Questa complessità risultava evidente già dagli antecedenti della questione. Contrariamente a quanto accade negli altri Paesi europei - Francia e Portogallo, ad esempio - la composizione della nobiltà italiana è estremamente eterogenea. In effetti, prima del processo di unificazione politica avvenuto nella penisola nel secolo passato, i vari sovrani che esercitavano il loro potere su una parte del territorio italiano hanno concesso titoli di nobiltà: Imperatori del Sacro Impero Romano-Germanico, Re di Spagna, delle Due Sicilie, della Sardegna, Granduchi di Toscana, Duchi di Parma, e altri ancora, senza parlare del patriziato di città come Firenze, Genova e Venezia, e soprattutto - ciò che più interessa nel presente studio - i Papi. Anche questi ultimi, sovrani di uno Stato relativamente esteso, concedevano titoli nobiliari, e continuarono a concederli perfino dopo l'estinzione de facto della loro sovranità temporale negli antichi Stati Pontifici.
Quando si consumò, nel 1870, l'unificazione italiana, con l'occupazione di Roma da parte delle truppe piemontesi, la Casa di Savoia tentò di amalgamare queste diverse nobiltà.
Politicamente e giuridicamente l'intento fallì. Molte famiglie nobili si mantennero fedeli alle dinastie deposte, dalle quali avevano ricevuto i loro titoli. In particolare, buona parte della aristocrazia romana continuò a comparire ufficialmente, secondo la tradizione, nelle solennità del Vaticano, rifiutò di riconoscere l'annessione di Roma all'Italia, respinse qualsiasi avvicinamento col Quirinale, e chiuse i suoi salotti in segno di protesta. A questa nobiltà che prese il lutto si diede il nome di Nobiltà Nera.
Tuttavia, socialmente parlando, l'amalgama si realizzò in grado notevole, mediante matrimoni, relazioni sociali, etc., per cui l'aristocrazia italiana costituisce ai nostri giorni, almeno sotto molti punti di vista, un tutt'unico (?, N.d.r.).
Il Trattato Lateranense del 1929, nel suo articolo 42, assicurava tuttavia alla nobiltà romana una situazione speciale, poiché riconosceva al Papa il diritto di continuare a conferire titoli nobiliari e accettava quelli conferiti anteriormente dalla Santa Sede. In questo modo, continuarono legalmente a coesistere fianco a fianco - e da allora pacificamente - le due nobiltà, quella italiana e quella romana.
Il Concordato del 1985, stabilito tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, non fa alcuna menzione di questo argomento.
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La situazione della nobiltà italiana come del resto quella della nobiltà europea in genere - non mancò di presentare aspetti complessi.
Nel Medioevo, la nobiltà costituiva all'interno dello Stato una classe sociale con funzioni specifiche, alle quali erano legate determinate onorificenze nonché corrispondenti incarichi.
Nel corso dell'epoca moderna, questa situazione è andata perdendo gradualmente la sua consistenza, rilevanza e lucentezza, sicché anche prima della Rivoluzione del 1789 la distinzione tra nobiltà e plebe era molto meno marcata che nel Medioevo.
Nel corso delle rivoluzioni ugualitarie del secolo XIX, la situazione della nobiltà subì successive mutilazioni, fino al punto che, nella monarchia italiana della fine della II Guerra Mondiale, il potere politico della nobiltà sopravviveva a malapena nella condizione di prestigiosa tradizione, vista d'altronde con rispetto e affetto dalla maggioranza della società. Contro questo residuo, la Costituzione repubblicana tentò di vibrare l'ultimo colpo.
Ora, mentre si delineava così accentuatamente, nel quadro storico, la curva discendente del potere politico dell'aristocrazia, la situazione sociale ed economica di questa seguiva la stessa direzione, sebbene più lentamente. Per le sue proprietà agricole e urbane, i suoi castelli, i suoi palazzi, i suoi tesori artistici, per la rilevanza sociale dei suoi nomi e dei suoi titoli, per l'insigne valore morale e culturale del suo tradizionale ambiente domestico, delle sue buone maniere, del suo stile di vita, la nobiltà, all'inizio del secolo, si trovava ancora all'apice dell'organizzazione sociale.
Le crisi derivanti dalla I Guerra Mondiale provocarono alcune modifiche a questo quadro, privando parte delle famiglie nobiliari dei loro mezzi di sussistenza e obbligando molti dei loro membri ad assicurarseli - per quanto onestamente e dignitosamente - esercitando professioni in contrasto con la psicologia, le abitudini e il prestigio sociale della classe.
D'altra parte, la società contemporanea, modellata sempre più dalla finanza e dalla tecnica, creava nuovi rapporti e situazioni, come pure nuovi centri di influenza sociale, abitualmente estranei ai quadri classici dell'aristocrazia. Così, tutto un nuovo ordine di cose andava nascendo a fianco dell'antico, che ancora viveva, diminuendo a sua volta l'importanza sociale della nobiltà.
A ulteriore detrimento di questa ultima classe, si aggiungeva infine un fattore ideologico di considerevole importanza. L'adorazione del progresso tecnico e dell'uguaglianza predicata dalla Rivoluzione del 1789 tendeva a creare un clima di odio, di prevenzione, di diffamazione e di sarcasmo verso una nobiltà basata sulla tradizione e trasmessa nel modo che la demagogia ugualitaria odiava di più, ossia mediante il sangue e la culla.
La II Guerra Mondiale provocò nuovi e più ampi rovesci economici a molte famiglie nobili, accentuando ancor di più la gravità dei numerosi problemi ai quali l'aristocrazia doveva far fronte. Si compiva così, in alto grado, la crisi di una grande classe sociale. Fu di fronte a questo scenario che Pio XII trattò della situazione contemporanea della nobiltà italiana, nelle sue allocuzioni al Patriziato ed alla Nobiltà romana, con evidente riferimento a tutta la nobiltà europea.