mercoledì 31 agosto 2011

Genova 1849:il bombardamento ed il saccheggio ad opera dalle soldatesche sabaude di Vittorio Emanuele II.



Gli antefatti
Il Congresso di Vienna del 1815 decretò la fine della antica e prestigiosa Repubblica di Genova, i cui territori furono annessi dal Piemonte senza consultazione popolare. Sotto i Savoia Genova subì un rapido declino: la dinastia sabauda privilegiava gli interessi dei proprietari agrari, a scapito della vocazione mercantile dei Genovesi.
Torino e Genova non erano separate solo geograficamente dagli Appennini: Genova era aperta "intellettualmente" al mare, alle idee, al mondo. Idee innovatrici vengono sospinte dal vento rivoluzionario, facendovi convergere avventurieri, logge di Franchi Muratori, propagandisti d'oltralpe. Torino, grettamente alpestre, contadinesca, aveva rispetto a Genova un esercito di prima scelta, e la fagocitante indole sabauda che si era imposta sulla libera intraprendenza genovese.
Questo inconciliabile "diverbio" tra Genova e Torino risaliva a qualche secolo prima, per diversificati inestinguibili motivi etnici, geografici, culturali, sociali, caratterologici. Il malcontento ed i disagi crebbero negli anni, di pari misura con il degrado economico della città. L'insofferenza verso il Piemonte si diffuse non solo in ambienti elitari (Mazzini ed i fautori degli ideali repubblicani), ma anche tra la borghesia, il clero ed i lavoratori. Intorno al 1846 Genova assunse una funzione notevole nel movimento riformatore e costituzionale dato anche l’insuccesso dei moti mazziniani. Nel 1848 la situazione divenne esplosiva: si delineava in quell’orizzonte incerto la "guerra nazionale".
Aristocratici come Giorgio Doria salivano in pellegrinaggio al Santuario di Oregina, a braccetto con gente come Bixio (il bestemmiatore) e Mameli (il sognatore): erano uniti dalla comune diffidenza sia verso i Savoia, sia verso l’Austria. Ebbero luogo manifestazioni e sommosse di vario tipo e matrice, che aumentarono l'esasperazione (ma anche l'esaltazione) dei Genovesi. Dopo la sconfitta piemontese a Novara del 1849 (prima guerra "d'indipendenza"), Vittorio Emanuele II era succeduto a Carlo Alberto. Si sussurrò di una imminente occupazione austriaca.
L'intera città si sollevò contro i Savoia. La storia di questa rivoluzione di Genova, non è riportata nei testi scolastici: i vincitori che, come noto, scrivono la storia, non amano che si tramandino episodi per loro disonorevoli ed infamanti.
Il Popolo genovese caccia i Savoia al grido di Balilla e Indipendenza
Gli Inglesi con le loro navi controllavano il porto di Genova. Il generale sabaudo De Asarta aveva richiamato a Genova tutte le truppe distaccate nei vari comuni e veniva autorizzato fin dal 25 marzo 1849 a porre Genova in stato d'assedio. Il giorno 27 marzo le campane suonarono a stormo: i Genovesi chiedevano le armi e la consegna delle porte Lanterna, Mare, Pila e Romana. Venne intercettata una staffetta che stava correndo dal piemontese La Marmora per chiedere rinforzi. Fu evidente che le truppe regie avrebbero presto marciato su Genova, non per difenderla dagli Austriaci, come falsamente affermato, ma per reprimere con la forza l'anelito del popolo alla libertà. Ci fu un primo scontro davanti a Palazzo Ducale, tra il distaccamento regio ed un gruppo di studenti e cittadini capeggiati da Alessandro De Stephanis. Fu fatto prigioniero l'Intendente Generale, che venne liberato in cambio della consegna di alcuni forti, i cui cannoni erano minacciosamente puntati contro la città.
Il 29 il console inglese fece affiggere un manifesto in cui si diceva: "Avviso: i tumulti che si manifestano in Genova e le apparenze che vi siano progetti di rovesciarvi l'ordine dello stato di S.M. il re di Sardegna mi obbligano a protestare e dichiarare che le forze inglesi stanziate in porto prenderanno misure necessarie. firmato P. Brown di S.M. Britannica".
Il mattino del 30 marzo la Guardia Nazionale, che aveva aderito alla rivolta, armò numerosi volontari (in gran parte barcaioli, portuali e facchini). Il Municipio nominò un triumvirato, con potere temporaneo. I regi allora cercarono di trasportare dei cannoni in posizioni elevate con il chiaro intento di bombardare la città. Verso le ore sedici, i volontari e la Guardia Nazionale infransero le porte della Darsena, e si unirono ai marinai. I Piemontesi reagirono furiosamente: una tempesta di palle si scaricò sui Genovesi.
Il comandante della Guardia Nazionale, generale Avezzana, ordinò allora di occupare le alture di fronte all'Arsenale, con l'intento di circondare i Piemontesi ed attaccarli. La battaglia durò tre ore e ci furono ventitre morti fra il popolo.
Uomini, donne, vecchi, fanciulli, ricchi, poveri si armarono tutti alla meglio e mossero contro i Regi. Si eressero barricate su cui si scrisse a grossi caratteri: "MORTE AI LADRI ". Preti e frati si unirono alla rivolta: i cappuccini diedero assistenza ai popolani feriti. Molti furono i morti, che furono seppelliti proprio nella cripta della Chiesa dei Cappuccini. Al grido di "BALILLA E INDIPENDENZA" i Genovesi circondarono l'Arsenale. Vennero portati a braccia 8 cannoni sulla collina della Pietra Minuta per stanare i Piemontesi. Il generale Avezzana, a cavallo, guidò la carica in Via Balbi; una barricata fu eretta a S. Tommaso.
Mentre tutte le campane della città suonavano a martello, venne attaccato l'Arsenale. La resistenza dei Carabinieri Reali e dei Granatieri di Sardegna non resse all'impeto ed il 2 aprile i Piemontesi si arresero.
I Piemontesi si arrendono: il Governo al Popolo
Presa in mano la città, tutti i cittadini si accinsero a difenderla dalle truppe di La Marmora, che il 2 aprile era già a Ronco e Busalla ed il 5 arrivò a Pontedecimo. Il Governo Provvisorio cacciò la guarnigione Sabauda, tenne in ostaggio gli ex-impiegati governativi, dichiarò nemici della Patria i non aderenti al nuovo stato di cose, chiamò il Piemonte alleato dell'Austria, si staccò dal Municipio che cercava un compromesso. Insomma compì una serie di azioni di chiara matrice indipendentista ma anche unitaria con altre regioni d'Italia (non nel senso però voluto dai Savoia!). Prova ne è che i Genovesi aspettarono con ansia la Colonna Lombarda accorsa in loro aiuto e formata da cinquemila patrioti.
Se in quegli anni avesse prevalso l'idea di una confederazione fra gli stati d'Italia, certamente il Paese ne avrebbe tratto vantaggio enorme. I Savoia invece non permisero mai la creazione di un autentico sentimento nazionale basato sulla libera e cosciente accettazione popolare. L'Italia rimase così in balia del monopolio d'arretratezza sabauda.
Inglesi e bersaglieri attaccano Genova
Nel Municipio di Genova, si erano infiltrate parecchie spie piemontesi che passavano le informazioni al nemico. Quando la guardia Nazionale organizzò i turni per il controllo dei forti, diversi traditori si intrufolarono al fine di favorire le truppe piemontesi. I difensori che assommavano a circa diecimila armati. L'esercito di La Marmora era invece costituito da ben trentamila uomini, un numero sproporzionato per attaccare la città. L'attacco avvenne senza preavviso, violando così il diritto internazionale, come dimostrato dalle proteste degli ambasciatori stranieri d'allora. Intervennero poi gli Inglesi, cannoneggiando dalla poderosa nave da battaglia "Vengeance"; sbarcarono e presero la batteria del Molo per bombardare la città.
A poco servì la sortita della piccola cannoniera genovese "La Valorosa" che cercò di contrastare il colosso del mare inglese. I Britannici si accanirono contro il quartiere di S. Teodoro, permettendo ai Piemontesi di avanzare. La difesa fu strenua, ma il nemico era molto più numeroso e meglio armato. Fu attaccata Sampierdarena, che aveva allora circa 9.000 abitanti, dove si combatté casa per casa; si unirono alla lotta anche i rivieraschi e la Legione Universitaria. Le truppe di La Marmora riuscirono a prendere la porta della Lanterna con l'inganno: dissero che venivano a trattare la pace, ma una volta avvicinatisi aprirono il fuoco sui difensori. A casa Bonino, pochi Genovesi resistessero per una notte a 200 bersaglieri. A Palazzo Doria i Piemontesi in un primo tempo furono respinti, poi vi penetrarono poi attraverso un cunicolo segreto, sorprendendo i difensori.
Alessandro De Stephanis, il già citato studente di medicina dell'Università, si offrì volontario per una sortita al forte Begato: fu gravemente ferito, si nascose in un capanno, dove fu raggiunto dai bersaglieri che lo infilzarono con le baionette. Morì dopo 28 giorni di agonia. La resistenza del Popolo fu eroica: La Marmora fino al 4 aprile non avanzò di un passo.
Genova è presa: saccheggio e violenze dell'esercito dei Savoia
Il 5 aprile 1849 i Piemontesi attaccarono in forze. I prigionieri, come scrisse lo stesso La Marmora, venivano passati per le armi. Nelle sue memorie troviamo un'altra frase su Genova: "non meritar riguardo una città di ribelli". Seguì quindi l'atto ignominioso: La Mamora fece caricare i mortai, a carica massima, ed ordinò di bombardare Genova.
Una miriade di bombe si abbatterono sui cittadini inermi; il cannoneggiamento avvenne da diverse posizioni, ma principalmente dal forte Tenaglia. L'ospedale Pammattone fu colpito da ben 16 bombe, malgrado fosse stata innalzata la bandiera nera che era considerata segnale d'inviolabilità. Solo quel giorno 5 aprile furono portati dall'ospedale ben 107 cadaveri. In seguito La Marmora cercò giustificazione a questo infame atto, affermando che vi erano stati errori nella potenza delle cariche! Scusa puerile, perché il bombardamento fu molto lungo e si avrebbe avuto il tempo di aggiustare il tiro.
Gli Inglesi, dal canto loro, bombardarono sia il centro città che la strada di S. Teodoro, permettendo così l'avanzata delle truppe piemontesi. Inoltre consegnarono a La Marmora quattro pezzi d'artiglieria, che avevano smontato dalle batterie del Molo. Il bombardamento fu ripreso anche dalle potenti artiglierie del forte di S. Benigno, portando gravi danni alla popolazione civile. Il 4 aprile iniziò l'occupazione della città, che resistette strenuamente fino all'11 aprile.
I soldati dei Savoia, che già nei giorni precedenti si erano abbandonati ad eccessi nelle colline, si disseminarono in tutta la città come un'orda di barbari, sparando su chi si affacciava alle finestre. Penetrarono a mano armata nelle abitazioni, al grido "denari, denari o la vita", strappando con percosse alla gente catenelle d'oro, orologi, anelli, e persino le camicie e le scarpe. Spogliate le persone, rastrellavano il denaro e le cose preziose. Dicevano: "I Genovesi son tutti Balilla, non meritano compassione, dobbiamo ucciderli tutti ". Un povero facchino, cui avevano ucciso il figlio di undici anni, fu obbligato giorno e notte a preparare minestre alle diverse squadre di soldati. Ci fu chi venne ucciso per rubargli solo un po' di verdura! La soldataglia dei Savoia stuprò e violentò le donne, anche alla presenza dei figli. Furono profanati e saccheggiati le chiese ed i Santuari, le case dei Missionari, i conventi.
Alcuni degli insorti arresisi furono passati per le armi, molti altri furono condotti a calci e pugni al forte della Crocetta. Derubati, furono rinchiusi in celle affollate. Per due giorni non fu somministrato cibo di sorta, e due nei successivi una sola galletta per giorno. Fu loro negata anche l'acqua, a chi ne chiedeva i soldati rispondevano: "bevete l'orina". L'inumano trattamento era completato dalle percosse e dalle continue minacce di fucilazione.
Nel rapporto ufficiale della Commissione Municipale, nominata dopo l'inserruzione, furono riportate ben 463 relazioni di singoli misfatti compiuti delle truppe dei Savoia.
Sedata la rivolta, dopo aver concesso Genova al sacco della soldataglia, Vittorio Emanuele II scrisse in francese la seguente lettera al generale Alfonso La Marmora (l'originale autografo è conservato all'Archivio di Stato di Biella, fondo Ferrero, serie Principi, cassetta VI/11/141):
"Mon cher général,
Je vous ai confié à vous l'affaire de Gènes parce que vous étés un brave. Vous ne pouviez mieux faire et vous méritez toutes espèces de compliments.
J'espère que notre malheureuse nation ouvrira enfin les yeux et verra l'abîme ou elle s'était lancée tête baissée. Il faut beaucoup de la peine pour l'en tirer et c'est encore malgré elle qu'il faut travailler pour son bien; qu'elle apprenne enfin une fois à aimer les honnêtes gens qui travaillent pour son bonheur et à haïr cette vile et infecte race de canailles à la quelle elle se con fiait et dans la quelle sacrifiant tout sentiment de fidélité, tout sentiment d'honneur elle prêtait tout son espoir (odiare questa vile e infetta razza di canaglie di cui essa si fidava e nella quale, sacrificando ogni sentimento di fedeltà, ogni sentimento d'onore, essa poneva tutta la sua speranza). Après nos tristes événements, dont vous aurez eu les détailles d'après mon ordre, je ne sais pas même moi comment je sois réussi au milieu de tant difficultés à en être au point où nous sommes. J'ai travaillé constamment nuit et jour, mai si cela continue comme cela j'y laisse la peau, que j'aurais bien plutòt voulu laisser dans une des dernières batailles. Je vais parler à la députation, avec prudence; elle saura pourtant ma manière de penser. Vous verrez les conditions; il m'a fallu bien me débattre avec le Ministère, car Pinelli souvent se montre bien faible. Je pense vous laisser quelque temps a Gènes: faites tout ce que vous jugerez à propos pour le mieux. Rappelez vous, beaucoup de rigueur avec les militaires compromis. J'ai fait mettre De Asarta et le Colonel du Genie en Conseil de guerre. Rappelez vous de faire condamner tous les délits par les tribunaux, commis par qui que ce soit et surtout sur nos officiers; de chasser aussitôt tous les étrangers et de les faire accompagner à la frontière et de former aussitôt une bonne police. Il y a peu d'individues compris dans la note, mais on dit qu'il faut de la clémence. Instruisez nous de ce qui arrivera, de l'état de la ville, de son esprit, de ceux qui ont pris plus de part à la révolte, et tâchez si vous pouvez que le soldats ne se portent pas a des excès sur les habitants, et faites leur donner, si c'est nécessaire, une haute paye et beaucoup de discipline surtout pour ceux que nous vous envoyons; il seront fâchés de ne pas arriver à temps. Conservez moi votre chère amitié, et conservez vous pour d'autres temps qui, à ce que je crois, ne seront pas éloignés, que j'aurais besoin de vos talents et de votre bravoure.    
Le 8 avril 1849 - Votre très affectionné - Victor