La Civiltà Cattolica, anno XIX, serie VII, vol. IV (fasc. 449, 26 nov. 1868) Roma 1868, pag. 576-591.
R. P. Francesco Berardinelli S.I.
LA DOTTRINA DI S. ANTONINO
ARCIVESCOVO DI FIRENZE
INTORNO
ALLA INFALLIBILITÀ DE' PAPI
E LA LORO SUPERIORITÀ SUI CONCILII [*].
(Parte III)
VI.
Interrompiamo in questo quaderno il corso della discussione, impegnata nell'articolo precedente col Bossuet rispetto al senso di alcuni luoghi di S. Antonino, che egli opponeva come contrarii alla dottrina della infallibilità personale de' Romani Pontefici, e loro superiorità sopra i concilii anche generali. Invece daremo luogo ad una quistione critica intorno all'autenticità di alcuni testi della Somma del Santo, i quali sono assai strettamente connessi coll'argomento che trattiamo. Trovata la verità della cosa, non solo ci sarà più facile dissolvere le altre difficoltà del Vescovo di Meaux, che, a vero dire, sono levissime; ma, come dicemmo in altro luogo, anche alcune altre di gran lunga più gravi, omesse da lui. Prima però di entrare nella materia ci conviene di porgere alcuni schiarimenti ai nostri lettori.Allorchè il nostro onorabile amico di Parigi colla gentilissima lettera, di che facemmo parola nel principio di questa trattazione, teneaci avvertiti che un chiaro scrittore di quella città stava in sul punto di pubblicare una sua opera in discussione della comune dottrina intorno alla mentovata questione; e che uno degli argomenti in contrario che arrecava, era l'autorità di S. Antonino: noi, per corrispondere al cortese invito che ci faceva, di volergli, se non altro con privata lettera, esporre circa tale opinione che a lui sembrava sì nuova e sì strana, il nostro sentimento, ci mettemmo più di proposito, che non avessimo fatto in addietro, a studiare nelle opere del santo Arcivescovo. Accennammo in quel luogo istesso le ragioni, per le quali ci fu migliore avviso mettere in pubblico la quistione e pubblicamente risolverla: ora diremo quai sentimenti conseguitarono nel nostro animo, e qual giudizio formammo dopo l'accurato esame di que' trattati della Somma, che hanno maggiore o minore attinenza colla proposta controversia. In primo luogo vi trovammo quello, che già sapevamo che v'era, cioè la dottrina della infallibilità personale de' Romani Pontefici e loro superiorità sopra i concilii, in molti tratti esplicitamente professata, e con moltissimi altri implicitamente sì, ma necessariamente collegata. V'incontrammo in secondo luogo alcune sentenze, che, come accade in tutt'i libri, possono dar presa a difficoltà in contrario della mente degli autori, e in questo la diedero effettivamente alle obbiezioni di Benigno Bossuet: ma le risposte trionfanti scorgeansi a prima vista, offerte dagli stessi contesti. Se non che, in terzo luogo, ci vennero innanzi due lunghi brani, da noi, a dir vero, non avvertiti altre volte, da' quali il Bossuet sfiora qualche leggiera difficoltà, e lascia il resto come se lo scottasse. Nel che operò da uomo accorto qual era. Poichè in que' passi non solo si sostiene la fallibilità de' Papi e loro inferiorità ai concilii, ma si attenta alla stessa essenza della Chiesa con tutte le intime proprietà e note distintive, attribuitele dal suo divino fondatore. Questi sono i paragrafi VI e VII (specialmente il VI) del capo II del titolo XXIII. Nè appare modo di poterli spiegare cattolicamente: poiché mentre in quel rimescolìo di sentenze ora cattoliche ora ereticali, e dove collegate e dove sconnesse, voi credete di aver scoperta una sicura via di buona interpretazione, due righe appresso ve la trovate inesorabilmente chiusa: e così a mano a mano, sinchè vi veggiate ridotto dove non è possibile niuna uscita ragionevole. Or che? dicevamo noi: S. Antonino dunque si è lasciato trascorrere oltre a quello che osò insegnare Giovanni Huss e Giovanni Wicleff, e anche buondato più in là che quindi a un secolo non facesse Lutero? Che egli avesse scritto così per malizia di animo, non era neppur dalla lontana a sospettare, attesa la sua eminente santità affermata dal solenne testimonio della Chiesa. Che avesse fallato per ignoranza o sbadataggine, era ipotesi non meno assurda della prima. Si trattava di materie elementari di dottrina cristiana: ed egli era uno de' più dotti e forse il più erudito dell'età sua nelle quistioni teologiche; accuratissimo poi, quant'altri mai, nel ricercare e risolvere i diversi aspetti delle controversie, che nelle sue opere si propone ad esaminare. Ma oltre a ciò, più volte gli è accaduto nella Somma di dover toccare i medesimi punti; e non è a dire se li risolvesse non solo cattolicamente, ma colla massima esattezza teologica.
Poste le quali cose, noi conchiudemmo che i due paragrafi mentovati, così come li leggevamo nelle comuni edizioni, non poteano essere usciti dalla penna di S. Antonino. Del quale argomento a priori eravamo sì altamente convinti, che prima che avessimo agio di fare altre indagini, e sin dall'esordio del primo articolo, non esitammo di promettere che i luoghi del Santo, i quali facevano più difficoltà ed erano stati trasandati dal Bossuet, sarebbero per noi la miglior arme, con cui trionfare non solo di qualche obiezione di maggior momento, opposta da lui, ma eziandio di altre, che considerate in sè stesse sembrerebbero insolubili. E che queste parole venissero intese nel senso che noi ad esse tacitamente davamo, cioè che fossero nella Somma di S. Antonino alcuni luoghi viziati, ce ne fu argomento una cortesissima lettera di un valoroso redattore di un giornale cattolico, assai riputato, d'oltremonte; il quale ci scriveva essere molto desideroso di veder presto il séguito della nostra trattazione, massimamente perchè facevamo intendere troppo chiaramente d'aver scoperta qualche notabile corruzione nelle opere di S. Antonino.
Ma noi a quel tempo non avevamo altro criterio per affermarlo, che quello della convinzione individuale, a cagione della impossibilità, che ci appariva evidente, di attribuire al santo Autore errori sì madornali: ma per convincere gli altri ci era mestieri di argomenti di fatto. Ora le edizioni a stampa, a cominciare dalle due più antiche, che sono quella di Korburger di Norimberga, e l'altra di Jenson di Venezia, amendue incominciate nel 1477, e terminando nell'ultima intera, ch'è quella curata nel 1740 da Pietro Ballerini in Verona; tutte contengono allo stesso modo i due paragrafi sospetti. La sola varietà, quanto a questo soggetto, si è, che nella edizione del Ballerini, è apposta ne' luoghi più sformati alcuna nota per fare accorto il lettore di qualche errore più grave, che l'editore suppone caduto inavvedutamente dalla penna del Santo. Scrivemmo allora ai nostri amici di Firenze, che volessero consultare i codici manoscritti, che doveano certamente trovarsi nelle pubbliche biblioteche di quella città, la quale fu il luogo natale e dove visse e morì il santo Arcivescovo. Vi si rinvennero ben cinque codici, contenenti la terza Parte della Somma, due nella Magliabecchiana e tre nella Laurenziana; ma anche questi sventuratamente presentavano i due terribili paragrafi, con qualche variazione tutt'al più di non grave momento.
Non rimaneva altra speranza, che ricercare il codice (e questo in ogni ipotesi era sempre da esaminare) il quale contiene gli autografi del Santo, e certamente sapevamo esser custodito con somma gelosia dai RR. PP. Domenicani di S. Marco, siccome una delle più venerando reliquie del lor santissimo confratello. Non diremo dell'insigne cortesia che ci hanno usato tutti coloro, del favore de' quali ci è stato bisogno: ci basta professare qui in pubblico a tutti in generale ed a ciascuno di essi in particolare la più sentita riconoscenza. Ma quegli che a nostra richiesta si è assunto volentierissimo il difficile incarico di studiare il codice, secondo le leggi della scienza paleografica, di cercare se vi apparisse frode e di dimostrarla se vi fosse, è stato uno dei più valenti paleografi d'Italia, il chiarissimo cavaliere Francesco Palermo. E ci fu anche ragione a volerlo invitare in preferenza d'ogni altro a questa impresa, perchè ci era nota la gran pratica del carattere e la molta conoscenza che esso ha delle opere del Santo; stantechè dell'una e dell'altra perizia avea già dato splendidissimo saggio per due opuscoli ascetici pubblicati da lui; l'uno riconosciuto come opera del Santo sopra la fede di due codici autografi del medesimo, e l'altro ricavato la prima volta da un antico manoscritto, benchè d'altra mano, amendue in volgare [1]. Il chiaro uomo di tutt'animo, e non diremo soltanto per gentilezza, ma anche per amore al tema proposto, sin dai principii di questo mese di Novembre; poichè il passato Ottobre trovavasi assente; si è posto al lavoro, e vi si è posto collo spirito scevro di ogni preoccupazione.
L'effetto di questi studii, compiti da lui in soli quindici giorni, è stato non pure conforme la nostra espettazione, ma di gran lunga superiore. Noi abbiamo creduto dover pubblicare, senz'altra dilazione e così come ci è stato graziosamente inviato, questo pregevolissimo scritto dell'illustre cavaliere. In ciò fare intendiamo bene che noi veniamo ad alterare il disegno dialettico già cominciato ad eseguire del nostro lavoro, che era di compier prima l'esame di quei passi, che sono certamente del Santo, e poi venire a quegli altri che son provati esser supposti. Ma vale pure un po' di sagrifizio del nostro primo concetto quel non piccolo piacere, che crediamo di arrecare ai nostri lettori, anticipando loro questa insigne scoperta, la quale, dopo quattro secoli e più dalla morte del Santo, ne viene a purgar la dottrina da macchia così indegna.
Dopo la pubblicazione della scrittura del Palermo, noi non osiamo più dire se faremo seguire un solo articolo nostro, o più d'uno. La controversia che trattiamo ha destato un interesse non ordinario, non solamente nella nostra Italia, ma anche fuori, e specialmente nella Francia: non saremo dunque tanto scrupolosi nel misurare lo spazio. Ecco intanto la monografia del chiaro paleografo, alla quale non aggiungeremo di nostro, che la sola versione di un lungo tratto inedito, da lui scoperto, della Somma del Santo.
SOPRA UNA FALSITÀ
DI DOTTRINA E DI LEZIONE
INTRODOTTA
NELLA SOMMA MORALE DI S. ANTONINO
I.
Il Codice che contiene la terza Parte della Somma di santo Antonino, e che passa tutto per suo autografo, è oggi in san Marco, nella camera già abitata dal Santo. Esso è cartaceo in 4.°, con alcuna membrane anche fra mezzo, e parte autografo, parte di più e diversi caratteri: copie, delle quali taluna ha in qualche faccia correzioni o aggiunte del Santo istesso; e le rimanenti, di maggior numero, non hanno alcun segno della sua mano. Il Codice certamente fu messo insieme non pochi anni dopo l'Autore. Poichè le carte, una porzione fu numerata due volte: la prima numerazione, poi cancellata, incomincia col numero 210 alla prima faccia, sul quale è il 401, primo numero della seconda numerazione. Pruova che queste carte innanzi furono unite in due differenti modi, con altre forse dell'Opera istessa; e così il Codice, qual ora è, documenta una terza riforma e ricucitura. È inoltre da avvertire che parecchie membrane scritte dal Santo non son numerate in mezzo delle altre carte; siccome non son numerati molti quinterni, dalla metà circa del Codice alla sua fine.
I fogli e i quinterni furono collocati qua e là arbitrariamente, taluni contro l'espressa indicazione dell'Autore. Alla carta 507, seconda faccia, egli scrive nel margine: «Hic ponendae sunt quaestiones Beati Thomae, quae habentur in praecedenti quinterno in 24 §. de potestate Papae, et post eas §. de casibus eo sibi reservatis.» E invece le Quaestiones, di altra mano, si trovano innanzi a carte 494, e la carta 507 è seguita dalla 508 anche di altro carattere, e principia: «Incipit Tractatus parvus de superioritate Papae respectu Concilii universalis, editus a quodam fratre ordinis praedicatorum. Quoniam quidam hostes virtutis etc. Ed è questo il capitolo 3.° del titolo de Conciliis, posto qui, mentre il titolo stesso incomincia a carte 576. Il capitolo qui è detto Tractatus, poichè, come noi dimostrammo nell'Opera a ben vivere di santo Antonino (pag. XI), solevan dare il nome di Tractatus a que' capitoli, che cavavano della Somma soli dal rimanente. Così fatto quinterno ebbe poi ad esser ricopiato da chi non sapeva il nome dell'Autore, e fu posto qui dal raccoglitore, dopo il foglio membranaceo 515 originale del Santo, che in capo alla prima faccia notava: «Iste §. debet poni supra, in titulo de statu Cardinalium.» In fondo altresi alla seconda faccia scriveva a chiamata del foglio appresso: «Excomunicatio.» E invece il titolo de Excomunicatione, il quale incomincia appunto colla parola «Excomunicatio» fu collocato 16 carte dopo; e la membrana 515 non è già nel titolo de statu Cardinalium, secondo avvertiva il Santo, ma in mezzo al Tractatus e al titolo de Conciliis.
Noi dunque abbiamo questa certezza, che il Codice fu raccozzato alla peggio, senza discernimento; e che le carte di altrui carattere, e senza segni del Santo, perchè si trovin nel Codice, non posson dal Codice, dall'autografo, avere nessuna autenticità. Siamo certi, che, in mancanza di esso autografo, furono unite copie, come il Tractatus parvus, di scritture che non sono del Santo. E però, quanto a questo Codice, nulla vale ciò che scrive il Mamachio, nella Prefazione alla Somma, intorno al Codice che contiene la prima Parte: nel quale essendo altresì molti fogli d'altro carattere, egli affermava dovessero avere la stessa autorità dell'originale, perchè in tutte vi ritrovava note e correzioni di mano dell'Autore.
II.
III.
due paragrafi ebbe a sopprimer questo nell'esemplare, onde e i codici furono copiati e impresse le stampe; sopprimerlo, conciossia che troppo diretto, anzi nominatamente sconfigga la sua impostura. Ed eccolo, nella sua massima parte. [Al testo segue la traduzione, N.d.R.]
Et quod non habeat potestatem a Papae potestate distinctam, probatur his rationibus. Primo, ex fundamento ordinis naturalis. Nam constat, quod omnis multitudo recipit influxum a primo, mediante aliquo uno: sicut, sensibilia resuscipiunt influxunt a septem orbibus, et illi suam virtutem recipiunt a prima causa, mediante primo mobili, secundum Philosophum. Et omnia corpora lucida illuminantur a prima causa, non immediate, sed mediante sole; et omnia illucida ab eadem calorem participant, mediante igne. Oportet igitur multitudinem praelatorum in Concilio congregatorum a Christo influxum recipere, mediante aliquo uno; nisi dicatur Concilium ipsum esse multitudinem quamdam contra naturae ordinem congregatam. Et habetur sententia Dionysii, primum entium movere infima per media, et media per suprema. Ad idem arguitur ex fundamento ordinis politici: in omni enim principatu bene disposito, secundum Philosophum in politica, est unus solus supremus princeps, ad quem pertinet directio omnium de illo principatu. Si igitur Concilium, quod est quidam principatus, sive congregatio principum Ecclesiae, est principatus bene dispositus, oportet quod eius actiones dirigantur per unum, quem Papam dicimus: quoniam diversitates opinionum et sententiarum, quae ex multitudine capitum ut plurimum consequuntur, debeat reducere ad unitatem; quia alias scissurae multae in illo corpore mistico resurgerent.
Confirmatur ex fundamento ordinis artificialis. Multae enim potentiae, et multa instrumenta bene ordinata, non applicantur ad actum, nisi imperio unius principalis potentiae: sicut ad fabricam domus applicatur serra, dolabram, et malleum [2], manus, oculi et alii sensus exteriores, fantasia et ratio, et ad imperium solius voluntatis. Sicut igitur, sublato actu voluntatis, non remaneret aliquis motus ordinatus debite tendens ad unum finem; ita nec in Concilio, sublata Papae voluntate vel potestate, sed, ut Varro ait, quot homines tot sententiae. Una erit igitur, ut supra, potestas modo praedicto, cuius tamen principatus sit in Papa. Petam: Christus praedixit futurum, ut fuerit unum ovile et unus pastor; Concilium igitur, ut seorsim a Papa acceptum, aut est ovile aut pastor. Si pastor, quaero, cuius oculis [3]? Praesertim cum dicat adversarius, quod Concilium totam universalem Ecclesiam repraesentat. Non est igitur pastor Ecclesiae, cum ipsa sit Ecclesia: erit igitur aut pastor sui ipsius, aut pastor sine oculis. Si ovile, igitur alicuius pastoris; non autem nisi Papae; cum nullus alius homo sit extra ipsum ovile. Si dicat quod est pastor respectu eorum qui [4] sunt in Concilio, de quorum salute agitur; contra, quia, ut dictum est, secundum eum illos repraesentat; est quidem unum virtualiter, cum non possit esse faciliter unum localiter. Et ponamus quod tota Christianitas sit simul in eodem loco, quod esse non est impossibile, nec implicat contradictionem; istud Concilium cuius erit pastor? Si dicat, quod Concilium quidem est ovile, non Papae sed Christi qui est immediatus pastor ipsius; hoc est frivolum dicere; quia pastor et ovile debent esse unius status. Ideo oportet loqui de aliquo pastore, qui sensibiliter cum hominibus conversetur. Propterea Homo Deus post resurrectionem ascensurus in coelum, et derelicturus humanum statum secundum potestatis conversationem, providit de pastore conformis conversationis, ubi dixit Petro: «Pasce oves meas.» Quasi dicat: Ego iam curam pastoris immediati habere non potero, sed te meo loco substituo. A quo etiam pastoratu ipse Petrus defecit, cum a praesenti statu excessit.
Si forte dicat, quod Petrus vel Papa est immediate pastor Ecclesiae disgregatae, non tamen in Concilio congregatae; hoc videtur leviter dictum, quod aliquis sit pastor ovium disgregatarum, dispersarumque, et non simul congregatarum.
Circa hanc quaestionem ponuntur aliquae conclusiones. Quarum prima est, quod non est tam tribuendum iudicio multitudinis, quin iudicium solius Papae, etiam in agibilibus, possit in divinum conspectum iudicio multitudinis praevalere. Probatur de facto, exemplo Gregorii VI. Qui tam a collegio cardinalium, quam a caetero clero et populo Romano iudicabatur pessimus pastor, et sanguinis civium effusor; adeo quod ipsum morti vicinum, unanimi consensu, omnes iudicaverit indignum ecclesiastica sepultura. Oppositum tamen ostensum est, divino et patenti miraculo, per miraculosam apparitionem portae ecclesiae sancti Petri; ut habetur in cronica Martiniana.
Secunda conclusio est, quod Concilium non habet iudicare Papam, de quocumque defectu notabili. Probatur conclusio. Omne iudicium ordinatum debet fieri per superiorem potestatem: Con cilium autem non habet superiorem potestatem Papae, cum sit una utriusque potestas; ut probant rationes pro parte affirmativa factae, quae in hac quaestione verum concludunt. Tum etiam, quia potestas popularis non est potestas primaria, sed secundaria; quia solum de sui natura habet potestatem, principalem instituentem; nisi appareat de submissione eius alterius potestati, per eum ad quem spectat ipsam submittere. Quod non apparet de Christo et Papa et Conciliis, vel Concilio. Unde, sicut aliqua auctoritas, invadens suum rectorem a principali domino substitutum, lesae maiestatis rea teneretur, cum debuerit recursum ad principalem habere; ita et de Concilio et Papa. Nullam enim iurisdictionem habent inferiores supra Vicarium superioris eorum, nisi eis expresse sit collata a principe eum vicarium delegante. Debet igitur Concilium Papam errantem admonere filiali charitate, et obsecrari et hortari, ut errorem suum cognoscat et corrigat: quod si non fecerit, debet habere recursum ad Christum, ut ipsum illuminet, vel de medio tollet [5]; ut de Tyranno, qui non habet superiorem, dicit Sanctus Thomas in 4° de Regimine principis. Sperandum est quod Christus abutentem [6] potestate sua ostendet iudicium suum; ut fecit in Anastasium papam, cum haereticis comunicantem Fotino et Acatio, qui fuit nutu divino percussus.Si domanda, se il Concilio generale, convocato dal Papa N. S., e da lui confermato, abbia potestà che sia distinta dalla potestà del Papa?
E che non abbia potestà distinta dalla potestà del Papa, si prova colle seguenti ragioni: Primieramente dal fondamento dell'ordine naturale. Imperocchè è certo che ogni moltitudine riceve l'influsso dal primo per opera di uno che faccia da mezzo: siccome i sensibili ricevono l'influsso da' sette cieli, e quelli hanno la loro virtù dalla prima causa, mediante il primo mobile, secondo il Filosofo. E tutti i corpi lucidi sono illuminati dalla prima causa, non già immediatamente, ma mediante il sole; e tutti gli opachi partecipano dalla stessa il calore, mediante il fuoco. È dunque necessario che la moltitudine de' prelati, accolti nei Concilii, riceva l'influsso da Cristo per opera di uno che faccia da mezzo; se pure non voglia dirsi che il Concilio stesso sia una cotale moltitudine raccozzata contro l'ordine della natura. E qui viene a proposito la sentenza di Dionisio, «che il primo degli enti muove gl'intimi per l'opera de' mezzani, ed i mezzani per l'opera de' supremi.» Lo stesso si argomenta dal fondamento dell'ordine politico: conciossiachè in ogni principato ben disposto, secondo il Filosofo nella Politica, è un solo supremo principe, al quale appartiene la direzione di tutte le cose che si riferiscono a quel principato. Se dunque il Concilio, che è un cotal principato, ossia una congregazione de' principi della Chiesa, è un principato ben disposto, è necessario che le sue azioni sieno dirette per mezzo di uno che diciamo Papa; in quanto le diversità delle opinioni e sentenze, che conseguono per ordinario dalla moltiplicità delle teste, debbansi per lui ridurre alla unità; perchè altrimenti molte scissure verrebbero a nascere in quel mistico corpo.
Si conferma il medesimo dal fondamento dell'ordine artificiale. Imperciocchè dove sono molte potenze e molti strumenti ben ordinati, non vengono applicati all'atto, se non per l'impero di una principale potenza. In quella guisa che, per la fabbrica di una casa, si mettono in opera la sega, la pialla, il martello, le mani, gli occhi e gli altri sensi esterni, la fantasia e la ragione; ma secondo l'imperio della sola volontà. Siccome dunque, tolto l'atto della volontà, non rimarrebbe alcun moto regolato, che debitamente tendesse a un solo fine; medesimamente accadrebbe nel Concilio, se vi mancasse la volontà o la potestà del Papa; e, come dice Varrone, tante sarebbero le sentenze, quanti gli uomini. Domanderò: Cristo predisse che sarà un solo ovile e un solo pastore. Adunque il Concilio, considerato separatamente dal Papa, è egli ovile o pastore? Se è pastore, io domando: di quale ovile? segnatamente perchè dice l'avversario, che il Concilio rappresenta la Chiesa universale. Non è dunque pastore della Chiesa, mentre esso è la Chiesa. Sarà dunque o pastore di sè stesso, o pastore senz'ovile. Se poi è ovile, sarà dunque di qualche pastore: il qual pastore non può essere che il Papa, essendo ogni altro uomo compreso nell'ovile. Se afferma che è pastore, per rispetto a quelle persone che non sono nel Concilio, della salute delle quali si tratta; vi è contro, che secondo l'avversario, come s'è detto, rappresenta appunto quelle persone, e forma con esse un sol corpo virtualmente, non potendo formarlo localmente. E pognamo che tutta la Cristianità sia insieme raccolta in un medesimo luogo: il che non è impossibile nè implica contraddizione; cotesto Concilio di chi sarebbe pastore? Se dice che il Concilio è certamente ovile, non però del Papa, ma sì di Cristo, come pastore immediato di lui; ella è questa una frivola risposta; essendochè il pastore e l'ovile debbono essere di un medesimo stato: e ciò posto è necessario tener parola di qualche pastore, che conversi sensibilmente cogli uomini. Appunto perciò l'Uomo Dio, dovendo dopo la sua risurrezione ascendere al cielo e lasciar lo stato umano inquanto al conversar, come capo, cogli uomini; provvide un pastore che fosse conforme nella conversazione, là dove disse a Pietro: Pasci le mie pecore: quasi dicesse: Io oggimai non potrò più avere la cura di pastore immediato; ma pongo te in luogo mio. Dal quale uffizio di pastore lo stesso Pietro cessò, allorchè uscì dallo stato presente.
Se per sorte soggiugne, che Pietro o il Papa è immediato pastore della Chiesa disgregata, e non già della Chiesa radunata in Concilio; egli sembra una levità il dire, che uno sia pastore delle pecore disgregate e disperse, e non già di queste stesse pecore insieme riunite.
Circa la presente quistione si pongono alcune conclusioni. La prima delle quali è, che non si deve attribuire tanto al giudizio della moltitudine, che il giudizio del solo Papa, eziandio nelle cose agibili, non possa nel divino cospetto prevalere al giudizio della moltitudine. Si prova dal fatto, coll'esempio di Gregorio VI. Il quale tanto dal collegio dei Cardinali, quanto da tutto il Clero e popolo romano era giudicato pessimo pastore e spargitore del sangue de' cittadini: a tale che essendo vicino a morte, tutti con unanime consenso lo giudicarono indegno della sepoltura ecclesiastica. Pure fu dimostrato il contrario, con divino e manifesto miracolo, per mezzo della prodigiosa apparizione della porta della chiesa di S. Pietro; come si ha nella cronaca martiniana.
La seconda conclusione è, che il Concilio non ha facoltà di giudicare il Papa di qualsivoglia notabile mancanza. Si pruova la conclusione. Ogni giudizio ordinato dev'esser fatto da una potestà superiore: ma il Concilio non ha potestà superiore al Papa, essendo una sola la potestà dell'uno e dell'altro, come provano le ragioni addotte per la parte affermativa, che dimostrano il vero nella presente quistione. Si aggiunge ancora, che la potestà popolare non è potestà primaria, ma secondaria, perchè di sua natura ha solamente la potestà d'istituire la principale, se pur non s'abbia certezza della soggezione di questa (della potestà principale) alla potestà di un altro, per la volontà di colui, che può soggettarla. Il che non apparisce che abbia fatto Cristo col Papa per rispetto ai Concilii o alcun Concilio. Laonde, come una qualunque autorità che oppugnasse il suo reggitore, surrogato dal signore principale, sarebbe stimata rea di lesa maestà, conciossiachè avria dovuto ricorrere al principale; lo stesso è da dire del Concilio e del Papa. Imperocchè niuna giurisdizione hanno gl'inferiori sopra il Vicario del loro superiore, se ad essi non è conferita espressamente dal principe, che delegò colui per suo vicario. Deve dunque il Concilio ammonire con figliale carità il Papa errante, scongiurarlo, esortarlo a riconoscere il suo errore ed emendarlo. Che se nol fa, dee ricorrere a Cristo, perchè lo illumini, o lo tolga di mezzo; siccome a proposito del Tiranno, che non ha superiore, dice san Tommaso nel IV de Regimine principis. È da sperare che Cristo, abusando quello della sua potestà, gli faccia provare il suo giudizio; come fece con Anastasio Papa, il quale aveva comunione con gli eretici Fotino ed Acacio, e per divino volere fu percosso.
E la quistione dicemmo che di proposito abbatte gli errori dei due paragrafi adulterati. Nel paragrafo VI, si legge: «Licet concilium totam Ecclesiam universalem concernat, tamen ibi vere non est universalis Ecclesia, sed repraesentativa.» E qui, come si è potuto notare: «Praesertim cum dicat adversarius, quod Concilium totam universalem Ecclesiam repraesentat:» E segue poi a confutar l'avversario, come in questo, così nel resto che fu interpolato ne' due paragrafi. Che se non ostante i fatti, che persuadono appartenere la Quistione alla Somma, in cui si ha delle simili, si volesse che invece sia una risposta a parte del Santo; noi non vorremmo contendere. Per noi il punto è, che la Quistione sia di Antonino, come è impossibile di negarlo; e che schianta dalle radici l'apocrifo, posto malignamente sotto il suo nome: il che niuno può dire che non faccia.
IV.
Firenze 15 Novembre 1868.
Francesco Palermo.
(continua)
NOTE:
[*] V. questo volume, Pag. 181 e segg.; e 304 e segg.[1] Il primo di questi è l'Opera a ben vivere. I due autografi del Santo, l'uno più antico appartenne alla Palatina, e l'altro un po' più recente si conserva nella Laurenziana. Il valente editore lo pubblicò nel 1858 con tutte le varietà indotte dal medesimo santo autore nel secondo manoscritto. L'altro è la Regola della vita cristiana, ricavato da un codicetto pur esso della già Palatina, e pubblicato nel 1866.
[2] Segniamo con altro carattere qualche sbaglio dell'amanuense. Qui evidentemente deve leggersi dolabra et malleus. Nota della Redazione.
[3] Oculis è uno sbaglio manifesto dell'amanuense, invece di ovilis. Lo stesso sbaglio accade tre righe appresso della stessa parola invece di ovili. Questa lezione è necessariamente richiesta dal raziocinio del Santo. Nota della Redazione.
[4] L'argomentazione del Santo esige per necessità il non, omesso evidentemente per inavvertenza dall'amanuense. Nota della Redazione.
[5] Leg. tollat. N. d. R.
[6] Leg. abutenti, o pure in abutentem. N. d. R.