1. Le origini
2. Il partito di massa
Nei secoli XIX e XX, con lo sviluppo delle grandi ideologie figlie della Rivoluzione francese e con l'ulteriore estensione del suffragio, hanno origine i partiti organizzativi di massa, di cui sono esempio tipico i partiti socialisti, il più delle volte sorti da organizzazioni inizialmente estranee o avverse alla logica parlamentare, ma che - a un certo punto - intravvedono sia la possibilità di inseminare germi di socialismo per via legislativa, che, soprattutto, le potenzialità di azione sulla "coscienza politica" delle masse fornite dal loro inquadramento elettorale. Sono anche detti partiti di apparato, perché per educare le masse e attivarle politicamente occorre una struttura permanente e non limitata alla contingenza elettorale, con un personale a tempo pieno, qualificato e retribuito. Anche la struttura interna, rudimentale nel caso dei partiti di notabili, si fa complessa. I partiti socialisti sono organizzati localmente in sezioni, a loro volta coordinate a livello territoriale più ampio in federazioni, con al vertice una direzione centrale elettiva. I partiti comunisti hanno invece la tipica organizzazione bolscevica in cellule, aziendali o locali, adatte all'azione clandestina, che ne testimonia l'origine insurrezionale. I partiti non socialisti si strutturano invece in partiti elettorali di massa, che non perseguono la mobilitazione degli iscritti mediante un'educazione politica permanente, ma solo la conquista di suffragi elettorali: non si rivolgono perciò a classi particolari, ma all'intera popolazione, spesso con programmi vasti e flessibili, elaborati sulla base delle istanze alle quali di volta in volta si attribuisce il maggior richiamo propagandistico - "partiti pigliatutto" -, salvo poi spendere il consenso elettorale ricevuto in strategie politiche inconfessate in campagna elettorale. Sull'esempio dei partiti organizzativi di massa, sono dotati di sezioni, di federazioni, di una direzione centrale e di un personale politico a tempo pieno. Se alcuni di essi - partiti di patronato - hanno il preciso scopo di insediare il proprio capo al governo, perché questi poi distribuisca le cariche statali al suo seguito, l'imposizione del proprio personale politico non elettivo nelle amministrazioni centrali e periferiche diviene una prassi diffusa per tutti i partiti di massa.
Con il partito di massa, intermediario fra il popolo e il corpo legislativo, si realizza una cerniera così costruita: l'eletto dal popolo nelle liste del partito, mentre mantiene la sua indipendenza nei riguardi dell'elettorato, a cui lo lega un mandato sempre più ampio e sempre meno imperativo, è legato da un mandato sempre più ristretto e imperativo nei confronti del partito, la cui segreteria diventa il luogo di sintesi della presunta volontà generale, mentre il parlamento rimane solo il luogo in cui tale elaborazione prende veste pubblica. Le elezioni perdono ogni residuo carattere di scelta dei rappresentanti, legittimando un personale politico mandatario non del paese ma dei partiti, e divengono atti di tipo plebiscitario nei confronti di programmi politici globali. Né i partiti trovano limitazioni al loro operato in una società che la democrazia rivoluzionaria ha progressivamente destrutturato, e le cui residue realtà associate non hanno in ogni caso alcuna possibilità di essere rappresentate come tali, se non attraverso ambigui rapporti clientelari o di fiancheggiamento. La sfera della politica è monopolizzata dai partiti, ognuno dei quali rivendica il possesso della volontà generale, in un clima come di guerra civile: maggiore è infatti la componente ideologica di un partito, più esso vede nei partiti rivali non puri competitori, ma avversari del proprio programma di rigenerazione sociale, quindi nemici totali. Non deve perciò stupire che uno dei possibili esiti del sistema dei partiti di massa sia l'affermazione del partito unico, che rivendica la rappresentanza di quella che, per essere la volontà generale, deve essere di necessità logica unica. Ma anche in assenza di tale esito il partito, in grado di esigere l'ubbidienza dei rappresentanti eletti, viene a costituire il punto di saldatura del potere esecutivo, del potere legislativo e - in un quadro di positivismo giuridico qual è quello moderno - del potere giudiziario, rendendo illusoria quella divisione dei poteri correntemente considerata come la principale garanzia della libertà politica. Quando un singolo partito, o il regime dei partiti, ha anche il pratico monopolio della formazione dell'opinione pubblica, si assiste a una deriva totalitaria della democrazia.
3. Il futuro
Con la cosiddetta "morte delle ideologie" e con l'attenuazione della conflittualità in una società priva di significativa stratificazione sociale, è certamente scontato ipotizzare la scomparsa del partito ideologico di mobilitazione a favore del partito di rappresentanza, di cui però si tratta di precisare la natura, per poter, se non eliminare, almeno limitare gli elementi negativi che al partito derivano dalla sua stessa genesi. La morte delle grandi ideologie, cioè di "visioni del mondo" semplificate atte a orientare l'azione delle masse e a giustificare l'adesione ai partiti come a "chiese", presso cui trovare la soluzione a ogni esigenza esistenziale, non significa, per i singoli, la scomparsa delle idee, che, approfondite e articolate, possono acquisire rilevanza sociologica con la rinascita di movimenti di idee, che costituiscono corpi intermedi volontari a fianco di quanto resta dei corpi intermedi naturali. Lo stesso discorso vale per i gruppi d'interesse in senso lato - civici, professionali ed economici - sia durevoli che contingenti, che, svincolati dall'appartenenza di classe e dalla contiguità con i partiti ideologici, possono autolegittimarsi come necessarie articolazioni del corpo sociale. Il nuovo partito - realtà organizzata e non solo comitato elettorale, ma non affetta dall'elefantiasi dei partiti di apparato -, pur senza rinunciare a una propria cultura politica, dovrebbe incaricarsi di difendere e di promuovere l'autostrutturazione della società, garantendo spazi di libertà e rappresentando politicamente i soggetti portatori di una cultura compatibile con la propria nonché gli spontanei gruppi d'interesse non confliggenti con il bene comune, senza pretendere di "crearli", rinunciando a occupare totalisticamente la società com'era intrinseca tendenza dei vecchi partiti politici. La riorganizzazione e il rafforzamento della società vera, attualmente agonizzante, consentirebbero una fisiologica limitazione di quei "poteri forti", che vengono falsamente rappresentati come la rivincita della società su un mondo della politica opportunamente demonizzato, scongiurando il pericolo che la democrazia di massa possa essere sostituita da una tecnocrazia di uguali - se non maggiori - potenzialità totalitarie.
Per approfondire: vedi un primo esame delle unità del moderno sistema politico, in Domenico Fisichella, Lineamenti di scienza politica, NIS, Roma 1988; molto utile dal punto di vista storico Paolo Pombeni, Introduzione alla storia dei partiti politici, il Mulino, Bologna 1985; fondamentale, per quanto riguarda la struttura dei partiti e i sistemi di partito, Maurice Duverger, I partiti politici, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1980; vedi pure, sinteticamente, Giovanni Cantoni, Riflessioni in tema di partito dopo il "crollo delle ideologie". Verso una politica limitata e forte, in Cristianità, anno XXIV, n. 258, ottobre 1996, pp. 3-6.