La Civiltà Cattolica, anno XX, serie VII, vol. V (fasc. 451, 22 dec. 1868) Roma 1869, pag. 45-63.
R. P. Francesco Berardinelli S.I.
LA DOTTRINA DI S. ANTONINO
ARCIVESCOVO DI FIRENZE
INTORNO
ALLA INFALLIBILITÀ DE' PAPI
E LA LORO SUPERIORITÀ SUI CONCILII [*].
(Parte V)
IX.
Si espongono le tre ultime difficoltà del Bossuet; e si risponde a due di esse.
La seconda e la terza di queste sentenze hanno con altri luoghi della Somma qualche riscontro o diretto o indiretto; e perciò innanzi di esaminare il contesto del capitolo, da cui il Bossuet ha ricavato sì esse come la prima, ci conviene studiarle separatamente per cercare il valore, che possono avere nel rimanente della dottrina del Santo.
Più di una volta il santo dottore si fa a studiare il caso, quando per la infermità della umana natura, il Capo della Chiesa dimentico della santità ed eccellenza del suo grado, 1° si lasciasse trascinare dalle passioni a gravi eccessi; 2° trascorresse sino all'enormezza di ostinarsi in qualche domma ereticale.
La sua dottrina per la prima ipotesi, come la esponemmo in altro luogo [2], è che il Pontefice, per quanto si voglia supporre maculato di colpe, non può mai esser deposto, non essendo in terra nessuna potestà nè di re, nè di popoli, e neppure di concilii universali, che ciò possa fare; non solo perchè egli, finchè è Papa, ha superiorità sopra tutti, ma perchè la sua superiorità viene da Dio, il quale ha riserbato a sè il giudizio della prima Sede. Dopo questa sentenza, che, com'è chiaro, propugna nel modo più luculento la autorità del Papa sopra i concilii generali; il Santo si oppone la difficoltà: che dunque una sì grave sciagura della Chiesa sarebbe irrimediabile. Egli risponde, che vi ha de' rimedii possibili, ai quali fa uopo ricorrere; e tra questi in primo luogo pone il dovergli resistere nelle cose illecite, siccome fece Paolo con Cefa, ed anche, secondo l'esempio del medesimo, riprenderlo rispettosamente (honeste). «E però, soggiunge, se volesse dare ai suoi parenti il tesoro della Chiesa, o il patrimonio di S. Pietro, o distruggerne il tempio, non si dovrebbe obbedirgli [3]».
Analogamente a questa dottrina, esposta in simil guisa in altri luoghi, può essere inteso il testo allegato dal Bossuet, nel quale è detto, che in quelle cose che concernono lo stato universale della Chiesa, il Papa non può disporre contro i decreti de' generali concilii, se così disponendo venisse a cambiar la faccia allo stato di essa Chiesa. Vorrebbe dire in sostanza, che non gli è lecito derogare allo disposizioni de' concilii, se da questo dovesse provenire grave danno a tutta la costituzione esteriore della Chiesa; come sarebbe se disperdesse il tesoro sacro, o si spogliasse, per avanzare i parenti o altro che fosse, del Dominio temporale. Nè da ciò proviene in nessun modo, che il Papa, non essendo libero di violare così fatti decreti, sia per questo inferiore ai concilii. Perciocchè essendo quegli atti illeciti per sè stessi, in quanto di lor natura tornerebbero a gran detrimento della universalità de' fedeli; questa lor qualità è antecedente ad ogni decretazione di concilii, e coarta la libertà del Papa anche nella ipotesi che niuna legge positiva li proibisse.
Questa spiegazione, per la quale è da supporre la possibilità effettiva di simili colpe ne' Pontefici, si fonda sopra la parola disponere, la quale, secondo il contesto, non indica per sè un atto della potestà Pontificia in quanto tale, ma un atto in qualunque modo posto dal Pontefice. Che se alla detta parola vuolsi attribuire il significato, che nè l'è proprio, nè regge nel contesto, di definire, di decretare ecc. in qualità di Maestro e Capo della Chiesa; in questo caso, il passo non ha rispetto soltanto alla questione della superiorità dei Papi sui concilii, ma anche all'altra della loro infallibilità. Ma come dall'una parte, per una ragione analoga alla testè addotta, non ne rimane impugnato il primo privilegio, così dall'altra ne è piuttosto raffermato il secondo. Di fatto il senso delle citate parole in questa ipotesi sarebbe, che il Papa in qualità di Papa non può promulgare decreti, rovinosi allo stato della Chiesa universale. Or che può mai essere, nella dottrina del Santo, questa felice impotenza, se non il privilegio appunto della infallibilità, o una immediata conseguenza di esso?
L'altra sentenza, che ci siamo proposto di esaminare nel presente capo, è quella la quale dice, che «quando il Papa fosse eretico o sospetto di eresia, non pare che spetti a lui convocare il concilio.» La conseguenza, che il Bossuet, come abbiam veduto, ne deduce, è che dunque vi ha casi, nei quali il concilio non solo può adunarsi senza l'autorità del Papa, ma anche giudicare delle cose della fede. Ma oltre a questa, due altre ne tireremo noi in servigio di lui: la prima è, che dunque la confermazione pontificia non è sempre necessaria, perchè i decreti dei concilii abbiano valore anche in materia di fede: e quindi alcune volte potrebbe verificarsi la infallibilità nei concilii indipendentemente dal concorso del Papa. La seconda conseguenza è, che per contrario il Papa può diventare eretico, non solo nella vita privata, come potrebbe intendersi pel presente testo; ma anche col pubblico magistero, cioè insegnando l'eresia nella Chiesa, com'è detto in un luogo parallelo. Recitiamolo in sussidio dell'argomentazione del Bossuet :«Se sia un fatto notorio (dice il Santo sopra l'autorità di Agostino d'Ancona, teologo assai reputato del secolo preeedente); se sia notorio, che alcun Papa defonto abbia, mentr'era vivo, insegnato o nutrito nella Chiesa qualche eresia o domma perverso, nè intanto ne abbia fatto l'ammenda ; può essere eziandio dopo la morte accusato e condannato [4].» Or questa ipotesi, che il Santo ed Agostino d'Ancona dànno per possibile, distrugge, com'è chiaro, il privilegio della infallibilità pontificia.
Rispondiamo in primo luogo alla obbiezione, che il Bossuet ricava dal testo da lui prodotto, e poi a quelle che ne abbiam tratte noi stessi.
Opponeva il Bossuet, che almeno nella ipotesi che il Papa sia diventato eretico, può, secondo il testo, adunarsi il concilio senza la pontificia convocazione, e per conseguente giudicare senza il Papa di materie concernenti la fede. Concediamo l'antecedente; ed anzi aggiugniamo, che se nel presente testo la cosa viene espressa col verbo dubitativo videtur, nel luogo parallelo è affermata positivamente [5]. Quanto poi al conseguente, che il concilio, benchè acefalo, possa giudicare di materie concernenti la fede, posto che esso per l'anzidetta ragione si è congregato legittimamente, non è da metterlo in dubbio. Perciocchè, come ci è accaduto di notare altre volte, i Padri adunati nei concilii generali hanno vera autorità di giudici, e non sono semplici consultori. Non vi è dunque difficoltà a poterla usare in un concilio, che si fosse legiltimamente riunito, avvegnachè senza l'autorità del Papa per la causa straordinaria che si suppone [6]. Ma da questa autorità di veri giudici all'altra, tanto più divina, di giudici infallibili ci corre gran tratto. Or quello che il Bossuet dovrebbe provare si è, che il concilio adunato per l'anzidetta ipotesi, non solo possa giudicare legittimamente di materie concernenti la fede, ma possa giudicarne per maniera infallibile. Ma egli nol prova, nè può provarlo. Sappiamo anzi che il concilio di Costanza, congregatosi legittimamente per eleggere un Papa certo, obbligando alla rinunzia i tre Pontefici, ciascuno dei quali pretendeva di essere il vero Capo della Chiesa; quel concilio, diciamo, anche prima della elezione di Martino V, definì molte cose in materia di fede e condannò non poche proposizioni: ma nè quelle definizioni nè queste condanne furon tenute infallibili per l'autorità del concilio, innanzi che fossero da Martino confermate. È dunque in ogni caso necessaria l'approvazione pontificia, acciocchè i decreti dei concilii, riguardanti la fede, abbiano l'ultima infallibile e irrevocabile sanzione. E con ciò è risposto non solo alla conseguenza che il Bossuet deduceva, ma anche alla prima delle due obbiezioni, che ci siamo opposti noi medesimi.
Resta la seconda, a cui dà fondamento il testo parallelo, dov'è detto poter accadere che il Papa insegni eresie e dommi perversi nella Chiesa: la quale ipotesi non si può ammettere come possibile da chi crede nella infallibilità personale dei Papi, come maestri della Chiesa. Rispondiamo. La frase insegnare perversi dommi nella Chiesa non esprime per sè pubblico magisterio, esercitato con forme solenni per istruire i fedeli. Se così fosse, non potrebbe applicarsi agli eretici, i quali se insegnano erronee dottrine nella Chiesa, non lo fanno però in qualità di pubblici maestri, e molto meno con forma solenne. Il più che potrebbe concedersi è, che appropriata al Papa, per quello che suonano le nude parole, tanto è capace dell'uno quanto dell'altro significato. Or quale dei due fu il senso inteso da S. Antonino? Quello certamente, che è solo conforme alla sua dottrina, ed a quella dell'autore da cui ha preso in prestanza le parole.
E per rispetto al nostro Santo, abbiam veduto in quanti luoghi esso propugna la infallibilità personale dei Romani Pontefici, quando esercitano solennemente l'uffizio di Maestri della Chiesa. E pure assai altri passi abbiam lasciati da parte, che avremmo potuto adunare, se fosse stato bisogno di maggior luce.
Per ciò poi che riguarda Agostino d'Ancona, è noto che egli fu uno de' più caldi difensori de' privilegi del Pontificato romano; e se alcuna taccia gli fu data con qualche fondamento, questa fu di esser trascorso, rispetto a qualche punto, oltre i limiti del vero. In particolare, per la presente quistione, la sua dottrina è quella stessa di S. Antonino, e possiam dire la comune dei dottori; e la troviamo maestrevolmente esposta nella sua Somma De ecclesiastica potestate, pochi fogli appresso al luogo citato da S. Antonino [7]. Ne recheremo per saggio qualche tratto, anche perchè si conosca quanto uniformemente non pure sentissero, ma ancora scrivessero i più insigni teologi del medio evo. La Questione X ha per titolo: Quod ad Papam spectat de fide et de haeresi determinare; ed è divisa in sette articoli, di ciascuno de' quali è conseguenza immediata, o immediato prosupposto, la infallibilità personale de' Romani Pontefici, nel loro pubblico e solenne Magistero. Nel primo di questi prende a dimostrare, che appartiene al Papa definire le verità da credere nella Chiesa. Messo pertanto il fondamento, che essendo una la fede, una parimente debba esserne la regola, argomenta nel seguente modo: Ad illum pertinet determinare quae sunt fidei, qui est caput Ecclesiae. Talis autem est summus Pontifex, successor Petri, pro cuius fide singulariter oravit Salvator: e recita il noto testo di S. Luca. Conferma poi l'argomento coll'autorità dell'antico Testamento, recando in esempio Moisè, che fu in certa guisa figura del Romano Pontefice. Istud autem, egli dice, satis figuratum est Exodi XIII, ubi dictum est Moysi, qui fuit rector Iudaeorum, sicut Papa est rector omnium christianorum: «Esto tu populo in his quae ad Deum pertinent, ut ostendas ei ceremonias et ritus colendi Deum.» Sicut ergo quaestiones omnes emergentes de lege et de cultu Dei reservabantur Moysi determinanda; sic omnia quae sunt fidei christianae Papae est proprie determinare. Donde inferisce nel secondo articolo che, per la ragione de' contrarii, anche al Papa s'appartiene definire se una proposizione sia eretica o no.
Non è necessario avvertire che tutta questa argomentazione conchiude evidentemente per la infallibilità personale de' Romani Pontefici, in quanto sentenziano come tali; poichè in caso diverso converrebbe attribuire a questo chiaro teologo la ereticale dottrina, che nella fede professata dalla Chiesa possa cader l'errore. Quindi conchiuderemo che, essendo da S. Antonino e dal d'Ancona, che esso cita, così dichiaratamente professata la dottrina della infallibilità personale de' Romani Pontefici; è assolutamente impossibile che quando ammettono il caso, che il Pontefice possa insegnare nella Chiesa perversi dommi, intendano che il possa con pubblico e solenne magisterio.
X.
Si risponde alla più grave delle tre difficoltà ultime del Bossuet. Si fa a questo proposito l'esame critico di due paragrafi della Somma, per dimostrare con argomenti, anche intrinseci, che sono apocrifi.
E prima bisogna convenire che quella frase adoperata nel testo: «Nelle cose concernenti la fede» In concernentibus fidem, non può essere determinata a significare unicamente le proposizioni, che si conoscono esplicitamente di fede nella Chiesa e come tali si professano. Primieramente, perchè non concernono solamente la fede le proposizioni di questa fatta, ma anche quelle altre che, sebbene non sieno definito espressamente, pur si contengono nella dottrina rivelata. Secondariamente, perchè i concilii ordinariamente si raccolgono, non già per definire un'altra volta le verità della prima specie, ma per aggiungere il suggello dell'autorità infallibile alle seconde, e premunire così i fedeli che non si lascino arreticare dagli errori, onde i novatori si adoperano di alterarle. In terzo luogo finalmente, perchè per rispetto alle verità già definite nè si può dire che il Papa sia superiore al concilio, nè che il concilio sia superiore al Papa: sì l'uno e sì l'altro sono, allo stesso modo che qualsivoglia fedele, suggetti alla divina autorità già manifestatasi colla definizione in altro tempo fatta.
Ciò posto, quando si afferma che il concilio è superiore al Papa nelle cose che concernono la fede, si afferma che l'autorità del concilio sta sopra all'autorità del Papa in tutte le quistioni, che si possono agitare in quella generale adunanza intorno al senso della parola di Dio, o sia contenuta nella santa Scrittura, o sia tramandata dalla Tradizione, dovunque il senso di cui possa disputarsi non sia ancora stato determinato da un decreto precedente della Chiesa. Adunque in primo luogo l'autorità del concilio sopra quella del Papa è pel presente testo assicurata, almeno in ciò che più importa, e costituisce il maggiore e più divino privilegio della potestà della Chiesa. Ma oltre a ciò, ne conseguita in secondo luogo, che sarà infallibile il concilio e fallibile il Papa. E vaglia il vero: se il Papa nelle materie spettanti alla fede è inferiore al concilio, ciò viene a dire che nelle quistioni di questo genere, il Papa è obbligato di stare alle resoluzioni del concilio, sotto pena, se altrimenti facesse, di mancare in cosa gravissima alla sommissione dovuta al suo superiore. Ma se è ciò, il concilio è regola di fede, antecedentemente all'approvazione che faccia il Papa delle sue definizioni: il concilio dunque è infallibile indipendentemente dal Papa. Il Papa dall'altra parte, per necessaria conseguenza, sarà fallibile. Perciocchè se il concilio è regola di fede pel Papa; il Papa non potrà essere regola di fede pel concilio: altrimenti si verificherebbe questa contraddizione, che nel risolvere una medesima quistione di fede, in caso di divergenza, il Papa sarebbe obbligato di stare alla decisione del concilio, ed il concilio a quella del Papa. Ma se il Papa non è regola di fede per rispetto al concilio, non può esserlo neppure per rispetto al rimanente de' fedeli. Adunque dal citato testo séguita che il Papa è fallibile.
Or come mai il Bossuet, il quale abbiam veduto come si attacca alle filiggini per far apparire S. Antonino consenziente alla dottrina gallicana; se la passa così leggermente sopra quell'inciso, che, spiegato secondo il senso ovvio delle parole, da sè solo gli darebbe vinta la causa? Che se poi avesse voluto procedere innanzi nelle sentenze che seguono nel contesto da cui l'ha tolto, oh qual messe gli abbondava per provare qualche cosa di più, che non sono le semplici proposizioni gallicane! Ma il lettore ci ha già prevenuti. Noi siamo al celebre paragrafo VI del capo II, titolo XXIII, esaminato dal chiarissimo cavaliere Palermo nel Codice degli autografi del Santo, che per gli argomenti esposti nella sua monografia da noi pubblicata nel precedente quaderno, lo dichiara corrotto da qualche impostore. Ed appunto perciò il Bossuet, che era sinceramente cattolico, non potè insistere troppo sopra di quel contesto. Trascriviamo intanto il tratto del citato paragrafo, dove la mano dell'impostore si fa più apertamente riconoscere, omesso soltanto l'ingombro delle citazioni, ammassate senza modo e all'impazzata per dar credito agli errori. Vedremo di poi se può essere attribuito a S. Antonino. Eccolo come si legge.
In his quae non dependent ex plena potestate Papae non est simpliciter dicendum quod Papa sit supra statuta concilii. Ideo in concernentibus fidem Concilium est supra Papam. Unde Papa non potest disponere contra disposita per Concilium in huiusmodi. Hinc est quod Concilium potest condemnare Papam de haeresi. Potest enim esse haereticus Papa, et de haeresi iudicari. Et dicunt doctores, quod Concilium est iudex: puta tamen, quod si Papa moveretur melioribus rationibus et auctoritatibus quam Concilium, standum tunc esset sententiae Papae. Nam et Concilium errare potest, sicut alias erravit in facto matrimonii inter raptorem et raptam, declarans posse esse matrimonium. Et dictum Hieronymi melius sentientis fuit postea praelatum statuto Concilii. Nam in concernentibus fidem dictum etiam unius privati esset praeferendum sententiae Papae, si melioribus rationibus et auctoritatibus novi et veteris Testamenti moveretur quam Papa. Nec obstat si dicatur quod Concilium non potest errare, quia Christus oravit pro Ecclesia sua ne deficeret. Nam licet Concilium generale totam Ecclesiam universalem concernat; tamen ibi vere non est universalis Ecclesia, sed repraesentative; quia universalis Ecclesia constituitur ex collectione omnium fidelium. Unde omnes fideles terrae constituunt totam universalem Ecclesiam, saltem cuius caput et sponsus est ipse Christus. Papa autem est vicarius ipsius Christi, et non est verum caput Ecclesiae... Et ista Ecclesia est quae non potest errare. Unde possibile est quod tota fides remaneret in uno solo; ita quod verum est dicere, quia fides non deficit in Ecclesia; sicut ius universitatis potest residere in uno solo, ceteris peccantibus.
Esaminando attentamente e paragonando fra loro le singole sentenze di questo brano, si scorge ad evidenza il malizioso artifizio dell'autore, che da prima arrischia qualche proposizione di ambiguo significato, di poi una seconda anche possibile a spiegare in buon senso, e così qualche altra ancora, e finalmente senza ritegno trabocca tutto il veleno della sua empietà. Comincia di fatti con dire che il concilio è superiore al Papa; ma limita così fatta superiorità alle cose concernenti la fede; ed anzi non puoi decidere se per cose concernenti la fede voglia intendere i dommi già definiti in altri concilii, o veramente quistioni riguardanti materie di fede, che debbansi agitare nel concilio. La frase, come abbiamo provato, indica per sè questo secondo senso; ma alcuni aggiunti del contesto sembrano persuadere il primo. Parimente è detto, che il concilio può giudicare il Papa che fosse caduto nell'eresia; e cita a questo proposito la sapienza comune a que' tempi, che il Papa, come persona particolare, potesse diventare eretico. Ma aggiugne subito, che se il Papa producesse nel concilio ragioni e autorità migliori di quelle del concilio stesso, dovrebbe starsi alla sentenza del Papa. Il caso dunque non è più una manifesta eresia congiunta colla pertinacia, che è la sola ipotesi, nella quale i dottori concedevano che il concilio potesse giudicare il Papa. Invece è una questione, non ancor risoluta, per rispetto alla quale potrebbe aver ragione il Papa e aver ragione il concilio. Così ancora poche righe appresso spinge molto più innanzi l'ardire, affermando che, nelle cose della fede, la sentenza anche di un privato dev'essere preferita alla sentenza del Papa, se il privato ha per sè migliori ragioni, dedotte dallo scritture, che non abbia il Papa. Or tu non sai, se qui il Pontefice è considerato come persona particolare o come Capo della Chiesa, potendo la espressione riferirsi alla prima o alla seconda qualità. Ma più facilmente crederai, che vi è intesa la seconda, in primo luogo se osservi messi in opposizione i due termini persona privata e Pontefice: il Pontefice dunque non sembra considerato come privata persona. In secondo luogo se poni mente all'altra proposizione, che seguita poco appresso, vale a dire che anche il concilio può errare nelle cose della fede. Ora se può errare il concilio, il quale, secondo l'autore, nelle cose della fede è superiore al Papa, non potrà errare il Papa ch'è inferiore?
A quest'artifizio degli equivoci è aggiunto un altro non meno furbesco nella collocazione del brano interpolato. Esso è posto nel bel mezzo del paragrafo, fra due tratti di dottrina, generalmente buona e sicura, massime il secondo. Onde non fa meraviglia, che gli editori, anche più addottrinati nelle sacre discipline, come fu certo il Ballerini, non si fossero accorti dell'inganno. Essi interpretarono in bene le sentenze, che giocano artatamente nell'equivoco, e quelle altre, che sono evidentemente ree, ma pur hanno il contrapposto in bene nel rimanente delle dottrine del Santo, attribuirono forse a inavvertenza o a manco di proprietà nell'esprimersi. Ipotesi che si troveranno amendue impossibili, sì quella della benigna interpretazione delle sentenze equivoche, sì l'altra della inavvertenza o mancanza di proprietà che voglia supporsi in S. Antonino; se si esamina il nesso logico delle sentenze, cominciando però dall'ultima e procedendo con ordine inverso. Per maggior chiarezza segneremo con numeri le proposizioni, chiamando prima quella che sta in ultimo, e così via via.
I.a Proposizione. «È una ipotesi possibile ad accadere, che la fede si perda universalmente nella Chiesa, e rimanga in un solo individuo.» Ma se questo è possibile, è possibile per conseguenza non solo che la Chiesa perda le sue proprietà essenziali, che sono di essere una, santa, cattolica ed apostolica; ma che essa stessa manchi del tutto e sotto qualsivoglia senso anche più largo, non potendosi verificare nessun concetto di Chiesa, dove non è moltitudine in alcun modo adunata. Or questo è contro alla promessa di Cristo, il quale impegnò solennemente la sua parola, per assicurarci che la Chiesa fondata da lui sarebbe insieme infallibile e indefettibile. E così fatta promessa è per maniera radicata nel Cristianesimo, che se le varie sètte l'hanno diversamente interpretata; niuna però si è ardita di negarla assolutamente.
II.a Proposizione. «Tutti i fedeli della terra costituiscono tutta la Chiesa universale, almeno quella di cui lo stesso Cristo è Capo e sposo. Il Papa poi è vicario dello stesso Cristo, ma non è il vero Capo della Chiesa. Or questa Chiesa, (cioè quella di cui il vero Capo non è il Papa, ma Cristo) è la Chiesa che non può errare.» Qui si distinguono evidentemente due Chiese; l'una composta di tutti i veri fedeli sparsi pel mondo, della quale il vero Capo è Cristo; e solo a questa fu fatta la promessa della infallibilità: bene inteso che una tale promessa può salvarsi, anche supposto che la vera fede rimanga in un solo individuo! L'altra Chiesa è quella che il Papa, Vicario di Cristo, governa, e della quale per conseguenza può dirsi Capo. La prima è necessariamente invisibile, la seconda visibile: la prima non può errare (nel modo spiegato); la seconda sì. Questa proposizione si trova quasi ne' medesimi termini, certo nella sostanza, fra gli errori di Vicleffo e di Uss, condannati dal concilio di Costanza. Da essa l'interpolatore di S. Antonino fa conseguitare con un Unde, quella che da noi fu esposta sotto il numero I°, e dalla medesima è determinato il vero senso dell'altra, segnata col numero III°, che soggiugniamo.
III.a Proposizione. «Benchè il concilio generale riguardi tutta la Chiesa, non si trova però ivi la Chiesa universale, ma vi è solo rappresentata; perchè la Chiesa universale risulta dalla collezione di tutt'i fedeli.» Innocentissima nelle parole: ma tale non è certamente il concetto che l'interpolatore v'intende. Egli deduce da essa, come abbiam detto, con un Unde la proposizione del n.° II°. I sensi dunque che tra l'una e l'altra s'inchiudono sono i seguenti: 1.° Il concilio e il Papa possono appartenere e possono non appartenere a quella Chiesa invisibile, che è detta infallibile. 2.° I Vescovi e il Papa, per conseguenza, non hanno nessun dritto speciale al magisterio della fede. 3.° Quindi non si può mai esser sicuri della verità di quelle cose, che nella Chiesa visibile anche da' concilii ecumenici si propongono a credere. Di qui risulta il vero significato delle altre tre proposizioni che nel testo precedono, e noi seguiteremo a numerare coll'ordine inverso; e sono:
IV.a Proposizione. «Nelle materie della fede, la sentenza di un uomo privato è da preferire alla sontenza anche del Papa, se quegli produce ragioni migliori, ricavate dalle sacre Scritture». Questa proposizione, oltre a negare la infallibilità del Papa, costituisce, com'è chiaro, il fondamento del libero esame, che fu poi nel vegnente secolo la base del Protestantesimo. È legittima conseguenza della precedente.
V.a Proposizione. «Il concilio generale anch'esso può errare.» E perciò se nelle materie che riguardano la fede insorge disparere tra il concilio e il Papa, la questione è da decidere secondo il maggior peso ed autorità delle ragioni. La proposizione tuttavia non dice chi sarà il giudice tra il concilio e il Papa! Proviene anche questa logicamente dalla segnata num. III.°
VI.a Proposizione. «In quelle cose che si attengono alla fede, il concilio è superiore al Papa.» Il che non è da intendere in quanto il concilio abbia autorità infallibile; ma piuttosto per la presunzione che la ragione stia dalla parte de' più. Di fatto l'autore dice che, se il Papa ha migliori ragioni, dee prevalere al concilio. L'esposta proposizione è anch'essa conseguenza della terza.
Questa che abbiamo esposta è la genesi logica (almeno obbiettivamente) de' diversi capi di dottrina, compresi nel brano interpolato. Essa è come la quint'essenza degli errori di Uss, di Vicleffo, e dello stesso Lutero; ed anzi più sovversiva del concetto della Chiesa, che non quella dei mentovati eresiarchi. L'interpolatore si è adoperato maliziosamente di celare il nesso delle varie proposizioni, acciocchè staccate l'una dall'altra non apparissero nella lor vera e dichiarata reità, e potessero avere spaccio coll'autorità del nome di S. Antonino.
Poche parole aggiugneremo sul brano interpolato del paragafo VII, meno reo certamente in paragone dell'altro, ma forse per ciò stesso di più pericolosa dottrina. Esso è incastrato col medesimo artifizio, tra sentenze antecedenti e conseguenti per la massima parte specchiatamente cattoliche, e si fa schermo del solito scudo degli equivoci. Ma prima di esaminarlo recitiamolo testualmente.
Dicunt autem aliqui, quod Papa negligente et nolente convocare Concilium ad locum idoneum pro aliqua causa ardua imminente, potestas congregandi Concilium spectat primo ad omnes Cardinales, qui post Papam sunt maiores clerici omnibus aliis quibuscumque; et quia censentur unum corpus cum eo, quasi sede vacante, videtur ad eos spectare talis potestas. Secundo spectat ad Patriarchas, praecipue ad Constantinopolitanum, cuius sedes est prima post romanam. Quod tamen est intelligendum cum catholicus est Patriarcha. Tertio ad imperatorem. Quarto ad reges. Quinto ad alios principes. Nam potestas unius devolvitur gradatim ad alium propter negligentiam. Vel dicamus quod duae partes Concilii, in aliquo loco idoneo congregatae, poterunt et alios convocare. Si autem duae partes non sunt congregatae, tunc videtur habere locum ordo supra positus.
Qui è professata una dottrina del tutto scismatica, la quale benchè da principio sia recata come opinione di alcuni: Dicunt aliqui; pur dopo poche linee l'autore la fa sua con quelle frasi: vel dicamus etc., tunc videtur habere locum etc. La dottrina è, che un concilio generale può essere legittimamente adunato non solo dai prelati ecclesiastici, ma anche dai principi laici, senza l'autorità e a malgrado del Papa, purchè vi sia un'ardua cagione imminente che induca a farlo. È il caso del concilio di Basilea, che sebbene da prima fosse stato convocato legittimamente, pure poco dopo fu dichiarato sciolto da Eugenio IV; ed esso ciò non ostante si ostinò contro l'autorità pontificia a voler proseguire le sessioni, adducendo per pretesto la riduzione degli eretici di Boemia, che era la causa ardua imminens, da cui si dicea legittimato.
Nè questo è il solo punto di convenienza fra la dottrina dell'interpolatore e quella del concilio di Basilea. Vedemmo di fatti nel capo VII, che una delle ragioni del dissidio fra quell'assemblea ed il Pontefice fu il luogo: il Pontefice ordinava che il concilio si dovesse celebrare in Bologna, o in qualche altra città dell'Italia; e i congregati non voleano a nessun patto partirsi di Basilea, perchè diceano quello essere l'unico luogo idoneo da trattare, con buona speranza di riuscita, la causa ardua et imminens della riduzione de' Boemi. Inoltre, come il lettore ricorderà, uno de' decreti di quel concilio, sancito nella undecima sessione, fu che nulla si dovesse mutare per rispetto al luogo, se non convenissero le sentenze di due parti del Concilio. E però non verificatasi una tale condizione, rinnovarono i loro ordini non solo a' Cardinali e Prelati, ma anche al Papa, che dovessero senza indugio convenire in Basilea per la celebrazione del sinodo. Or ecco che l'autore del recitato brano ci fa sapere, qualmente, se un concilio si trova per caso già radunato dove che sia, e due parti di esso si accordano a giudicare che quello appunto è il luogo idoneo per esso, si può senz'altro fare la convocazione del rimanente de' prelati, non ostante (già si capisce per gli antecedenti) il dissenso del Papa. Non vi è bisogno d'indovino per intendere, che tutto il brano è una smaccata apologia degli atti illegali e sacrileghi della congrega di Basilea, ed una consecrazione de' suoi scismatici principii. Anzi l'autore di questa scrittura si spinge più oltre. Perocchè il concilio di Basilea ricordava ad ogni tratto la origine legittima della sua convocazione, fatta per l'autorità di un sinodo generale (quello di Siena) e di due Romani Pontefici; mostrando con ciò di ripetere da un tale antecedente tutti i diritti che vantava. Per contrario l'autore del testo non crede punto necessaria la convocazione pontificia, se sopravvenga un'ardua cagione che il Papa non voglia riconoscere; ed afferma che in tal caso all'autorità della intimazione papale può benissimo supplire quella dei prelati, e, in lor mancanza, anche quella dell'imperatore o di altri principi laici.
Or è possibile che S. Antonino, il quale non ebbe difficoltà di qualificare come conciliabolo il sinodo di Basilea, sin da quel tempo che cominciarono i suoi dissidii col Papa [8], sia autore di questa dottrina, tanto più rea della professata dai Basileesi? È assurdo il pensarlo. Certo il Bossuet, per non avere la sembianza ch'ei volesse accettare principii così manifestamente scismatici, lascia da parte tutto cotesto tratto, che saria stato un vero trionfo per la sua tesi, e spizzica dal paragrafo la sola proposizione, che segue immediatamente appresso colle parole: Ubi autem Papa esset haereticus etc., e fu da noi collocata in terzo luogo fra le ultime difficoltà da lui opposte. Conchiudiamo dunque, che messe insieme le ragioni intrinseche esposte da noi e gli argomenti di fatto, ricavati dal cavalier Palermo dal Codice stesso degli autografi del Santo, ne proviene la necessaria e innegabile conseguenza, che i due brani da noi recitati del VI e del VII paragrafo del più volte mentovato titolo e capo, sono certissimamente supposti.
Per contraria ragione, e probabilmente dalla medesima mano, fu soppresso il lungo brano, fortunatamente scoperto dal sopra lodato paleografo nel Codice stesso degli autografi. Ivi è trattata di tutto proposito, e per modo di disputa con un'avversario, la quistione della superiorità de' Papi sui concilii; e vien risoluta in favore dei Papi sì positivamente, con copia di sodi e gravi argomenti, e sì negativamente, colle risposte ineluttabili, che sono date ai sofismi della parte avversa. Or come si saria potuto lasciare questo tratto nel medesimo titolo e forse molto vicino ai paragrafi, interpolati colla contraria dottrina?
Anzi argomentandó dall'esame, eseguito con tanta diligenza dal Palermo, tutto il titolo de Conciliis è stato sconcissimamente manomesso. Questo titolo ha tre soli capi. Gran parte del primo era destinato dal Santo a prender luogo nel titolo XXI, e propriamente nel capo de statu Cardinalium. Il secondo abbiamo veduto quanto è stato guasto e corrotto, per la intrusione de' due tratti pessimamente ereticali e scismatici: ed è da supporre, che altre sentenze equivoche, qua e colà sparse, sieno opera anch'esse dello stesso corrompitore. Il terzo capo, ch'è l'ultimo, reca notato in fronte esser lavoro di un teologo domenicano. Or che rimane del Santo di tutto il titolo? Dall'altro canto è certo, che il foglio ritrovato dal Palermo è piccolo brano di un capitolo chi sa quanto lungo; poichè i capitoli contengono molte questioni, e quello è semplicemente una parte, benchè notabile, di una sola quistione impegnata con un partigiano del concilio di Basilea. Crediamo dunque poter giudicare con ottimo fondamento, che una gran parte di questo titolo è stata sottratta; e cogliendone congettura dal passo scoperto, cotesta porzione sottratta dovea contenere la confutazione dei principii professati in Basilea. Alla qual conseguenza tanto più c'inchiniamo, in quanto il tempo, nel quale il Santo era giunto a questi termini dell'opera, coincide appunto coll'epoca della sommissione poco spontanea dell'antipapa e de' suoi aderenti. Di fatto la detta sommissione ebbe luogo nel 1449; e S. Antonino scrive giusto alla fine del titolo precedente [9]: Et sub nomine Nicolai fuerunt quinque (Summi Pontifices); ideo qui nunc vivit et regnat vocatur Nicolaus V, anno Domini a nativitate 1447 creatus Papa. Egli dunque dettava il titolo de Conciliis tra il 1447 e il 1455, quando accadde la morte di Niccolò. Ed appunto a quest'epoca manifestamente si riferisce la quistione ultimamente rinvenuta.
Nè diciamo però che il capo III, perchè opera di un altro, non potesse dal Santo esser destinato in un modo o in un altro per la sua Somma. Egli qualche altra volta non ha avuto difficoltà di trasfondere in essa, un po' compendiato un po' letteralmente, alcun trattato che afferma egli medesimo esser opera di altro teologo del suo Ordine. Così, a cagion d'esempio, fece nella IV parte, per ciò che spetta la confutazione degli errori dei Fraticelli [10]. Certo è che la dottrina conviene perfettamente con quella di S. Antonino, ed anzi vi ha periodi interi, che si riscontrano colle stesse parole in un altro luogo della Somma [11]. E chi sa che il Santo non lo abbia solo compendiato da alcuna scrittura di qualche suo confratello, e quegli che appose la nota, senza badare a tanto, lo diè a dirittura per opera di un altro? Chi sa ancora che cotesta nota non sia uno sbaglio? Per fermo il trovare un buon tratto di questo capitolo colle stesse parole, o solo mutate alcune poche in un altro luogo certo della Somma, lo dimostra per lo meno non estraneo al Santo.
Ed appunto in questo capo, presso alla fine, si trova quel passo, sopra cui tanto conta il Bossuet, nel quale è detto, che il Papa licet ut persona singularis ex motu proprio agens errare possit in fide... tamen utens concilio, et requirens adiutorium universalis Ecclesiae... non potest errare. Noi mostrammo che niuna conseguenza deriva da queste parole contra il privilegio della infallibilità del Pontefice in quanto tale; ed anzi, esaminando tutto il contesto, ne è piuttosto raffermato. Nondimeno la lezione originale, che ha consilio e non concilio, come attesta il Palermo, e che è riprodotta dai cinque codici manoscritti e da molte stampe, rende più convincente la nostra dimostrazione. Il che diciamo, non perchè nella frase complessiva utens consilio etc. non possa esser compreso il concilio, come uno de' presidii per esercitare l'atto infallibile; ma perchè più chiaramente risulta, che il concetto di essa frase è quello di comprendere in genere tutti i presidii che sono nella Chiesa, pe' quali la definizione pontificia, secondo la promessa di Cristo, debba riuscire infallibilmente vera.
E così poniamo termine a questa controversia, che ci è riuscita più lunga di quello che credevamo. Ma come noi non ci pentiamo della nostra fatica; così speriamo che ai lettori non debba increscere il travaglio di averci letti.
NOTE:
[*] V. il volume precedente, pag. 688 e segg.[1] Rechiamo testualmente l'argomentazione del Bossuet. Dopo aver accennato che la tesi proposta dal Santo è: «Quod concilia non possunt praefigere legem Papae.» Sed addit (egli soggiunge): «In concernentibus fidem Concilium est supra Papam»; ac paulo post: «Item dico quod in concernentibus universalem statum Ecclesiae, non potest Papa disponere contra statutum universalis concilii, si statuendo decoloraretur status universalis Ecclesiae.» Donde conchiude: Haec igitur sunt quae restringunt Antonini propositionem: «Quod concilia generalia non possunt praefigere legem Papae.» Quanto alla terza sentenza, citata anche qui la quistione a cui si riferisce: «Quando concilium dicatur legitime congregatum»; quo loco (egli segue) haec Antoninus habet: «Ubi Papa est haereticus, vel de haeresi suspectus, tunc ad eum non spectare videtur potestas congregandi concilium.» En ergo (conchiude) casus ab Antonino admissus, quo Concilium sine Papa non modo congregetur, sed etiam de fide iudicet. Append. lib. II, cap. IV.
[2] Vol. IV, pag. 194, dove recammo le parole testuali del Santo.
[3] Part. III, tit. XXII, cap. IV, §. 2.
[4] Item dicit Augustinus de Anchona, quod si notorium sit, Papam mortuum haeresim, vel perversum dogma docuisse; post mortem etiam potest accusari et damnari. Titul. XXII, cap. IV, in fine.
[5] Item nota, secundum Augustinum de Anchona, quod dum Papa est Papa, quamvis concilium generale congregari non possit, niti eius auctoritate...; tamen quia Papa propter crimen haeresis non est Papa, ideo in tali casu eius auctoritas non requiritur; sed sufficeret auctoritas collegii Cardinalium, et aliorum Episcoporum et doctorum. Loc. cit.
[6] Avvertiamo per iscanso di equivoco, che il caso di doversi adunare un concilio per giudicare il Papa, non solo caduto ma anche ostinatosi nell'eresia, non si è dato mai nella Chiesa per lo spazio di diciannove secoli. E però ha gran fondamento nel fatto stesso la sentenza del Bellarmino, del Pighi e di altri valenti teologi, che un tanto fallo ne' Pontefici, per quell'amorosa provvidenza, con che Dio governa la sua Chiesa, non debba neppure per l'avvenire aver mai luogo.
[7] Aug. de Anchona, De Eccl. potest. Quaest. V, art. VII.
[8] Ved. vol. prec. pag. 711.
[9] Part. III, tit. XXII, cap. VIII, in fine.
[10] Part. IV, tit. XII, cap. IV, §. 1 et segg.
[11] Il noto luogo di questo capitolo, che comincia con quelle parole: Ad istud dicendum sicut prius, quod licet ut persona singularis, etc., richiama ciò che sta detto con parole in gran parte identiche nel titolo precedente, cap. III. §. 1: Respondendum, quod licet Papa, ut singularis persona. etc.