Pubblichiamo (a cura di Marco Massignan), suddiviso in tre parti, lo scritto del Prof. Danilo Castellano “Dalla comunità al comunitarismo”, apparso sulla Rivista Instaurare omnia in Christo (Anno XXXVII, n. 1; Gennaio-Aprile 2008).
La perdita del significato di comunità
Quando parliamo, oggi, di comunità e di comunitarismo usiamo due termini o parole dal significato polisenso e ambiguo, di cui si è abusato e tuttora si abusa. Intendo dire che è difficile la loro definizione che, per altro, è necessaria non solamente per comunicare ma anche per poter parlare della comunità.
Le ideologie e gli errori lasciano sempre il segno. Lo hanno lasciato anche per quel che attiene a comunità e a comunitarismo. Tanto che nella cultura politica contemporanea la comunità ha perso il suo significato originario e, come si accennerà, anche il comunitarismo si è rivelato impotente per la riaffermazione della comunità nel suo significato autentico e tradizionale.
La comunità ha perso il suo significato:
a) perché è stata negli ultimi secoli identificata con una qualsiasi identità. È stata, infatti, scambiata via via con la nazione, intesa dapprima come stato sociale sostanzialmente omogeneo (la borghesia o terzo stato di Seyès) e poi come popolo dall’unica storia, dall’unica lingua, dall’unica religione, dall’identico sentire (Manzoni); con il movimento politico e addirittura partitico (Marx, Mussolini, ecc.); con il “luogo” sociologico che consente la relazionalità (Buber); con l’ordine giuridico garante del pluralismo delle famiglie spirituali (Maritain); con lo Stato garante degli sviluppi della vocazione, di qualsiasi vocazione, della persona, assicurandole i mezzi necessari per la costruzione del proprio destino (Mounier); con l’organicismo pluralistico e federalistico garante della Costituzione fattasi vita (Adriano Olivetti); con le istituzioni protettrici delle identità, soprattutto minoritarie, storicamente costituitesi (Taylor); con ogni movimento che rivaluti l’etica “femminile” della cura e della responsabilità di contro all’etica “maschile” della giustizia e dei diritti (femminismo).
b) perché è stata “letta”, cioè interpretata, come dimensione spontanea del gruppo, di qualsiasi gruppo, di contro all’istituzione, considerata “società” puramente formale priva di “anima”. Si pensi, per esempio, alle categorie sociologiche adottate da Max Weber per interpretare l’esperienza sociale: la comunità sarebbe, per così dire, circoscrivibile solamente nel “privato” mentre la società esprimerebbe una natura “pubblica” o almeno un rilevo pubblico. Da qui una difficoltà e l’apertura a forme modernistiche di approccio all’esperienza sociale. La famiglia, per esempio, è comunità o società? E se è comunità, intesa in questa maniera, può essere regolamentata sul piano “pubblico”? Non si riduce, forse, essa alla coppia, alla coppia momentanea e di fatto?
c) perché la comunità è stata identificata con l’organicità, soprattutto per ragioni polemiche contro l’individualismo della Rivoluzione francese e dei suoi diritti. L’organicità ha portato all’esaltazione del tutto contro la parte, diventata, a sua volta, tale solamente in virtù del primo: si pensi, per esempio, alla cittadinanza come posta dalla teoria rousseauiana. La comunità come organicismo finisce, così, nel totalitarismo (Rousseau, Hegel), cui non pone rimedio il cosiddetto patriottismo costituzionale, il quale chiede pure di pensare e volere come vuole la Costituzione, vale a dire il patto sociale talvolta (anzi, quasi sempre) imposto da una generazione ad un’altra. [Continua...]
Fonte:
http://radiospada.org/
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