I.
Satana, che in tutto e per tutto è scimmia di Cristo e da vile scimmia gli fa guerra, è giunto a stabilire pian piano nel mezzo del cristianesimo una specie di sua chiesa, la quale, in parecchie delle esterne forme ed usanze, ha modellata sopra la Chiesa di Cristo. Da alcuni anni in qua è venuta la volta dei martiri e dei santi suoi, che questa congrega pretende di onorare con culto pubblico di apoteosi, di monumenti e di feste: e noi vediamo come non solamente essa celebri, con idolatrica pompa, i funerali dei più tristi e malefici uomini che la morte miete nella nostra generazione; ma si affatichi a dissotterrare anche le memorie di quei più perduti e scellerati, i quali colle loro empietà e ribalderie scandalizzarono le generazioni passate; e sotto pretesto di ricordarne i secolari anniversarii, ne glorifichi strepitosamente il nome, le turpitudini e i misfatti; chè tali e non altri sono i meriti richiesti, per godere in quest'infernale Antichiesa l'aureola di santità.
Ora è il turno del Voltaire. Ai 30 di questo maggio, compiendosi l'anno centesimo della morte di costui, le sètte anticristiane della massoneria hanno divisato di commemorarla con grandi clamori, dei quali Parigi sarà il teatro primario. Per tal effetto anzi si dice che siasi voluta la sontuosa mostra d'arti e di manifatture apertasi in questa città; per rendere cioè più scandalosamente romorosa la festa del centenario volteriano.
Giusto è pertanto che ancor essi i cattolici traggano il loro frutto da questa diabolica solennità; e poichè la chiesa di Satana nella morte del Voltaire compendia tutti i pregi della sua vita, così noi riputiamo utile raccontarne semplicemente la storia, la quale per conseguenza aiuterà a ben conoscere chi fosse l'uomo, che morì accattandosi i plausi di tutto l'inferno. Se mai fu vero in alcuno il comun detto, che tal si muore qual si è vissuto,
qualis vita finis ita, si toccherà con mano verissimo essere stato in questo mostro, idolo troppo degno degli adoratori che oggi lo profumano d'incenso.
Ma, per amore di brevità e di verità, noi narreremo quelle sole cose che sono certe e provate da documenti; e fonderemo la nostra narrazione sopra quanto ne riferisce il Maynard, che è lo storico del Voltaire più accurato, più spassionato e più veridico di tutti, giacchè nulla afferma che non confermi con irrefragabili testimonianze; ed è perciò in credito sin presso i
liberi pensatori [1]. I quali non han potuto e non possono negare che il Maynard abbia formato un ritratto immortale e somigliantissimo dell'eroe loro; e quindi costui sia stato propriamente e realmente quell'uomo senza cuore, senza fede e senza legge, quel furfante, quel sozzo, quel falsario, quel codardo, quell'avaro, quell'ipocrita, quel mendace che in ogni pagina del classico lavoro del Maynard apparisce
[2].
II.
Francesco Maria Arouet, detto di Voltaire, era nato in Parigi il 21 novembre 1694, da un onesto notaio. Aveva compiuto già l'ottantesimoterzo anno, quando il 5 febbraio del 1778 lasciò il castello di Ferney nella Svizzera, per entrare in Parigi, dond'era esiliato a cagione degl'immondissimi libri, con cui aveva appestata la Francia e l'Europa. Il decreto d'esilio non era abrogato: ma la grande autorità che i suoi aderenti godevano alla corte del buono e debole Luigi XVI, lo rassicurava che non avrebbe incontrate molestie.
Che andava egli, così vecchio e infermiccio, a fare in Parigi? Credea di andarvi non per altro, che per assaporare il dolce dei trionfi che i fautori suoi gli promettevano. La giustizia di Dio invece ve lo spingea, perchè si avverasse pubblicamente, in quella città, una profezia ch'egli avea fatta nel 1758, scrivendo all'amico suo d'Argental –– «Fra vent'anni l'
infameavrà bel giuoco.» Ognuno sa che, in bocca e sotto la penna di costui, l'appellativo d'
infame significava Gesù Cristo figliuolo di Dio e la sua Chiesa, che egli del continuo eccitava gli aderenti suoi ad abbattere, col famoso grido di guerra ––
Écrasons l'Infâme; motto che si legge ripetuto più di centocinquanta volte nel suo epistolario e prese per nome, abbreviandolo e sottoscrivendosi
Écr-l'-inf, quando più sacrilegamente non si sottoscriveva beffa-Cristo. Ora, in Parigi, venti anni dopo quel presagio, lo aspettava Gesù Cristo per dargli appunto al letto della morte una esemplarissima pena.
Il giorno 10 pose piede nella desiderata città ed ebbe alloggio in casa Villette, ove lo attendeva la celebre sua nipote Denis; e tosto vi ricevè gli omaggi di quanto colà era di più empio, di più voluttuoso, di più leggiero; omaggi che talora si mutarono in ovazioni.
Grande fu lo scandalo di questi festeggiamenti all'autore di tanti libri osceni e blasfemi. Il clero ne restò amareggiato. Ma la combriccola che circondava il Voltaire, tutta fiore di miscredenti e frammassoni, venuta in sospetto che qualche membro del clero tentasse di avvicinarsegli e ridurlo al bene, si mise in guardia. Questi così detti
filosofi o
enciclopedisti, che erano sottosopra quel che sono i
liberali dei nostri tempi, non erano senza timore che il vecchio maestro d'incredulità, cadendo malato e vedendosi la morte in faccia, si ricredesse e cercasse di riconciliarsi con la Chiesa e con Dio. Per lo che erano fermi di escludere dalla casa Villette qualunque si fosse visita di persona ecclesiastica.
Senonchè ad un prete, non si sa come travestito, riuscì d'introdursi nella casa, di accostarsi al letto del Voltaire, e postosi in ginocchio di supplicarlo, colle lagrime agli occhi, che si arrendesse a Dio e si confessasse. Checchè ne abbiano scritto in contrario gli amici più intimi del Voltaire, certo è che questi n'ebbe nell'animo una forte impressione.
Al tempo stesso si fece innanzi un abbate Gaultier, già religioso della Compagnia di Gesù, allora estinta, e cappellano nello spedale degl'incurabili. Il 20 febbraio questo zelante ministro di Dio gli scrisse un biglietto, per rammentargli il giudizio divino e pregarlo di un abboccamento. Il Voltaire accettò la proposta: e fattolo venire se lo condusse per mano nella stanza, lo fece sedere accanto a sè e gli domandò che cosa avesse da dirgli. Il Gaultier francamente rispose di voler prendere a curarlo nell'anima, come testè aveva curato un impuro poeta; e per questo a lui si offeriva. Il Voltaire intese con piacere che il Gaultier era venuto di suo proprio motivo e non mandato dall'arcivescovo o dal curato di san Sulpizio, nella cui parrocchia era la casa Villette; quindi, con atto di scambievole civiltà, offerse al Gaultier la servitù sua. Ma il cappellano soggiungendo che desiderava un'offerta più corrispondente alla ragione della visita, –– Io amo Dio; rispose il Voltaire.
–– Può mai essere sincero l'amore che non opera? ripigliò il Gaultier.
Qui sopravvenne uno dei settarii che erano di guardia e, per tagliare il filo di un colloquio che temeva dovesse avere una conclusione salutare: –– Signor abate, esclamò, finitela dunque; non vedete che il signor di Voltaire gitta sangue e non è in istato di parlare?
–– Eh, signore! lo interruppe il vecchio con impazienza; lasciatemi col signor Gaultier, che è mio amico e non mi adula.
Ma entrò alla sua volta anche la signora Denis sua nipote; e tanto pregò, che il Gaultier dovè licenziarsi, dopo avuta promessa che sarebbe potuto tornare.
Partito il Gaultier, un tal Wagnière, che era l'anima dannata del Voltaire, gli domandò: –– Ebbene come vi è piaciuto l'abate? –– Gli è un buon imbecille; rispose il Voltaire.
III.
Il giorno seguente fece esercitare innanzi a sè i commedianti che avevano da rappresentare la sua
Irene. Ma s'incollerì di molto, perchè non recitavano a modo; e il 25, mentre dal letto dettava al suo Wagnière, ebbe tosse e violenti sbocchi di sangue. Si corse testo pel medico e pel prete. Il signor Tronchin, protestante, ma non empio, benchè si fosse già prima guastato col Voltaire, nondimeno accettò di prenderlo in cura.
Intanto il Tronchin e l'abate Gaultier si erano accordati. Questi avendo informato l'Arcivescovo ed il curato di san Sulpizio della visita fatta al vecchio miscredente, si era provveduto dei consigli e delle facoltà necessarie, per governarsi con sicurezza e prudenza. D'altra parte il Voltaire aveva consultato il celebre Dalembert, gran capo e maestro ancor egli di
filosofia:il quale gli avea risposto che in questa congiuntura facesse come gli altri
filosofi che lo aveano preceduto, e ricevesse
con rispetto quel che ricever dovea. Il che era un dirgli che si mostrasse ipocrita consumato.
–– Sono dello stesso parere; soggiunse il Voltaire; non bisogna farsi gittare in un letamaio: ed alludeva alla sepoltura comune, che gli sarebbe stata negata di ufficio, se avesse rifiutato il prete e i sacramenti. Ora egli, sopra ogni, cosa, aveva a cuore di essere onoratamente ed anche pomposamente seppellito in una chiesa.
Ordinò dunque che si chiamasse l'abate Gaultier: e perchè non si vide con sollecitudine obbedito, il 26 egli e la nipote scrissero all'abate medesimo, che il domani, condottosi alla casa Villette, non potè per altro essere ammesso nella stanza dell'infermo Il 28, prevedendo assai bene, che la ritrattazione di tante bestemmie e di tante lubricità, messe a stampa, gli sarebbe chiesta come necessaria condizione per ricevere i sacramenti, il Voltaire pensò di annullarne l'effetto prima di farla: quindi scrisse di suo pugno e sottoscrisse queste parole che confidò al Wagnière:
Muoio adorando Dio, amando gli amici, non odiando i nemici e detestando la superstizione. Si sa che sotto il vocabolo di
superstizione era intesa la fede e religione di Cristo: e con questo vile e codardo artifizio, di fingere per paura degl'increduli da un lato e della Chiesa dall'altro, il patriarca del moderno
libero pensiero si apparecchiava alla morte. L'infelice pretendeva di burlare tutti e Dio stesso; e non si accorgeva ch'egli burlava solo sè medesimo.
Il 2 marzo, essendo peggiorato, il Gaultier corse presso l'infermo e fu introdotto. Poco innanzi ragionando col Dalembert, che lo esortava a tacere: –– Bisognerà bene, disse il Voltaire, che, buono o mal mio grado, parli. Oggi dovrò fare il salto mortale.
Appena entrato nella stanza il Gaultier fu preso per la mano dall'infermo, che lo pregò di ascoltarlo in confessione. –– Volentieri, disse l'abate; ho tutte le facoltà per assolvervi. Ma innanzi tutto è necessario che vi ritrattiate.
Il Voltaire si profferse di scrivere immediatamente una formola, che sarebbe di piena sodisfazione del Gaultier. Mandò fuori della stanza tutti i convenutivi per apportargli di che scrivere, e solo, alla presenza dell'abate, mise in carta queste parole:
«Io sottoscritto dichiaro, che da quattro giorni patendo vomito di sangue, all'età di ottantaquattr'anni, e non avendo potuto trascinarmi alla chiesa, il sig. curato di san Sulpizio avendo voluto alle altre sue buone opere, aggiunger quella d'inviarmi il sig. Gaultier sacerdote; io mi sono confessato con lui, e se Dio mi toglie di vita, muoio nella santa Chiesa cattolica, nella quale son nato; sperando dalla divina misericordia che si degnerà perdonarmi tutte le colpe. Se avessi mai scandalizzata la Chiesa, ne dimando perdono a Dio e ad essa. 2 marzo 1778.»
Il Voltaire sottoscrisse questa dichiarazione; fece introdurre nella stanza l'abate Mignot e il Villevieille; lesse loro l'atto e richiese che ambedue, quali testimonii, lo sottoscrivessero. Dopo ciò alla scrittura aggiunse queste altre parole:
«Il sig. abate Gaultier avendomi riferito, che alcune persone spacciavano che io protesterei contro tutto quello che fossi per fare in punto di morte, io dichiaro di non aver mai detto ciò, e che questa è una vecchia celia da molto tempo in qua apposta falsissimamente a parecchi dotti più illuminati di
Voltaire[3].»
L'infermo diede il foglio all'abate Gaultier, con una cambiale di seicento lire pei poveri della parrocchia di san Sulpizio, pagabile dopo la sua morte, e gli disse: –– Voi certamente pubblicherete subito questa ritrattazione nei giornali.
–– Non ci è fretta; rispose l'altro.
–– Ma ne siete almeno contento?
–– Non mi pare abbastanza esplicita. Del resto io ne conferirò con chi devo. E così il Gaultier si ritirò.
IV.
Ecco tutto quello che intervenne, nel corso di questo primo periodo della malattia del Voltaire. È falso che egli ricevesse il sacramento della penitenza: ma lo asserì nella dichiarazione, per furberia. L'abate Gaultier, stando agli ordini avuti, innanzi di confessarlo, richiese l'atto di ritrattazione: ma giudicato insufficiente quest'atto, qual era espresso di mano propria dell'infermo, lo accettò per mostrarlo ai superiori ecclesiastici, nè si ardi di procedere oltre nell'opera del ministero sacerdotale.
L'arcivescovo ed il parroco non approvarono punto la ritrattazione, che in sostanza era derisoria, giacchè metteva persino in dubbio, con una particella condizionata, lo scandalo dato alla Chiesa; quasi che si potesse credere che l'immondezzaio di tante bestemmie e di tante brutture, uscite dalla penna dell'empio scrittore, non avesse scandalizzato il mondo. Per questo l'abate tornò il giorno seguente alla casa Villette, domandando un atto meno ambiguo e più pieno. Ma gli fu tenuta porta; ed esso ne indovinò il perchè. I signori Diderot, Dalembert e Marmontel, tre visibili demonii custodi dell'impenitenza del vecchio, si erano sgomentati delle sue velleità di devozione. Ogni mattina però il buon abate seguitò a picchiare all'uscio, sebbene indarno. Nè stanco di ciò, il 15 ed il 30 marzo scrisse pietose lettere al malato, che nulla fruttarono. Stimò dunque meglio di non fare, per allora, più altro.
Il curato ancora si provò di penetrare in quella casa e d'indurre l'infermo a compir bene l'atto della ritrattazione. Se non che questi ricusò di ammetterlo, col pretesto di un'umiltà, che in bocca sua era scherno. I preti si ritirarono dunque da lui e lo abbandonarono alla sua ipocrisia. Non così i
filosofie i settarii, che non cessarono di rinfacciargli l'onta della
debolezzamostrata coll'abate Gaultier. Ma egli se ne discolpava ripetendo: ––Non voglio che il mio corpo sia buttato nel letamaio. E per questa ragione, mentendo sempre al suo solito, diceva a molti di quelli che lo visitavano, ch'egli si era confessato. Con questo dire sperava che la notizia della sua confessione giugnerebbe fino alla corte, e gli agevolerebbe, dopo morte, i funerali cristiani.
Avvistosi poi che i suoi infingimenti a nulla servivano, e che nessuno nella corte e nella città dava fede alle sue imposture, si adirò contro la
prêtraille e risolvè, appena il potesse, di ripartire per Ferney, ove niun prete, diceva egli, lo avrebbe perseguitato.
V.
Ma non fu vero. La nipote, gli amici e i settarii seppero così bene pascere la senile sua vanità, col racconto degli applausi i quali la sua
Irene riportava ogni sera al teatro, e colla promessa di quelli che vi otterrebbe, quand'egli potesse farvi comparsa in un palco, che a partirsi di Parigi non pensò più.
Il 21 marzo di fatto, riavutosi alquanto, uscì in carrozza a passo lento per le vie della città, ed ebbe un corteggio di curiosi che lo racconsolò tutto. Rientrato in casa, si trovò in faccia una deputazione di quaranta frammassoni della loggia delle
Nove Sorelle, con a capo il
venerabileLalande che, a nome di tutti, lo adulò con finissime lodi. Finalmente il dì 30, con grande solennità, dopo condottosi nell'Accademia che lo accolse tra onori da semidio, passò, accompagnato dagli evviva di tutta la marmaglia parigina che faceva ala e coda alla carrozza, nel teatro e vi ebbe trionfi senza fine. Colà fu coronato di fiori, tanto in persona come in figura; sì che tutto commosso ebbe a sclamare: –– Ah, voi mi volete far morire di gloria, soffocare fra le rose!
Inebriato dalle acclamazioni e dalle cortigianerie della setta, che intendeva glorificare in lui il nemico acerrimo di Gesù Cristo, il 7 aprile fece l'ingresso nella sopraddetta loggia massonica delle
Nove Sorelle e vi fu, con tutte le forme rituali, ammesso come adepto. Secondochè attesta il Condorcet, egli era stato ricevuto nella massoneria fino dal 1728, al tempo del suo esiglio in Inghilterra: ma ora, cinquant'anni dopo, gli conveniva sancire, con una novella iniziazione, le riforme introdottesi nel rito. Così trascorse tutto il mese fra le agitazioni delle feste, i complimenti, le visite e le onorificenze che lo gonfiavano, lo stordivano, ma non lo tranquillavano. Il pensiero della morte, che sentiva appressarsegli, non gli dava pace nè tregua. Entrante il maggio, si era ingolfato nell'impresa di rifare il dizionario dell'Accademia sopra il modello della Crusca fiorentina; e questa enorme fatica lo inquietò e gli cagionò tante stizze, che in breve ne ricadde malato: sebbene l'abuso ch'egli fece del caffè, per tenersi desto, e l'errore di aver inghiottita una boccetta intera di elisire oppiato affrettassero la ricaduta, dalla quale non dovea più riaversi.
«Io morrò, se posso, ridendo» aveva scritto il Voltaire, nel giugno 1766, all'amico Dalembert. Ma s'ingannò. Il riso già non fioriva più in quel suo labbro beffardo, che avea proferiti sì orribili lazzi contro Dio e il suo Cristo.
Il suo medico Tronchin invece colse meglio nel segno, quando scrisse al fratello: «Voltaire è gravemente malato. S'egli muore gaiamente, come lo ha promesso, dovrò dire che mi sono ingannato. In presenza degli amici intimi si sbottonerà e farà vedere, col dispetto e la poltroneria, una gran paura di lasciare il certo per l'incerto. Il cielo della vita avvenire non è così sereno, come quello delle isole d'Hyères o di Montauban, per un ottuagenario codardo di natura e un pochino ritroso verso l'eternità. Io lo credo assai tristo pel fine che si approssima, e scommetto che non vi scherza sopra. La morte sarà un duro passo pel Voltaire. Se la testa gli regge sino all'ultimo, darà di sè uno spettacolo abbietto.»
VI.
Andando sempre l'infermo di male in peggio, il dottore Tronchin gli significò, fuor d'ambagi, la sentenza di morte.
–– Salvatemi! gli disse supplichevole il Voltaire.
–– È impossibile, bisogna morire! replicò il medico.
Il 30 maggio l'abate Gaultier, fatto inteso dello stato estremo dell'infelice, gli avea scritto ancora: e la sera l'abate Mignot andò a cercarlo da parte del moribondo, il quale sicuramente non lo avea chiesto e molto meno aveva letto il bigliettino suo. Il Gaultier portava seco una ritrattazione espressissima ed avea voluto che il curato di san Sulpizio ne fosse testimonio. La ritrattazione fu letta ed approvata dal Mignot, che s'impegnò di farla sottoscrivere, e dal marchese di Villette, che dichiarò di non opporsi alla sottoscrizione. Ambedue sapevano troppo, che il malato nè vorrebbe nè potrebbe firmarla. Introdotti i due sacerdoti nella camera del Voltaire, il curato parlò pel primo: ma non potè farsi riconoscere. scere. Il Gaultier parlò dopo, e sperò un momento, in sentirsi prender le mani dal Voltaire. Senonchè si avvide che questi propriamente o era o si fingeva in delirio. Uscirono pertanto premendo con vive istanze quei di casa che li avessero richiamati, subito che il delirio fosse cessato. Ma poche ore dopo il morente spirò.
Tal è la narrazione genuina dell'abate Gaultier. I circostanti aggiunsero a questo racconto altre particolarità che fanno ribrezzo; com'è verbigrazia questa, che il curato avendo interrogato il moribondo, se credesse nella divinità di Gesù Cristo, questi ributtando col braccio il ministro di Dio e voltandogli il dorso gridò: ––Lasciatemi morire in pace! Il Condorcet narra anzi che soggiunse l'atroce bestemmia: –– Nel nome di Dio, non mi parlate di quell'uomo!
Quel che accadde fra la partenza dei due sacerdoti e l'ultimo sospiro del Voltaire, si volle dapprima dissimulato e sepolto nel silenzio dai congiurati settarii, cui importava molto far credere che quest'uomo, empissimo fra gli empii e coll'anima rosa dall'odio di Gesù Cristo, si fosse addormentato in un placido sonno, senza inquietezze e senza turbamento. Ma la terribile verità di questa morte non potè a lungo nascondersi. Osserva giustamente l'autorevolissimo Barruel che, dopo ritiratisi i ministri di Dio da quella casa, tenuta in assedio dai fratelli massoni del disgraziato che agonizzava, i soli demonii ebbero libero accesso al suo letto: e gli assedianti, nei furori e nelle disperazioni del loro maestro, furon condannati a gustare l'amarezza delle lor proprie umiliazioni
[4]. –– Io son abbandonato da Dio e dagli uomini! urlava egli con impeti di rabbia; andatevene! gridava a questi amici. Io potea fare senza di voi; ma voi non potevate fare senza di me! Ecco la bella gloria che mi avete procurata!
Nel colmo dei terrori e delle angosce che gli mettevano il cuore in tempesta, prorompeva ora in bestemmie ed ora in invocazioni di quel Dio, che egli per tanti anni e con tanto livore avea combattuto, maledetto, esecrato. Spesso, con voce di lamento, o con sospiri strappatigli dal rimorso, e più spesso con un rantolo furibondo, sclamava: –– Gesù Cristo! Gesù Cristo!
La scena era così spaventevole, che il famoso Richelieu, presente, non potè più reggervi; e fuggì inorridito, con dire come fuor di sè: –– In verità la cosa passa il segno; non è possibile restare più qui.
VII.
Colà, dentro quella vera anticamera dell'inferno, di orrore si passava in orrore. Lo sventurato Voltaire si contorceva nel letto e si stracciava colle unghie le carni. Implorava l'abate Gaultier: ma i guardiani spietati della setta tenean duro. Il patriarca dei
filosofidoveva inesorabilmente morire da
filosofo;senza Dio, senza prete, senza pace. All'avvicinarsi del momento supremo, il morente precipitò in un eccesso incredibile di disperazione. –– Sento, gridava con rantolosa voce, sento una mano che mi trascina al tribunale di Dio: e volgendosi con occhio da esterrefatto verso il muro di fianco; –– Il diavolo è là; mi vuole afferrare.... lo veggo... veggo l'inferno... toglietemelo dalla vista! E poco dopo, arso dalla sete e sovrapreso da uno sgorgo di sangue, diè di piglio al vaso da notte pieno di immondezze che gli stava accosto, se lo appressò alle labbra, lo votò e rivomitando dalla bocca lo sterco ed il sangue, esalò, fra gli artigli di Satana, l'anima scellerata.
Tutti questi ed altri terrifici particolari furono di poi riferiti da testimonii di vista: e il dottore Tronchin, tre settimane dopo il pauroso fatto di questa morte, e fu il 20 giugno 1778, così scriveva a Carlo Bonnet in una lettera, il cui originale si conserva tuttora in Ginevra. «Se avessi bisogno di stringere il nodo dei miei principii, l'uomo che ho veduto deperire, agonizzare e spirare sotto i miei occhi, ne avrebbe formato un nodo gordiano. Paragonando la morte dell'uomo virtuoso, la quale non è che il tramonto di un dì sereno, con quella del Voltaire, ho toccata con mano la differenza che corre fra un giorno bello e una tempesta. Non posso rammentarmene senza raccapriccio. Non appena si accorse, che tutto il fatto da lui per accrescer le forze era riuscito all'opposto, la morte gli fu sempre in faccia: e da quel momento la rabbia ne occupò l'anima. Ricordate le furie di Oreste: così è morto il Voltaire:
Furiis agitatus obiit.
Più tardi i domestici di casa Villette ebbero la lingua sciolta, e conclusero i loro racconti con dire: –– Se il diavolo potesse morire, non morrebbe che come Voltaire.
Anzi la stessa marchesa de Villette, ravvedutasi in età più matura, tessè più di una volta la narrazione degli ultimi momenti del misero uomo, mortole in casa. Or tutto ella svelò, nulla tacque; e sopra tutto non tacque mai delle immondizie di cui egli si era empita la bocca, nell'atto di spirare.
Così, esclama il Maynard, così finì, verso le undici ore di sera del 30 maggio 1778, questo lungo festino di Baldassarre, durante il quale l'empio aveva contaminati tutti i vasi a Dio sacri. Ma il sacrilego era morto di terrore, vedendo una mano ultrice scrivere, nel muro della sua funebre stanza, e gittargli in isfida la formola stessa della sua bestemmia: –– Orsù, atterra dunque l'
Infame!
VIII.
Terminando ancora noi questo racconto, inviteremo i cattolici a trarre dalla commemorazione del mostruoso centenario, che la setta di Satana nei presenti giorni festeggia, due buone conseguenze.
La prima è, che nel Voltaire esemplarmente e pienamente si avverò la più tremenda delle minacce, che Dio abbia fatte agli ostinati oltraggiatori del santo suo nome e della sovrana maestà del suo Cristo:–– Voi mi cercherete,
quaeretis me, e morrete nel vostro peccato:
et in peccato vestro moriemini [5]. Nell'estremo punto anche il Voltaire cercava Dio ed il suo ministro, che avea beffato e scornato, quand'era ancora in tempo di valersene, per ottenere il perdono: ma era tardi e morì nel suo peccato. Ed altrove il Signore Iddio così parla a chi si ride di lui e della sua pazienza nel sopportare le offese: –– Io pure nella perdizione vostra,
in interitu vestro, riderò e vi schernirò,
irridebo et subsannabo[6]. In quel punto, il disgraziatissimo Voltaire vide, sentì e confessò quanto formidabile sia lo scherno dell'Onnipotente, vendicatore delle beffe all'onor suo ed alla sua Chiesa fatte. Come Iddio ripagò l'empio colla stessa sua moneta! Come lo sottopose a una durissima pena di taglione! In cambio delle preghiere con cui la Chiesa santamente conforta i moribondi fedeli, ebbe i motteggi e gli spregi de' suoi compagni; ed in cambio del pane eucaristico, ch'egli avea profanato colle sue bestemmie e co' suoi sacrilegi, si ebbe ed inghiottì lo sterco. Oh, il bello e salutare frutto, che tanti possono ricavare dalla secolare memoria di questa eloquentissima manifestazione della giustizia di Dio!
L'altra conseguenza è, che dalla morte del gran corifeo e patriarca del
libero pensiero, s'impara a conoscere il valore della moderna incredulità. Ecco l'uomo che spese ben sessant'anni della sua lunga vita, a negare ed irridere Cristo, il giudizio divino e l'inferno, venuto al passo ultimo, invocare, nelle smanie della disperazione, questo Cristo così da lui rinnegato e vituperato, riconoscere che il divino giudizio è per lui imminente, e gridare e rigridare che l'inferno esiste, e lo vede e ne sperimenta anticipati gli ardori. Questa è la prova che si miscrede a fior di labbro, ma nel fondo del cuore si crede; benchè si creda a guisa dei demonii, che
credunt et contremiscunt [7]. Ah, l'inferno predicato vero e descritto dal Voltaire nel letto di morte, quale convincente lezione è mai, per tanti che si vantano di non credere all'inferno! Si giovino costoro dell'odierno centenario, che tutta la massoneria celebra e solennizza.
Badino però gli adepti e i proseliti della religione del Voltaire, che essi, onorando la morte di quest'uomo e facendone insieme un idolo ed un simbolo della loro fede e delle loro speranze, non possono storicamente compendiar tutto in altro, che in quel vaso, il cui tracannamento fu l'atto finale della sua vita.
O frammassoni dei due emisferi,
ecce quem colitis! Suvvia, piegate le ginocchia a terra e adorate Francesco Voltaire, che muore divorando il suo sterco!
NOTE:
[1]
Voltaire, sa vie et ses oeuvres parM. l'Abbé Maynard, chanoine honoraire de Poitiers, Vol. 2, Paris, Bray, 1868.
[2] A questo proposito, bello è l'acrostico pubblicatosi testè in Francia, per occasione del centenario di questo schifosissimo uomo.
Vulgariser l'erreur, et salir la vertu,
Oser mentir, mentir, et dans quelque impromptu,
Libelle, ode, poëme ou bien lettre badine,
Traîner jusqu'à l'égout sa muse libertine,
Aduler Fridéric, flatter la Pompadour,
Insulter Jeanne d'Arc en termes de pandour,
Rougir d'être Français, déshonorer son ère
Est-ce là mériter l'honneur d'un centenaire?
[3] Questa dichiarazione, copiata sul processo verbale, fu deposta presso il Momet, pubblico notaio di Parigi. V.
Barruel,
Mémoires pour servir à l'histoire du Jacobinisme. Vol. II, pag. 375, edizione di Londra 1797.
[4] Loc. cit. pag. 377.
[5] Ioan. VIII, 21.
[6] Prov. I, 26.
[7] Iac. II, 19.
[...] nel Voltaire esemplarmente e pienamente si avverò la più tremenda delle minacce, che Dio abbia fatte agli ostinati oltraggiatori del santo suo nome e della sovrana maestà del suo Cristo: –– Voi mi cercherete,
quaeretis me, e morrete nel vostro peccato:
et in peccato vestro moriemini. Nell'estremo punto anche il Voltaire cercava Dio ed il suo ministro, che avea beffato e scornato, quand'era ancora in tempo di valersene, per ottenere il perdono: ma era tardi e morì nel suo peccato. Ed altrove il Signore Iddio così parla a chi si ride di lui e della sua pazienza nel sopportare le offese: –– Io pure nella perdizione vostra,
in interitu vestro, riderò e vi schernirò,
irridebo et subsannabo. In quel punto, il disgraziatissimo Voltaire vide, sentì e confessò quanto formidabile sia lo scherno dell'Onnipotente, vendicatore delle beffe all'onor suo ed alla sua Chiesa fatte. Come Iddio ripagò l'empio colla stessa sua moneta! Come lo sottopose a una durissima pena di taglione! In cambio delle preghiere con cui la Chiesa santamente conforta i moribondi fedeli, ebbe i motteggi e gli spregi de' suoi compagni; ed in cambio del pane eucaristico, ch'egli avea profanato colle sue bestemmie e co' suoi sacrilegi, si ebbe ed inghiottì lo sterco. Oh, il bello e salutare frutto, che tanti possono ricavare dalla secolare memoria di questa eloquentissima manifestazione della giustizia di Dio!