Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza
Comunicato n. 65/16 del 19 settembre 2016, San Gennaro
Pio IX e il 20 settembre 1870
Ricordiamo l’infausto anniversario del 20 settembre pubblicando alcune pagine tratte dall’opera di di Mons. Giuseppe Sebastiano Pelczar, “Pio IX e il suo pontificato”.
Alcune ore dopo, alle 5,15 del 20 settembre, una prima palla dei Piemontesi colpiva le mura di Roma dando principio ad una vera grandine di proiettili lanciati da 60 cannoni, a cui rispondevano appena 18 pezzi dell’artiglieria pontificia. Il nerbo dell’attacco era rivolto contro Porta Pia, Porta Maggiore e contro le caserme del Macao, che porgevano più facile accesso; ma si sparava pure contro le porte Salaria, S. Pancrazio, S. Giovanni e S. Sebastiano.
Al rombo dei cannoni i cardinali Patrizi, Antonelli, Berardi, Bonaparte ed altri come pure tutti i membri del Corpo Diplomatico allora presenti in Roma s’affrettarono al Vaticano indossando le uniformi di gala.
Il Papa celebrò secondo il solito la S. Messa alle ore 7,30; il Corpo Diplomatico ebbe l’onore di assistervi, e verso le ore 9 fu introdotto in presenza di S. S. nella sala della biblioteca privata., le cui finestre mettono sulla piazza di S. Pietro. Il S. Pietro incominciò con ringraziare gl’illustri rappresentanti delle Potenze estere per essersi raccolti alla sua presenza in occasione così penosa, indi soggiunse continuando più a modo di conversazione, che di discorso:
Il Corpo Diplomatico si riunì anche un’altra volta intorno a me: ciò fu al Quirinale nel 1848. (…) io ho scritto al re: non so se egli ha ricevutola mia lettera: gliel’ho mandata coll’indirizzo del suo Ministro degli affari esteri. Penso che gli sarà pervenuta, ma non ne so nulla…
Bixio, il famoso Bixio, è là con l’armata italiana. Ora è generale; ma fin da quando era repubblicano, aveva fatto il progetto di gettare nel Tevere il Papa e i cardinali, quando entrasse in Roma. In inverno sarebbe stato poco piacevole, in estate sarebbe forse un’altra cosa (Nota dell’Autore: Bixio morì di colera nel 1873 mentre viaggiava verso le Indie, ed il suo corpo sepolto nella sabbia fu messo a brandelli dai selvaggi d’Aczyno)...
Egli è là alla porta S. Pancrazio: questo lato è più esposto. Vi sono delle case che soffriranno; fra le altre quella del Torlonia. I ricordi del Tasso corrono molto rischio coi liberatori d’Italia; ma questa gente se se cura poco… (…). Gli alunni del Collegio Americano mi hanno chiesto di prendere le armi, ma li ho ringraziati e detto che si unissero a quelli che assistono i feriti… Ecco che ora Roma è circondata, e si comincia a mancare di molte cose. I muratori non hanno più pozzolana per lavorare e neppure tufo per le fabbriche. I viveri ancora cominciano a divenire cari, e il popolo potrebbe agitarsi…
Ieri nel ritorno dalla Scala Santa ho visto le tante bandiere che hanno messo in Roma per proteggersi. Ve n’erano inglesi, americane, tedesche ed anche turche. Il principe Doria ne ha messa una inglese, non so perché. Quando ritornai da Gaeta, vidi ancora sul mio passaggio molte bandiere che erano state poste in mio onore. Oggi è differente; non le hanno messe per me.
Non è il fior fiore della società che accompagna quegl’Italiani che attaccano il Padre dei cattolici…
In questo punto un ufficiale di stato maggiore da parte del generale Kanzler portò la nuova, che le brecce erano accessibili. I membri del Corpo Diplomatico si tennero in disparte, lasciando il S. Padre a deliberare col card. Antonelli. Indi a pochi istanti il Papa li fece chiamare, e con le lagrime agli occhi disse oro queste parole:
Signori io do l'ordine di capitolare: a che serve difendersi più oltre! Abbandonato da tutti, dovrei tosto o tardi soccombere, ed io non debbo far versare sangue inutilmente. Voi mi siete testimoni, Signori, che lo straniero non entra qui che con la forza; e che se egli sforza la mia porta, lo fa rompendola; ciò basta, il mondo lo saprà, e la storia lo dirà un giorno, a discolpa dei Romani miei figli… non vi parlo di me, o Signori, non è per me ch’io piango, ma sopra quei poveri figli che sono venuti a difendermi come loro padre. Voi vi occuperete ciascuno di quelli del vostro paese. Ve ne sono di tutte le nazioni, soprattutto Francesi. Vi prego di pensare ancora agli Inglesi ed ai Canadesi, i cui interessi non sono qui rappresentati da nessuno. Io ve le raccomando tutti, perché li preserviate dai maltrattamenti, che altri ebbero tanto a soffrire alcuni anni fa. Sciolgo i miei soldati dal giuramento fattomi per lasciarli in loro libertà. Per le condizioni della capitolazioni bisogna vedere il generale Kanzler, bisogna intendersi con lui.
Il Corpo Diplomatico si partì dal Papa, e andò prima dal Pro-Ministro delle armi, poi dal generale Cadorna in Villa Albani.
Frattanto imperversava sulla città una vera pioggia di palle e granate dei cannoni piemontesi. Il generale Bixio, protetto da vigne e vigneti erasi avanzato fino a porta S. Pancrazio, ma qui vi un gruppo di papalini opposergli strenua difesa. Anche alle porte S. Sebastiano e a S. Giovanni, ove dirigeva la difesa l’intrepido de Charette, ferveva una mischia disperata; però le difese di S. Giovanni Laterano e di Santa Croce furono assai danneggiate dalle batterie dell’Angioletti. La lotta fu decisa dal generale Cadorna, che fissato il quartier principale a Villa Albani, diresse il fuoco di alcune decine di cannoni su Porta Pia.
Alle nove e un quarto fu aperta una breccia nel muro di villa Bonaparte, ma gli zuavi, facendo un vivo muro dei loro petti, resistevano a quel fuoco cantando l’inno di Pio XI. Colpiti dai proiettili, morivano eroicamente. Niel e Brondeis, vicini ad esalare l’anima, raccolsero l’ultimo fiato per gridare ancora una volta: Viva Pio IX!
Lo zuavo Burel, non potendo parlare, poiché una pallottola lo aveva colpito in faccia, vergò colla mano che s’irrigidiva fra le agonie mortali queste parole: “Quanto posseggo lascio al Santo Padre”. Quando Pio IX ricevette quello scritto intriso di sangue, lo bagnò di calde lagrime e lo conservò con venerazione.
Allora il Cadorna spinse il 39° reggimento fanteria ed il 35° bersaglieri all’assalto. Questi corrono spavaldi al grido di Viva Savoia, mentre le file pontificie gridano in coro Viva Pio IX. Quand’ecco, accorre un ufficiale, coll’ordine del Kanzler, di cessare il fuoco; gli zuavi depongono dolenti le carabine, ed il tenente Maudit infigge sulla breccia la bandiera bianca; ciononostante il distaccamento piemontese, contro le norme guerresche, s’intromette in città. Già prima il Papa aveva ordinato al colonnello Azzanesi d’inalberare la bandiera bianca sulla cupola di S. Pietro, ma ciò non trattenne il gen. Bixio dal continuare il bombardamento. Solo 10 minuti dopo le ore dieci cessò il fuoco su tutta la linea.
Così dunque la rivoluzione riuscì vittoriosa. Non potendo entrare in Roma sotto la guida di Mazzini, vi entrò guidata da Vittorio Emanuele, innalzandovi la croce sabauda contro la croce di Cristo. Un rampollo di famiglia cattolica, da cui erano usciti dei santi, si fece strumento; ed essa, demoralizzando una parte del popolo italiano e disseminando per quelle terre l’agitazione e l’insurrezione, lo aiutò ad effettuare l’annessione. Grazie al concorso della rivoluzione, all’appoggio di Napoleone III, alla massoneria ed al liberalismo europeo (…)
Verso le ore 11, prima ancora che fosse conclusa la capitolazione, mentre però la bandiera stava alzata a Porta Pia, al Quirinale e sulla cupola di S. Pietro, un distaccamento italiano s’intrometteva in città; e con esso introducevansi alcune migliaia di emigranti e rivoluzionari di professione a fine di preparare uno splendido ricevimento all’esercito che sarebbe entrato nel pomeriggio. (…) frattanto la plebaglia abbandonavasi alle più infami violenze, specialmente contro i sodati ed altri di più notorietà fedeltà al Papa: di che avvisato il generale Cadorna, cinicamente rispose: Lasciate che il popolo si sfoghi!
L’esercito pontificio si ritirò al di là dal Tevere. I valorosi zuavi passarono l’intera notte sotto il porticato di S. Pietro; al mattino, schieratisi in ordine sotto le finestre del Vaticano, il colonnello Alet alzò la spada gridando: Viva Pio IX, Papa e Re. Il Pontefice si affacciò a benedire per l’ultima volta il suo esercito, che presentò l’arme. La scena era così commovente, che il Papa se ne ritrasse cogli occhi lagrimosi e quasi svenuto. Ma non tardò a rimettersi in calma, ed allora prese ad informarsi con vivo interesse dalla moglie del gen. Kanzler sullo stato dei feriti. Poveri figli, disse allora, che il Signore ne li compensi. Fu certo un gran delitto, ma esso ricadrà sui suoi autori.
In quel giorno l’esercito pontifico, a fronte alta ed al grido di Viva Pio IX!, sfilò dinanzi all’esercito piemontese, depose le armi e fu diretto a Civitavecchia, donde poi ciascuno fu rimandato al proprio paese (Nota dell’Autore: nell’esercito trovansi 4800 italiani e 4500 stranieri. NdR: molti prigionieri provenienti dagli Stati italiani pre-unitari furono internarti in campi di concentramento allestiti in Piemonte, dove diversi morirono).
Tre giorni dopo il Papa disciolse la guardia palatina, così che in Vaticano rimasero un 300 o 400 uomini. Siccome la Città Leonina era indifesa, così un’orda rivoluzionaria vi si riversò il 21 settembre, svillaneggiando il S. Padre, saccheggiando la caserma Serristori (la caserma fu colpita da un attentato terroristico nel 1867 che causò la morte a 25 zuavi della banda musicale e ad alcuni passanti, tra cui una bimba di sei anni, NdR) ed avanzandosi poscia fino al colonnato di S. Pietro, ove erano stati acquartierati gli zuavi. I più forsennati vollero anzi profanare la basilica, ma ne trovarono chiuse le porte. V’era il pericolo che la bordaglia s’avventasse sul Vaticano tanto più che due assalitori e due soldati pontifici caddero colpiti dagli spari; pertanto il card. Antonelli si vide costretto ad invocare l’aiuto dell’esercito piemontese, che s’affrettò ad occupare quel quartiere fino alle porte del Vaticano, occupando pure ben tosto il castello S. Angelo. Pio IX rimase prigioniero nel proprio palazzo.
Tratto dal libro: Pio IX e il suo pontificato. Sullo sfondo delle vicende della Chiesa nel secolo XIX, di Giuseppe Sebastiano Pelczar, vol. II, pagg. 556-560, Torino 1910, Libreria G.B. Berruti.
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