Frammenti di verità sul “Risorgimento” e l’unificazione italiana continuano ad affiorare nonostante il clima di regime imposto con le celebrazioni per i 150 anni, del quale la recente legge che rende obbligatorio lo studio dell’Inno di Mameli e del Risorgimento a scuola costituisce un esempio eloquente.
Il quotidiano di Catania “La Sicilia” (19.9.2012) ha dedicato di recente un ampio articolo del giornalista Dino Paternostro ad un episodio di repressione post-unitaria di inaudita ferocia, semisconosciuto al grande pubblico e pochissimo investigato dagli studiosi.
La rivolta del “Sette e Mezzo”, chiamata così per la sua durata, scoppiò a Palermo nella notte tra il 15 ed il 16 settembre 1866.
A combattere il nuovo governo piemontese, sei anni dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala che dette inizio all’invasione del Regno delle Due Sicilie, si trovarono fianco a fianco – scrive il quotidiano – «molti renitenti alla leva, molti disertori, diversi ex impiegati borbonici, preti che avevano avuto i beni ecclesiastici espropriati, ex garibaldini che aspettavano invano l’assegnazione delle terre, e mazziniani delusi. Un mix molto eterogeneo –aggiunge il giornale – unito da un profondo odio contro il governo formalmente italiano, che si comportava come una truppa di occupazione straniera. Gridavano slogan confusi e contraddittori: “Viva Francesco II, Viva Santa Rosalia, Viva la Repubblica”».
Il retroterra della rivolta è stato analizzato da Fernando Mainenti in un articolo apparso nel 2007 (cfr. “I pugnalatori di Palermo e la rivolta del ‘Sette e Mezzo’ del 1866”, in Agorà n. 29-30/2007). «La Sicilia nel 1860 aveva una bilancia commerciale con un attivo di 35 milioni, mentre quella del Piemonte non toccava i 7 milioni.
L’isola apportò nel nuovo bilancio dello Stato un debito pubblico di sei milioni e 800 mila lire, a confronto del Piemonte liberatore che certificò un debito di 62 milioni e 36 mila lire».
La legge Siccardi, con la quale il neonato Stato italiano confiscò i beni delle Congregazioni religiose che tradizionalmente assistevano le classi popolari, costituì un’ulteriore rapina per l’Isola. In Sicilia furono venduti all’asta 230 mila ettari di terre, divisi in 6175 fondi “ottimamente amministrati”.
Lo Stato incassò 250 milioni in contanti. A questo va aggiunta la vendita dei beni demaniali, dalla quale la nuova amministrazione unitaria incassò 370 milioni. Inoltre dal febbraio 1861 in Sicilia era stata introdotta la leva militare obbligatoria, cancellando il privilegio antico, confermato dai Borbone, dell’esenzione.
La leva militare piemontese, estesa all’Italia unificata, prevedeva 10 anni di servizio militare in fanteria, 12 in cavalleria, 14 in Marina, contribuendo a distruggere le famiglie siciliane e la loro economia.
Tutti i figli maschi dovevano prestare servizio militare al Nord, uno strumento per l’indottrinamento e per disporre di forza armata per la repressione contro i meridionali insorti.
Il 2 dicembre 1860 Vittorio Emanuele II si recò in visita a Palermo, dove comandava il luogotenente Massimo Cordero di Montezemolo (nella storia italiana i cognomi sono ricorrenti, n.d.r).
Secondo Mainenti fu decisa allora una strategia di provocazioni che serviva a giustificare l’adozione del pugno di ferro. Agenti governativi furono infiltrati tra i tanti scontenti per spingerli ad atti inconsulti. «Da questo complotto – scrive Mainenti – nacque un primo episodio criminale, che diede inizio nell’Italia post-unitaria alle cosiddette “stragi di Stato”».
Nell’ottobre 1862 furono accoltellate in diversi punti della città 13 persone con una tecnica terroristica. Una di esse morì per la gravità delle ferite riportate. La polizia arrestò un lustrascarpe, Angelo D’Angelo, di 38 anni. M
a l’inchiesta si svolse tra omissioni e manipolazioni.
Il processo cominciò l’8 gennaio 1863 a Palermo. L’accusa per gli arrestati era di tentato omicidio con l’aggravante di “attentato diretto alla distruzione e cangiamento dell’attuale forma di governo”. Si voleva far credere che la mano degli accoltellatori fosse stata armata dal partito borbonico. Il Procuratore Guido Giocosa, un magistrato torinese, dopo il processo si dimise.
Il processo si concluse con tre condanne a morte per ghigliottina, otto condanne ai lavori forzati a vita ed una condanna a venti anni.
Due mesi dopo, nella notte tra il 12 e il 13 marzo 1863, scattò l’ondata repressiva con centinaia di perquisizioni dei carabinieri e 60 mandati di arresto con l’accusa di “organizzazione eversiva e attentato alla sicurezza dello Stato”. Gli arrestati erano tutti oppositori del nuovo regime piemontese, le prove contro di loro erano state costruite dalla polizia.
Ma il fuoco dell’insurrezione continuava a covare ed a settembre del 1863 il governo inviò in Sicilia il generale Giovanni Govone, che aveva già preso parte alla repressione del cosiddetto brigantaggio eseguendo centinaia di condanne a morte. Govone fece tagliare l’acqua a molti paesi e fece mettere a fuoco le case dei parenti dei renitenti alla leva fuggiti sulle montagne.
Ci furono episodi di ferocia disumana: un giovane sordomuto di 20 anni – scrive Mainenti – ricevette 154 bruciature sul corpo perché ritenuto un simulatore. Govone ebbe in premio l’onorificenza sabauda della Croce di San Maurizio e Lazzaro. Ma la rivolta ormai stava per esplodere.
Il 1 agosto 1866 a Palermo si costituì un comitato segreto per organizzarla. Il 15 settembre bande armate calarono dalle montagne su Palermo. «Erano tutti uniti – scrive Fernando Mainenti – da un profondo odio antisavoiardo».
Gli insorti attaccarono i posti di polizia, il dazio, i depositi di armi. Un drappello di bersaglieri fu decimato, 300 soldati piemontesi, con il maggiore Giulio Filastri che li comandava, furono uccisi.
A Partinico gli insorti intercettarono una compagnia di granatieri, che fu massacrata. Sui muri di Palermo comparvero manifesti che incitavano alla rivolta armata contro “la banda di ladri che ha governato l’Italia per sei anni”.
A Palermo i rivoltosi restaurarono i simboli borbonici e restituirono i nomi pre-unitari a strade e palazzi. Il 17 settembre insorsero numerosi paesi, dove il tricolore fu fatto a pezzi e furono issate di nuovo le bianche bandiere con i gigli.
La reazione piemontese fu rapida e spietata. Il 18 settembre dalla nave “Rosolino Pilo” furono sbarcati mille bersaglieri, il 21 sbarcarono di rinforzo 6 mila soldati di fanteria. La flotta piemontese, che aveva in porto sei fregate e due corazzate, cominciò un bombardamento indiscriminato contro Palermo che provocò centinaia di morti e migliaia di feriti.
Il 22 settembre sbarcò il generale Raffaele Cadorna, che era reduce della sconfitta a Custoza, al comando di tre battaglioni di bersaglieri. «Fu la rappresaglia più feroce che la storia di Sicilia ricordi – scrive Mainenti – i bersaglieri sparavano a vista contro i cittadini inermi, contro chiunque fosse stato sorpreso in strada. In un solo giorno fecero 2 mila morti. Circa 3 mila 600 furono gli arrestati». Il 23 settembre 80 insorti trovati con le armi in pugno furono gettati in una fossa comune e mitragliati. Le fucilazioni continuarono per mesi.
Lo stato d’assedio restò in vigore fino al 31 gennaio 1867. Delle vittime della repressione non fu pubblicato alcun bilancio ma, secondo stime, i morti furono circa 35 mila.
La stampa dell’Italia unificata nascose la notizia del massacro. Più spazio dettero all’accaduto i giornali di Francia, Spagna ed Inghilterra, ma presentando la rivolta come filo-repubblicana e gli insorti come “briganti”.
Quasi 150 anni dopo, della rivolta siciliana del “Sette e mezzo” e dello spaventoso massacro che ne seguì non c’è praticamente traccia nei libri di storia. Questa pagina tremenda dell’Italia post-unitaria non rientra nei programmi delle scuole italiane, dove invece, grazie ad una legge approvata quasi all’unanimità dal Senato (ha votato contro solo la Lega Nord) ci si accinge a studiare obbligatoriamente l’Inno di Mameli ed il “Risorgimento”.
In una lectio magistralis tenuta alla Società siciliana di Storia Patria, il 9 settembre 2011, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, lo storico marxista Lucio Villari ha definito la rivolta del “Sette e mezzo” “una rivolta clerico-mafiosa” ( la Repubblica, 18.9.2011).
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