni servigi. Si promossero l'opere pubbliche, si cominciava la nuova strada da Cosenza a' casali S. Mango.

Tattica de' rivoluzionarii vinti.

Pareva la rivoluzione [nel 1848 - ndr] vinta e schiacciata nel reame; la sicurezza piena facea tener per passato ogni pericolo, chi stava alla potestà e sul continente e sull'isola, sendo i più uomini mascherati di realismo, e ingordissimi d'autorità, paghi de' grossi soldi, e del loro presente buon prò, non avean l'occhio all'avvenire, o ve l'avevano per lavorare a trovarvisi bene. La setta si rannicchiò, si fé' piccina, e ripigliò sua tattica vecchia. A dichiarar questa non si può errare; che fu sempre una, dopo il '99, dopo il '20, e dopo il '48, Comincia col lamentare gli eccessi della rivoluzione caduta, poi si van distinguendo i principii buoni e veri dalla esecuzione mala ed esagerata; che questa non può negli animi intelligenti danneggiar quelli; che la verità sempre è buona, e solo si deve mondare dagli eccessi. Questi sono colpa de' vincitori, che li avean preparati prima col mal governo, poi con insidie e denari, e con la negazione di fare il giusto. Il liberali non sono rei di nulla, sono illibati, i più chiari cittadini per morale e ingegno; malvagi sono gli accusatori, nemici personali i testimoni, ladri e dal rè compri e corrotti i giudici; sono assassinii le condanne, sevizie, torture le carceri, tarda giustizia le grazie, anzi insulti dopo il martirio. I vincitori realisti sono più eccessivi de' rivoluzionarii; ambi sono sette, nemici della patria, sol i patrioti sono i moderati, quelli cioè de' sani principii, che stanno in mezzo a' due scogli del dispotismo e dell'anarchia. Giurano inoltre che la rivoluzione è morta e seppellita; non più da temere, pentiti i cospiratori; e di fatto li vedi ingobbiti e genuflessi, e mangiar particole avanti gli altari. Che buona gente! che modesta! che talentosi! Subito chi fu liberalissimo tel vedi santo, ubbidiente, leccatore, serviziario, sinché arriva a pigliarsi una sedia. Allora se uno di colesti pentiti fa un ette, ne senti meraviglie, miracoli d'ingegno e d'onestà; per contrario se altri fa qualche bell'opera, si finge ignorarlo, s'attenua, si storce, e se cade in fallo crucifigatur. Con arte pongonsi a parallelo dotti liberali con ignoranti conservatori; e si conchiude questi tutti scemi, quelli tutti ingegni. Dategli croci cavalieresche, titoli, cattedre, magistrature, ministeri, che se la meritano; questi stupidi lasciateli stare, un tozzo di basso impiego, che ubbidiscano e tacciano. E se un valoroso non è liberale ei non ha scampo, resta indietro, depresso, non promosso, calunniato, e peggio.
Se il sovrano rilutta tel piglian per suo verso. S'è uomo sospettoso gli dicon male di quello che vogliono innalzare e lodangli chi voglion basso; e così a rovescio tel fanno servire a' loro intenti; se vede chiaro, van sussurando egli non essere all'altezza de' tempi, circondarsi di sciocchi, non sapere scegliere; e in un modo o in un altro sel mettono in pugno. Tutti i monarchi in tal guisa diventarono strumenti della ruina loro. Intanto si stampano storie dove i fatti s'aggiustano alle idee; pinti eroi i ribelli, tristi i fedeli, scambiate all'incontrario le idee semplici di vizio e di virtù. E si sono così impiastrate le storie antiche e le moderne; e se ne stesero di posticce per tutte le contrade d'Italia, i cui autori dalla trionfata rivoluzione furono poi alzati a semidei. La falsa storia inoltre si scrive con poco; a trovare e a dire la verità ci vuoi mente, fatica e coraggio. Quelle false storie si fan poi rumoreggiare fra mille echi all'orecchie de' governanti e de' governati; e te le intronano sì che niuno sa od osa levar voce e braccia a difesa del vero, per non restarne infamato.
Quando la macchina è compiuta, vedi sorgere magnanimi ardimenti. Si cominciano a gittar le maschere, a inventare motti che sembran dir molto e non dicon nulla, a ricantare la vecchia canzone di progresso, opinione universale, bisogni sociali, secolo, guarentigie, e riscosse; onde rivedi baldi rivoltuosi quei convertiti mangiatori di particolare. I cortigiani diventano Bruti e Catoni. E quei moderati dicono aver sopportato troppo, più moderazione saria tradire la patria, prudenza a far rivoltura, non potersi sconoscere i santi principi dell'89. Quelli che han fruito della potestà e l'han fatta odiare co' loro soprusi, si dicono martiri di dispotismo, martiri d'aver dovuto mangiare un pane odiato, martiri d'aver patito a fare i grandi attorno a un trono dispotico. Ecco gridano Italia una; e in nome della libertà ripongono più grave il piede su chi già in nome del principe tennero bassi e prostrati. Eglino tirannissimi, mutata veste, accusano puntelli a tirannia chi mai non mutò, e fu sempre sofferitore. Ecco li destituiscono, carcerano, esiliano, uccidono; che la setta trionfatrice vince in ferocia cento Neroni.
La rivoluzione ha tutte forme: ora a nome del sacerdozio, ora de' principi, ora del popolo; è municipale, autonoma, nazionale, repubblicana, regia imperiale e sociale. Ora vuole separazione, ora federazione, ora unità: ipocrisia e violenza, adulazione o calunnia, servitù o tradimento. Combatte Cesare e Cristo, perché vuoi esser principe e Dio.
Questa commedia lurida l'abbiam riveduta rifatta quattro o cinque fiate in mezzo secolo, e sempre la stessa. E non è vergogna pe' sovrani a farsene canzonare ogni volta?

Che fanno i re?

E che fecero i re per tutelare la società? Han più volte vinto, perché son sorretti dall'interesse sociale, e perché la Provvidenza non ha permesso ancora il finimondo. La maggioranza della nazione dedita a sue faccende lascia fare, ma quando si sente scottare, s'alza a sorreggere la sua percossa macchina legale, e finisce col vincere. Passato il trionfo, si riaddormenta. I governanti dopo un po' di stentata giustizia, s'abbandonano alle vertigini del potere, ritornano a' capricci, al beneficare i peggiori, e lasciando a questi il carico della cosa pubblica, s'adagiano nel dolce comandare a bacchio, nella facile virtù del non fare, e nel blandire i nemici e dimenticare gli. amici. Intanto la setta solleva il capo, prepara nuove congiure, e ripercossa risorge sempre, ch'ogni sua caduta lascia più seme nell'avvenire. Le idee liberalesche che attuate si dimostrano tiranne, in promesse suonano generose, e pigliano le fantasie di chi non le vide in pratica; i giovani ne restano abbarbagliati, dan dentro, ne n'escono più. Così gran parte di popolo con esca di falso bene si gitta nel male; e di generazione in generazione l'errore s'allarga sulla terra. E che debbono fare i prenci a difesa dei soggetti lor fidati da Dio?
Che debbono fare? Dare a' popoli in fatto quello che i faziosi promettono a parole; perdonare a' rei qualche volta, ma non alzarli a potestà; trovare il merito vero, non onorare gli abbietti, promuovere gl'ingegni, e chiamarli a fare, non temerli e sforzarli a nimistà; gli uffiziali, i cortigiani scrutarli nella loro vita passata, nella famiglia, e tener per tristo strumento chi fu tristo in casa sua e immorale. A' sudditi appagare i voti legittimi, dar lor pace e prosperità con poco, mantenerli tutti uguali avanti alla legge, e soprattutto giustizia a chi tocca. L'umanità è di giustizia sitibonda.
Oggi s'agita nell'orbe una lotta suprema tra la società e i suoi percussori. Questi con mendacio alzan la bandiera della libertà, e costringono i buoni a parer di pugnar per la tirannia; ma la pugna è pel possesso. Diroccare l'antico per farne conquista, calpestare il dritto per porvi la forza, cancellare l'idee di Dio, per deificare l'ingordigia, per questo si combatte. Non mai in nessun tempo i monarchi ebbero più pericoloso agone e più pugnace; ed eglino cullati da' loro nemici, van con errori cumulando le sterminatrici arme nelle mani de' lor stessi avversarii. Credono rimediare, concedendo mutazioni di forme governative; ma quelli piglian le forme per abbrancarsi il governo.
La libertà ch'è pretesto alle sette è bisogno essenziale al vivere civile; e i veri re denno tutelarla con forte scettro e magnanimo cuore contro quelli appunto che invocandola tendono a schiacciarla. La libertà non sta ne' nomi, nell'ordine legale; lo scettro è un bastone: percuotere chi si dice cristiano ed è ateo, chi s'appella fabbricatore e distrugge, chi promette ricchezze e s'avventa all'altrui, chi conciona di virtù e va depravando costumi e cuori. Fate voi e davvero quello che i congiurati dicono e non fanno; operate sì che niun onesto n'abbia danno, che niun perverso ne guadagni, che nissun settario n'abbio fortezza, e sì che la umanità restaurata nelle idee del vero trionfi senza lotta.

[da: Storia del Regno delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, libro XII]