venerdì 26 agosto 2011

Sulla monarchia assoluta

La Monarchia Tradizionale di Francesco II di Borbone
di Marina Garrese  tratto da loretoblog.it
Il breve e drammatico regno dell’ultimo re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, ben al di là delle considerazioni di ordine storico, offre notevoli spunti di riflessione sul significato della monarchia e sulla concezione tradizionale della relazione che lega il Re ai propri popoli.
Francesco II a Gaeta

È doveroso soffermarsi sul regno di Francesco II, inoltre, anche per un motivo di giustizia, essendo egli il sovrano che più pesantemente ha subito gli oltraggi della storiografia di matrice ideologica. L’ultimo re della Casa Borbone, infatti, solitamente viene rappresentato attraverso una serie di luoghi comuni che ne forniscono un’immagine davvero poco lusinghiera. Il repertorio, piuttosto ristretto in verità, va dal bonario “re giovane ed inesperto” al critico “re senza adeguata preparazione militare e politica”; dallo psicologico “re eternamente indeciso” all’offensivo “re inetto ed imbelle”. In realtà non si può ricostruire un’immagine veritiera di Francesco II prescindendo da una lettura in chiave tradizionalista di alcune sue scelte, di Stato e personali, che analizzate altrimenti più facilmente si prestano ad interpretazioni ingiuriose; tralasciando i principi, religiosi, etici e politici, che lo hanno guidato nell’intero arco della vita, anche durante l’esilio, e sui quali si fondarono le sue scelte. Per riflette e comprendere, dunque, bisogna riandare ai principi informatori della monarchia tradizionale.
Nazione e Tradizione

Un proverbio medioevale diceva «come il padre è re dei figli, così il Re è il padre dei padri». In questa breve frase è racchiuso l’intero significato della monarchia tradizionale, che si configurava non come espressione di un potere estraneo, “imposto” al popolo e alieno ad esso, ma al contrario come la forma propria, l’incarnazione dei fondamenti stessi che di quel popolo facevano una nazione. Il termine nazione travalica ampiamente i confini dello Stato, senza identificarsi necessariamente con essi e a volte divergendone drammaticamente. La nazione è l’insieme di quei legami naturali che profondamente uniscono e permettono, potremmo dire, una genesi reciproca tra una terra, le genti che la abitano e le vicende che nel tempo vi si alternano, cioè la storia vissuta da quella terra e da quelle genti. La Nazione è un’entità viva, che nasce, cresce e si sviluppa nel tempo; è un’entità organica che sopravvive ed esprime la propria identità attraverso la tradizione, cioè attraverso tutto ciò che viene tramandato nel tempo, tutto ciò che una generazione consegna alla generazione successiva (l’etimo latino tradere significa appunto consegnare). «Quando nasciamo non nasciamo astrattamente, ma possedendo elementi vitali trasmessi dai nostri padri e che costituiscono ciò che chiamiamo la nostra cultura e la nostra Tradizione; perciò dice superbamente Donoso Cortés che “i popoli senza tradizione diventano selvaggi”». 
Essa è l’eredità di un popolo, la sua lingua, i suoi usi, la sua fede, le sue leggi; delinea le caratteristiche che lo distinguono dagli altri e che permettono a ciascun individuo di riconoscersi come parte di esso. La tradizione raccoglie quanto di meglio una generazione ha saputo costruire nell’alveo della propria eredità. «Quel che riceviamo dagli avi non è lo stesso patrimonio culturale che trasmettiamo ai discendenti, perché nel nucleo culturale che trasmettiamo inseriamo il nostro apporto personale, il frutto delle nostre azioni. Questo apporto che ogni generazione aggiunge a quello che ha ricevuto dalle generazioni precedenti, è il progresso […], giacché non esiste progresso senza tradizione né tradizione senza progresso. Progredire è naturalmente cambiare e moralmente migliorare ciò che costituisce la Tradizione ricevuta». 
L’ordine sociale tradizionale

La tradizione, dunque, è “la continuità della vita” di una Nazione e questa, come tutti gli organismi viventi, è formata da organi diversi, i corpi sociali intermedi. Con le parole del grande filosofo del diritto Francisco Elías de Tejada diremo che «ognuna di queste società intermedie serve per dare alla società maggiore la sua natura organica; esse posseggono una vita particolare ed indipendente nella loro sfera rispettiva; comprendono l’individuo dalla nascita alla morte; non sono create dal potere supremo ma riconosciute da esso. Alcune provengono direttamente dal diritto naturale, come la famiglia; altre sono il risultato della storia, come i popoli; a volte posseggono vita pubblica, altre sono limitate a sfere private. In determinate occasioni sono autosufficienti, e abbisognano solo di tutela e di coordinamento con le società vicine, come le città; non mancano quelle che agiscono al pari dello Stato, ma con mire superiori e più alti diritti, come la Chiesa Cattolica […], servono come misura dell’agire dell’uomo concreto e, data la loro indipendenza dallo Stato, sono fonte sicura di equilibrio umano».
Ogni organo sociale svolge, quindi, una funzione vitale che gli è propria, che non può essere delegata ad altri né può essergli sottratta da altri. Ogni squilibrio nel funzionamento dei diversi organi porta inevitabilmente alla malattia o alla morte del corpo sociale. Primo e basilare corpo intermedio è la famiglia, comunità naturale nella quale l’uomo nasce e cresce, della quale ha bisogno per sopravvivere. Nella società tradizionale era riconosciuta anteriore e superiore al potere politico, tanto che, in epoca medioevale, l’importanza di un paese era data dal numero di “focolari” e non dal numero degli individui che vi abitavano. Anche all’interno della famiglia, ciascuno svolge un ruolo specifico e quello del padre è di esserne l’amministratore, ma «invece dell’autorità di un capo egli ha piuttosto l’autorità di un gestore responsabile, direttamente interessato alla prosperità della casa, ma che in questo adempie un dovere piuttosto che esercitare un diritto. Il suo incarico è proteggere i deboli, le donne, i bambini e i servitori. Se vi sono beni patrimoniali, egli non ne ha che l’usufrutto: come li ha ricevuti dagli antenati, così li dovrà trasmettere a coloro che gli succederanno per nascita. Il vero proprietario è la famiglia, non l’individuo».  Compito insopprimibile della famiglia è l’educazione dei figli, cioè la trasmissione della tradizione.  Soltanto in famiglia, infatti, e nei primi anni di vita, si possono apprendere e fissare i principi che daranno senso e direzione a tutta la nostra esistenza.
È per questo motivo che i regimi totalitari sottraggono alle famiglie l’educazione di bambini e giovani, inquadrandoli al più presto in organizzazioni formative statali. Le aggregazioni di famiglie, a loro volta, danno luogo ad altri corpi intermedi che compongono l’impalcatura della società. Sono, ad esempio, le comunità territoriali minori e maggiori, a partire dal municipio fino alle entità sovranazionali come le federazioni e gli imperi; oppure le associazioni volontarie, costituite dai singoli sulla base di interessi comuni di tipo professionale, religioso o anche soltanto ricreativo. I legami che originano l’intero organismo sociale, a partire dalla famiglia fino al regno o all’impero, sono tanto profondi che ognuno li porta radicati dentro di sé, indipendentemente dalle vicende personali o storiche.
Due esempi di grande forza ci sono stati offerti da Paesi dall’Est europeo, all’indomani della caduta dei regimi comunisti, avvenuta nel 1989, dopo circa cinquant’anni di totalitarismo. In Bulgaria, nel 2001, l’ex re Simeone II di Sassonia-Coburgo-Gotha, costretto all’esilio nel 1946 e tornato in patria dopo 43 anni, è stato eletto alla carica di primo ministro con un voto plebiscitario: al partito da lui fondato, infatti, è mancato un solo seggio per la conquista della maggioranza assoluta. Altro esempio è stata la divisione pacifica e in totale accordo della Cecoslovacchia, paese costituito artificialmente a tavolino dopo la seconda Guerra Mondiale, in due Stati diversi, la Repubblica Ceca e quella Slovacca, ritornati ai propri confini tradizionali. Eventi come questi si spiegano soltanto riconoscendo la forza del senso di appartenenza: ognuno, infatti, “sente” di appartenere ad una famiglia, ad un luogo, ad un popolo, ad una tradizione, di essere parte di una Patria (che deriva da pater = padre). Al tempo stesso, ognuno “sente” di essere diverso da chi appartiene ad un’altra Patria, il che non vuol dire essergli ostile ma essere consapevole di avere un retaggio diverso, che va rispettato, preservato, tramandato.
La monarchia tradizionale

È all’interno di questa concezione, che vedeva nei legami naturali il proprio fondamento e nello spirito di corpo il collante sociale, che va collocata l’istituzione monarchica tradizionale. Un antico aforisma dice che lo Stato è il vestito di un popolo e, appunto come un vestito, deve essere adatto a quel corpo per farlo sentire a proprio agio. La forma istituzionale dello Stato, quindi, deve essere organica alla nazione per appartenerle veramente, pena il rischio di “crisi di rigetto” proprio come avviene ad organi trapiantati in un corpo estraneo. Il carattere della monarchia tradizionale si fondava, appunto, sugli identici elementi degli altri corpi sociali: «Il re posto a capo della gerarchia, come il padre alla testa della famiglia, è insieme amministratore e giudice, come simboleggiano i suoi due attributi: lo scettro e la mano della giustizia. […] Essenzialmente il re esercita un diritto di controllo: sorvegliare che quanto è stabilito dai costumi sia normalmente eseguito, e mantenere la tranquillità dell’ordine».  Poiché, come affermò San Tommaso d’Aquino “il popolo non è fatto per il principe, ma il principe per il popolo”, nello svolgere il proprio ruolo sociale, accanto ad un numero limitato di diritti, il sovrano aveva molti doveri. Come ricorda un antico poema: «primo, deve amare Dio e la Chiesa; abbia buon cuore, pietà e compassione; deve preferire il bene comune sopra ogni cosa, avere il suo popolo in grande benevolenza, essere saggio e diligente; sia veritiero e sappia comandare, lento a punire, non ostacoli i buoni e ai malvagi renda un giusto giudizio perché si veda in lui ogni bontà». 
Il potere monarchico si reggeva su patto tacito tra re e popolo – che traeva origine dal vincolo di fedeltà e protezione che legava re e vassallo ed era suggellato da un solenne giuramento sui Vangeli – e poteva essere esercitato soltanto nei limiti posti da usi e leggi alle quali il re era sottoposto al pari di tutti gli altri. Il suo governo doveva essere informato ai due grandi principi politici tradizionali:
- il principio di solidarietà, per il quale ogni individuo ed ogni corpo sociale, popolano o principe, singolo o Istituzione, deve svolgere il proprio specifico compito, deve compiere la propria parte, deve concorrere al bene comune, fine ultimo di ciascuna attività;
- il principio di sussidiarietà, in base al quale ciascun corpo sociale – famiglia, municipio, associazioni, autorità statale – deve poter compiere il ruolo che gli è proprio fin dove gli sia possibile, senza delegarlo ad altri; d’altro canto, nessuno può sostituirsi ad esso, invaderne il campo d’azione, prevaricarne diritti, prerogative e doveri; l’azione sussidiaria, cioè di supporto, deve essere fornita soltanto nel caso di una concreta impossibilità a svolgere il proprio compito dell’organo preposto, o di una situazione oggettiva che richieda un impegno eccessivo per le sue possibilità.
Entrambi questi principi si fondano sull’assunzione della responsabilità del proprio ruolo sociale e, compenetrati dal sentimento religioso, mutuati come sono dal diritto naturale alla luce della fede, si possono riassumere efficacemente in una sola parola: servizio. La monarchia tradizionale era appunto servizio, al quale il Re era chiamato; un servizio che egli doveva rendere con spirito di paternità verso i propri popoli, rispettandone le libertà, le specificità culturali, le forme di autonomia locali, gli usi, i privilegi.
La monarchia tradizionale di Francesco II

I principi di questo modello regale, universalmente validi a partire dall’Alto Medioevo fino al XVII secolo circa, appartennero anche ai re Borbone, sia pure con le trasformazioni, e deformazioni, che l’istituto monarchico aveva subito, scivolando nell’assolutismo o subendo la corruzione illuministica.
A questo modello regale si ispirò Francesco II, o meglio la sua formazione, la sua educazione e il profondo senso religioso che lo animava, fecero di lui un re sul modello delle grandi figure del Medioevo. Paradossalmente, proprio le scelte e le vicende storiche che gli sono imputate come colpe e inadempienze, rappresentano in realtà i momenti in cui più significativamente dimostrò di aderire a questo modello di Re-Padre della nazione, nelle cui mani è la vita dei propri figli. Una testimonianza diretta di quanto fortemente egli sentisse questa responsabilità altissima ci è data dal ministro Pietro Calà Ulloa che, riportando il brano di una conversazione riferisce le parole di Francesco: «Se io non fossi Re, se non fossi responsabile della mia corona, verso i miei popoli e verso la mia famiglia, già da lungo tempo ne avrei deposto il fardello». 
Francesco si mostrò Re-Padre quando fermò i suoi soldati a Palermo, dopo l’invasione garibaldina, nel momento in cui avrebbe potuto forse chiudere la partita con pochi colpi, ma a prezzo della distruzione della città. O quando lasciò l’amatissima Napoli, per evitarle lo scempio di un feroce bombardamento e di una guerra combattuta casa per casa. Il suo proclama di addio è quasi un compendio dei valori tradizionali che ispirarono tale scelta: «Da quali sentimenti era compreso l’animo mio per tutti i miei popoli e per questa illustre città: garantirla dalle rovine della guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni d’arte e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà e grandezza e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un momento». Sentimenti confermati anche dal fatto che, partendo, Francesco non portò con sé neppure il patrimonio privato, ad indicare che la partenza era un momentaneo allontanamento imposto da necessità superiori e non una fuga verso la salvezza, lasciando la capitale in balia del nemico. Quella di Francesco II fu una concezione medioevale, cioè cavalleresca, della guerra, certo estranea ai suoi nemici che combatterono per lo più senza onore. Una concezione che imponeva al Re di evitare il coinvolgimento della popolazione civile nella battaglia tra eserciti contrapposti, che gli imponeva anche di ridurre al minimo lo spargimento di sangue dei soldati stessi, in nome della sacralità della vita e della regalità come paternità. Può sembrar strana oggi, abituati come siamo a guerre con centinaia di migliaia di morti, che si combattono facendo schiantare aerei nei grattacieli, o bombardando le città, o imbottendo di tritolo i “kamikaze” e facendo saltare in aria decine di civili, bambini compresi, sugli autobus o nel metrò. Invece, era una concezione diffusa nel Medioevo, quando combattevano “in campo aperto” soltanto gli eserciti, formati da professionisti o volontari, e la popolazione civile non era “chiamata alle armi”. Una concezione che diede illustri esempi passati alla storia e rimasti nelle coscienze dei popoli, come re Venceslao di Boemia, che nell’anno 1000, sotto attacco da parte del re di Baviera, propose a quest’ultimo di sfidarsi in duello per evitare un’inutile carneficina. Il re di Boemia rinunciò a combattere, colpito da tanto valore e nobiltà. Re Venceslao salvò se stesso e il proprio Regno, ma nulla poté contro il tradimento, che di lì a poco lo uccise. Oggi è ricordato dalla Chiesa come santo e fu nella piazza a lui dedicata, sotto la sua statua, che i ragazzi di Praga si raccolsero per chiedere libertà nel 1968.
Francesco II fu sovrano di uguale statura morale. Soltanto un re, preoccupato più per i mali materiali e morali che possono abbattersi sul popolo che per la conservazione del proprio trono, avrebbe potuto indirizzare all’esercito, alla vigilia della battaglia decisiva contro il nemico, parole come queste: «Soldati! Poiché i favorevoli eventi della guerra ci spingono innanzi e ci dettano di oppugnare paesi dall’inimico occupati, obbligo di re e di soldato m’impone di rammentarvi che il coraggio ed il valore degenerano in brutalità ed in ferocia quando non siano accompagnati dalla virtù e dal sentimento religioso. Siate adunque generosi dopo la vittoria; rispettate i prigionieri che non combattono ed i feriti e prodigate loro, come il 14° Cacciatori ne ha dato esempio, quegli aiuti che è in vostro potere di apprestare. Ricordatevi che le case e le proprietà nei paesi che occupate militarmente sono il ricovero e il sostegno di molti che combattono nelle nostre file: siate adunque umani e caritatevoli con gli infelici e pacifici abitanti, innocenti certamente delle presenti calamità. L’obbedienza agli ordini dei vostri superiori sia costante e decisa; abbiate infine innanzi agli occhi sempre l’onore e il decoro dell’esercito napoletano». [11]
Che dire poi di un Re che, insieme alla giovane sposa, affronta i pericoli e le privazioni della resistenza sugli spalti di Gaeta? Il suo esempio destò clamore ed ammirazione in tutta Europa e riempì le cronache dei giornali: «L’ammirazione, e son per dire l’entusiasmo, che desta in Francia il nobile contegno del Re di Napoli, vanno crescendo ogni giorno in proporzione dell’eroica resistenza del giovane monarca, assediato dalla rivoluzione sullo scoglio di Gaeta. Così un bellissimo indirizzo degli abitanti di Avignone, con parecchie migliaia di firme, venne spedito al Re, in cui gli Avignonesi manifestavano la speranza loro ferma che il suo trionfo sarà misurato dalla grandezza del suo pericolo». Fondatamente lo storico Pier Giusto Jaeger ha riconosciuto l’onore, la fierezza, l’eroicità di Francesco II ed anche il suo altissimo senso religioso, una pietas cristiana vicina alla santità.  Fede profonda che lo guidò anche nelle vicende private dell’esilio. Ben nota è la vita ritirata e tutta volta alla pratica religiosa e alla carità condotta dal Sovrano fino alla fine, ma nelle sue lettere private si possono trovare elementi di altissima spiritualità. Come in uno scritto al cognato, Roberto I di Parma, nel quale, ricordando le morte dell’amatissima figlioletta, Francesco II scrisse: «A me sembra che il Signore voglia dare, in ciascuna famiglia che predilige, qualche speciale intercessore nel cielo, ove parte quasi di noi stessi già si trova e speriamo che come potente calamita ci attragga».  Sentimenti come questi non sono frutto di “superstizione religiosa” come alcuni hanno voluto intendere, ma rivelano una profondità di fede che fa vedere la vita, la storia e i tempi con occhi più acuti. Infatti, contrariamente all’immagine di Re inesperto e incapace, in molte sue lettere Francesco II dimostrò di avere ben chiara la situazione europea e di prevedere perfettamente gli sconvolgimenti che sarebbero stati causati dalle ideologie scientiste e socialiste che si andavano diffondendo in quegli anni.
Paternità regale, servizio, tradizione e fede furono i principi che guidarono Francesco II, ultimo esempio di monarca tradizionale che abbia incarnato veramente i fondamenti della nazione alla quale appartenne. «Io sono napolitano, nato in mezzo a voi, io non ho respirato altra aria, non ho veduto altri Paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel Regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre son pure le mie […]. Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità» sono le sue parole dettate nel manifesto dell’8 dicembre 1860, redatto a Gaeta.
Conclusione

Secondo Benedetto Croce, il Regno napoletano cadde perché non riuscì ad afferrare la “nuova cultura”. Forse è vero, ma si trattava di una “cultura” aliena, troppo lontana dai principi naturali e cristiani che costituivano la tradizione della nazione napoletana ed il Re non poteva accettarli senza tradire se stesso, il proprio popolo e la propria storia. Con Francesco II non scomparve soltanto un nobile Regno. Si interruppe la linea di continuità che permetteva ad una secolare nazione di riconoscersi nel proprio Re: iniziava l’età dell’estraneo, dello straniero. Una nuova epoca inaugurata con il bombardamento di Gaeta, continuato per giorni e giorni e non interrotto neppure durante le trattative per la resa, perché Cialdini, l’uomo nuovo, sosteneva che “sotto il fuoco si cede di più”. Cominciava una nuova era e fu salutata dalla cannonata che fece saltare la batteria Transilvania, nel momento in cui veniva firmato l’atto di resa. Gli allievi della Nunziatella, eroi giovinetti di 16 anni uccisi dalla deflagrazione, non furono gli ultimi morti di una guerra persa ma le prime vittime del mondo nuovo.