lunedì 20 gennaio 2014

Cercando la Felicità

JUAN MANUEL DE PRADA

felicità

Se si dovesse scegliere l’idea che più danni ha fatto alle persone citerei, senza ombra di dubbio alcuno, quell’utopico proclama della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo degli Stati Uniti nella quale si menziona, tra i diritti inalienabili dell’uomo, “la ricerca della felicità” (the pursuit of happiness).
L’idea alla base di questo proclama è estremamente malvagia, e forse bisognerebbe rendersi conto che un “diritto alla felicità” (che sarebbe un proclama vuoto e apertamente cinico) non sussiste affatto, tutt’al più alla sua “ricerca”, che equivale ad introdurre nella vita veleno e costante frustrazione, come la scelta del termine pursuit suggerisce.
La gente, tuttavia, suole ripetere di avere un illusorio diritto ad “essere felice” (altra cosa tanto assurda come dire che si ha il diritto di “essere intelligenti” o di “essere attratti dalle donne”), dove si dimostra la tetra capacità di suggestione che ha questo nefasto proclama, che l’unico diritto che “consacra” è quello di un farabutto ad inseguire una chimera, come Achille inseguiva la tartaruga nel paradosso di Zenone di Elea.
Non tenteremo adesso di definire un termine tanto spinoso come la “felicità”, che nella sua accezione moderna tiene già un inequivocabile fetore solforoso. A noi interessa molto di più il senso del sintagma “diritto alla ricerca della felicità”, che sarebbe qualcosa di simile ad un sedicente diritto di elaborare un progetto di vita che ci permetta di avvicinarci il più possibile ad un ideale di vita che precedentemente abbiamo concepito; e che, ovviamente, sarà un ideale chimerico, fato data l’elevata considerazione che abbiamo di noi stessi.
Il diritto alla “ricerca della felicità” sarà, in definitiva, il diritto a confezionare la nostra biografia al margine della realtà e all’imposizione dei nostri desideri e appetenze. E, naturalmente, sempre ritenendo che noi meritiamo molto più di quel che abbiamo.
Diritto a sognare! Direbbe un sentimentale. Ed impacciati da sogni e sentimentalismi mandiamo in rovina la nostra vita.
Questo “diritto”, che oggi ci pare scontato come l’aria che respiriamo, si tratta tuttavia di una relativa novità nella storia umana.
Per molto tempo, la gente veniva al mondo accettando che la propria biografia si sviluppasse entro delle coordinate pre-stabilite: si nasceva nel luogo in cui, probabilmente, si sarebbe anche morti; frequentemente si ereditava l’occupazione familiare, si pianificavano i matrimoni, eccetera, eccetera.
Dipendendo, però, dal grado di attenzione che la comunità mostra verso i carismi personali dei propri membri, poteva capitare che il figlio di un carpentiere terminasse i propri giorni essendo un poeta, o sposandosi con una donna diversa rispetto a quella designata dai suoi genitori. Questo, tuttavia, solo se aveva veramente doti da poeta o se dopo tutto la donna diversa conveniva di più per conformità di carattere e condivisione di interessi vitali.
Ai giorni nostri, al contrario, una persona senza doti poetiche può concludere che vuole essere un poeta, facendo uso del suo diritto ad “essere felice”. A nulla servirà la constatazione che le sue doti poetiche siano scarse, se non addirittura nulle, tenterà sempre di imporre il suo desiderio di essere poeta contro il vento e la marea.
Nonostante non sappia dare un metro ad un verso, nonostante manchi di sensibilità estetica, si impegnerà ad essere poeta. A vent’anni, tale proposito chimerico gli farà abbandonare gli studi, disdegnare lavori che considera indegni della sua vocazione, o accettarli di mala voglia. A trent’anni, tale proposito chimerico lo avrà portato ad adirarsi con la sua famiglia, a rovinare il suo fidanzamento, a passare disagi indicibili, a ricolmarsi di invidia, vedendo che altri che avevano il suo stesso proposito hanno ottenuto riconoscimenti. A quarant’anni, quella stessa persona che voleva essere poeta benché mancante delle doti necessarie, comprende che niente gli permetterà di diventarlo, o almeno non nel grado di riconoscimento che sognava per sé: a quel punto, se di buona indole, la depressione gli farà cadere ad un ad uno gli artigli; se la sua indole è invece rancorosa, il risentimento andrà conquistando, per irradiazione concentrica, tutti gli strati della sua anima, fino a convertirla in un sacco di pus; e, in un altro caso, il suo fracasso non farà che contagiare di amarezza quelli che lo circondano. Ho conosciuto abbastanza persone alle quali l’affanno per costruire la loro propria biografia a condotto ad infausti vicoli senza uscita; ed io stesso ho patito le conseguenze di pretendere chimere che si fondavano solo su desideri disordinati. Credo che non vi sia alcun danno comparabile a quello derivante da questo fantomatico “diritto alla ricerca della felicità”, che è il travestimento sotto il quale si cela —riempiendo la testa di paraocchi— la perpetua condanna all’infelicità.

Traduzione di Lorenzo Roselli (http://radiospada.org/)

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