Dopo aver narrato le vicende principali che caratterizzarono l'alleanza "italo-prussiana" e l'inizio di "Quel fatal 1866" , è giunto il momento di entrare nel pieno degli eventi che segnarono le vicende belliche della terza guerra di espansionismo sabaudo.
L'italietta sabauda dal 1861 alla guerra del 1866:
I progetti d'espansione sabauda tra "Questione romana" e "Questione veneta".
Vittorio Emanuele II |
Il diabolico primo ministro Cavour, morì il 6 giugno 1861 e il Re di Sardegna , che ora si faceva chiamare "re d'Italia" , diede l’incarico di formare il nuovo governo a un ambiguo settario tristemente famoso in Toscana, Bettino Ricasoli. Costui privilegiò la così detta “Questione romana” a quella veneta, poiché riteneva che era dalla capitale pontificia che l'insurrezione partigiana nelle Due Sicilie , che combatteva fieramente contro la nefasta unità d'Italia , traeva maggiore forza e alimento.
Urbano Rattazzi |
La “Questione romana” fu di nuovo affrontata solo dal 21 giugno 1864, quando Napoleone III, desideroso di elemosinare guadagni durante la crisi tra Prussia e Austria per i ducati danesi, propose lo sgombero delle proprie truppe da Roma. La condizione era che la capitale del Regno fosse spostata da Torino in un’altra città, il tutto regolato in un trattato internazionale affinché il governo sabaudo rinunciasse definitivamente a Roma. Il presidente del Consiglio Marco Minghetti, altro celebre massone, valutando con furbizia positivamente lo sgombero dei francesi, accettò la proposta e riuscì anche a convincere il Savoia.
La cosiddetta convenzione di settembre tra l’Italia sabauda e Francia fu firmata a Parigi il 15 settembre 1864. Con essa Napoleone III , per puro interesse politico, lasciò Roma senza il supporto difensivo delle sue truppe e il governo sabaudo si impegnava a rispettare l’integrità territoriale dello Stato Pontificio. Un articolo stabiliva il trasferimento della capitale del Regno da Torino a città da stabilirsi. Torino insorse e il governo Minghetti cadde, ma, senza la minima considerazione degli eventi, i patti furono mantenuti, almeno per il momento, e la capitale dell'artificiale Regno fu trasferita a Firenze.
Ristabilita un apparente fiducia nei rapporti con la Francia, il governo sabaudo poteva ora affrontare e pianificare l'usurpazione del Veneto.
Con la firma del trattato di alleanza "italo-prussiana" avvenuta Berlino l’8 aprile 1866 , l'italietta sabauda alleata alla potenza militarista prussiana si preparò all'ennesima guerra di aggressione ed espansione. Subito dopo l'entrata in guerra dell'alleata Prussia il 16 aprile 1866, l’Italia sabauda dichiarò guerra all’Impero d'Austria il 20 giugno , il 23 sarebbero iniziate le ostilità.
La guerra sul fronte meridionale:
la terza guerra di espansionismo sabaudo, la "guerra satellite".
Il fronte meridionale della guerra austro-prussiana , se dobbiamo valutare gli eventi per quello che realmente furono, prende il nome di terza guerra di espansionismo sabaudo perché seguì la guerra règia del Regno di Sardegna contro l’Impero d'Austria del 1848-1849 (prima guerra di espansionismo) e il conflitto del Regno di Sardegna e della Francia sempre contro l’Impero d'Austria del 1859 (seconda guerra di espansionismo).
L’esercito sabaudo:
Giuseppe Garibaldi |
Le 20 divisioni "italiane" erano riunite in 4 corpi d’armata. 3 corpi di 4 divisioni ciascuno lungo il fiume Mincio e un grosso corpo d’armata di 8 divisioni nelle Romagne, lungo il tratto finale del fiume Po. Si trattava di una forza che complessivamente oscillava da 190.000 a 200.000 combattenti di fanteria con 10.500 cavalleggeri e 462 cannoni (per il 90% coscritti) ; alla quale bisognava aggiungere 38.000 mercenari garibaldini. Una forza notevole di numero ma di scarsissimo valore combattivo e in una posizione strategicamente inferiore rispetto a quella degli Imperiali che possedevano le fortezze del Quadrilatero dalla parte del Mincio e una zona protetta dal Po, canali, paludi e dall’Adige dalla parte di Ferrara, senza contare l'appoggio popolare.
L’esercito Imperial-Regio nel Veneto :
Il teatro della terza guerra di espansionismo sabaudo |
Dei 10 corpi d’armata dell’Impero , 3 si trovavano sul teatro di guerra meridionale. A queste forze bisognava aggiungere quelle dei presidi delle fortezze del Quadrilatero e le forze della difesa del Tirolo, in gran parte volontarie. Cosicché le forze Imperiali che il fronte meridionale del conflitto vincolava ammontavano a 190.000 uomini, anche se in campo l’Impero d'Austria poneva solo 61.000 combattenti, con 152 cannoni e 3.000 cavalleggeri, a cui si dovevano aggiungere 11.000 uomini della divisione di riserva creata all’ultimo momento attingendo dai volontari arruolatisi nei presidii delle fortezze. Comandante dell’armata in Veneto era l’arciduca Alberto d'Asburgo-Teschen.
Allo scoppio della guerra le fila dei Reggimenti arruolati nelle province venete si ingrossarono :
Reggimento n. 13 Wimpfen, con distretto d’arruolamento Padova e Venezia.
Regg.to n. 16 Conte Zannini, Vicenza e Treviso.
Regg.to n. 26 Ferdinando d’Este, Udine.
Regg.to n. 38 Haugwitz, misto di mantovani e veronesi.
Regg.to n. 45 Arciduca Sigismondo, formato da reclute veronesi e rodigine.
I piani e la composizione dei corpi d'armata
La Prussia voleva colpire al cuore l’avversario trascurando le operazioni secondarie e puntare da nord sul Danubio e Vienna. Analogamente chiese all’esercito sabaudo di avanzare risolutamente e giungere con il grosso delle forze a Padova. Da qui le divisioni avrebbero proseguito verso l’Isonzo, appoggiate dalla flotta e sostenute sul fianco destro dell’avanzata da una spedizione di Garibaldi in Dalmazia e dall’insurrezione ungherese che sarebbe stato in progetto di provocare grazie ai contatti con le logge ungheresi.
La proposta prussiana si scontrò, oltre che con le carenze della flotta sabauda , soprattutto con la mancanza di unità di comando dell’esercito. Comandante supremo era Vittorio Emanuele II e suo capo di stato maggiore il criminale Alfonso La Marmora (che aveva lasciato la carica di presidente del Consiglio a Bettino Ricasoli), ma l’esercito era diviso in due masse: per agire dal Mincio e dal basso Po. Fautore dell’azione dal Po era il sanguinario generale Enrico Cialdini, che, gradasso e convinto di aver talento militare, esigeva la massima autonomia e al quale fu affidata l’impresa di attaccare gli Imperiali da sud con le 8 divisioni presso Ferrara. Mentre La Marmora, sostenitore dell’azione dal Mincio, comandava, di fatto, le altre 12 divisioni.
Le unità dell'esercito sabaudo:
Alfonso La Marmora |
- Il 1° Corpo d’armata, al comando di Giovanni Durando e formato dalla 1ª Divisione di Enrico Cerale (1804-1873), dalla 2ª Divisione di Giuseppe Salvatore Pianell (ex generale borbonico), dalla 3ª Divisione di Filippo Brignone, dalla 5ª Divisione di Giuseppe Sirtori (ex garibaldino) e dalla 1ª Brigata di cavalleria di Alibardi Ghilini;
- Il 2° Corpo d’armata, al comando di Domenico Cucchiari (toscano) e formato dalla 4ª Divisione di Alessandro Nunziante (ex borbonico), dalla 6ª Divisione di Enrico Cosenz (ex garibaldino), dalla 10ª Divisione di Diego Angioletti (toscano), dalla 19ª Divisione di Longoni e da una brigata di cavalleria;
- Il 3° Corpo d’armata, al comando di Enrico Morozzo Della Rocca e formato dalla 7ª Divisione di Nino Bixio (ex garibaldino), dalla 8ª Divisione di Efisio Cugia, dalla 9ª Divisione di Giuseppe Govone, dalla 16ª Divisione di Umberto di Savoia (principe ereditario) e da una brigata di cavalleria.
Enrico Cialdini |
Le unità Imperiali:
l'Arciduca Alberto. |
Le unità da campo dell’Arciduca Alberto d'Asburgo-Teschen erano le seguenti:
5° Corpo d’armata, comandato da Gabriel Joseph Freiherr von Rodich (1812-1890) con 3 brigate;
7° Corpo d’armata, comandato da Joseph Freiherr von Maroičić di Madonna del Monte (1812-1882) con 3 brigate;
9° Corpo d’armata, comandato da Ernst Ritter von Hartung (1808-1879) con 3 brigate;
Divisione di fanteria di riserva, comandata da Rupprecht con 2 brigate;
Riserva di cavalleria con 2 brigate;
Corpo del Tirolo, comandato da Franz Kuhn von Kuhnenfeld.
Volontari Tirolesi.
L’incontro tra criminali di guerra a Bologna : La Marmora e Cialdini.
Alfonso La Marmora (a sinistra) ed Enrico Cialdini (a destra) |
I due generali non si chiarirono assolutamente . Cialdini credette accolta la sua proposta di limitare l’azione di La Marmora sul Mincio ad una dimostrazione, per poi attaccare lui risolutamente gli Imperiale. La Marmora, invece , credette convenuto che l’azione sul Mincio avrebbe potuto avere carattere autonomo.
Fatto sta che in una lettera privata del 19 giugno 1866 al ministro della Guerra sabaudo Ignazio Pettinengo, La Marmora scrisse che il «progetto Cialdini» sarebbe riuscito; e che il 21 giugno Cialdini da Bologna telegrafò di aver bisogno per passare il Po di una «seria dimostrazione»; il che vuol dire che riservava a sé l’azione principale. La Marmora rispose che avrebbe agito energicamente per attrarre su di sé il nemico, senza parlare però di “dimostrazione”, e ciò significa che non si voleva adattare a fare la parte secondaria. Cialdini annunciò pure che non avrebbe potuto iniziare il passaggio del Po che nella notte tra il 25 e il 26 giugno, anche perché la reazione popolare in quella zona fu incisiva contro le truppe sabaude, chiedendo che "la vigorosa azione dimostrativa" avesse luogo il 24. Solo il 23, quindi, l’armata del Mincio di La Marmora poté iniziare a passare il fiume a Valeggio e Goito.
Le truppe di La Marmora passano il Mincio
Giuseppe Salvatore Pianell |
Da parte sabauda si erano avute notizie di movimenti da Verona, ma esse non erano state trasmesse al comando supremo per merito dell'azione partigiana veronese e per l'incapacità dell'esercito tricolore. Tutti erano persuasi, quindi, che gli Imperiali si tenessero sulla difensiva, dietro l’Adige. Per il 24 giugno La Marmora dispose per il 1° Corpo di Durando che la 2ª Divisione (Pianell) rimanesse dietro il Mincio a sorvegliare Peschiera, e le altre 3 avanzassero oltre il fiume: la 1ª Divisione (Cerale) a circuire Peschiera dalla riva sinistra del Mincio, e le altre due a conquistare la zona collinare obiettivo anche degli Imperiali e avvicinarsi a Verona. Al centro il 3° Corpo di Della Rocca avrebbe occupato sia l’orlo collinare orientale (da Sommacampagna a Custoza), sia la sottostante piana di Villafranca. Infine, all’ala destra dell’armata di La Marmora, il 2° Corpo di Cucchiari, doveva passare il Mincio con 2 divisioni in modo da aggirare Mantova da nord e con altre 2 divisioni dispiegarsi da Curtatone a Borgoforte sul Po, 13 km. a sud di Mantova. Complessivamente lo schieramento sabauda si presentava piuttosto discontinuo, troppo esteso e con scarse riserve: in definitiva folle.
Delle 12 divisioni di La Marmora solo 6 si vennero a trovare di fronte agli Imperiali che, compatti, motivati e meglio diretti, avanzavano verso di loro: 50.000 soldati sabaudi contro 70.000 , per la maggior parte Veneti, dell’Arciduca Alberto.
La battaglia di Custoza : la vittoria veneta e la sconfitta dell'esercito sabaudo.
L’incontro dei due eserciti (ore 6,00-10,30):
Ulani Imperiali caricano nella pianura ad est di Custoza. |
Artiglieria Imperiale (1866) |
La lotta per le colline moreniche (ore 11-21,30):
Il 13° Reggimento Ulani carica a Villafranca i bersaglieri del 3° Corpo sabaudo. |
Durando, nel frattempo, era stato ferito ad una mano così da fornirli una scusa per abbandonare il campo e lasciare a Pianell il comando del 1° Corpo verso le 14. Così a Santa Lucia, la 5ª Divisione (Sirtori)tentava di contrattaccare e ripassava il Tione, e alle 11,30 le alture di Custoza venivano riprese dalla 9ª Divisione (Govone) del 3° Corpo e dai resti della 3ª Divisione (Brignone). Il generale Govone chiese invano rinforzi al suo comandante Della Rocca che disponeva di 2 divisioni in pianura (7ª e 16ª), ma che aveva anche ricevuto l’ordine di La Marmora di «tener saldamente Villafranca»: si ebbero parecchi disordini tra le fila sabaude. Alle 14,30 la 5ª Divisione veniva di nuovo attaccata da forze soverchianti del 5° Corpo Imperiale composto da veneti che alle 15 conquistarono Santa Lucia e poi Monte Vento. L’Arciduca Alberto, preparò allora l’attacco finale contro Custoza dove a malapena resisteva la 9ª Divisione di Govone. Costui alle 16 ne avvertì Della Rocca che rispose di volersi mettere in contatto con La Marmora. Alla stessa ora venne sferrato l’attacco risolutivo da parte del 7° Corpo e parte del 9°: 15.000 Imperiali , quasi interamente veneti , avanzarono contro 8 o 9.000 sabaudi, che, non solo disorganizzati e visibilmente afflitti dal malcontento, erano digiuni dal giorno prima. Cadde dapprima il Monte Croce, quindi il cerchio iniziò a chiudersi su Govone, che dandosela a gambe rimase ferito. Alle 17,00 Custoza era in mano agli Imperiali , ma gli invasori vennero costretti a continuare a combattere fin quasi alle 19,00: inutile dire che le diserzioni non furono una rarità.
La ricostruzione dell'attacco finale Imperiale a Custoza. |
Quanto alle perdite, l'esercito sabaudo contò 1.000 morti e 2.576 feriti; gli Imperiali 1.170 morti e 3.984 feriti. Ma i dispersi, disertori e i prigionieri sabaudi furono 4.101, mentre quelli Imperiali furono 2.802.
La ritirata sabauda dietro l'Oglio e il Panaro
Enrico Cialdini "il codardo". |
Il 25 giugno Cialdini, ancora titubante , ricevette nel pomeriggio il telegramma di La Marmora: «Austriaci gitattisi con tutte le forze contro corpi Durando e La Rocca li hanno rovesciati. Non sembra finora inseguano. Stia quindi all’erta. Stato armata deplorevole, incapace agire per qualche tempo, 5 divisioni essendo disordinate». A questo punto Cialdini, da vero codardo, dimostrò il suo "talento militare" rinunciò definitivamente a passare il Po, iniziando a sua volta la ritirata della sua armata sulla sponda sinistra del fiume Panaro. Il 26 mattina, La Marmora chiese a Cialdini di non abbandonare le sue posizioni ricevendone un rifiuto. Il capo di stato maggiore diede allora le dimissioni che sia il Savoia che il governo respinsero. Dopo un incontro fra i due generali, avvenuto il 29 giugno, finalmente Cialdini , assicurato di non rischiare troppo , decise essere venuto il momento di passare il Po, non prima, tuttavia, di aver espugnato la testa di ponte Imperiale di Borgoforte (sul fiume, 10 km. a sud di Mantova). Il 5 luglio iniziò l’assedio della fortezza che, contrariamente alle previsioni, fu un disastro e si protrasse fino al 18 luglio.
l'ammiraglio Carlo Pellion di Persano. |
Il 3 maggio 1866 il generale Diego Angioletti, ministro della Marina, aveva comunicato al contrammiraglio Giovanni Vacca, comandante la Squadra d'evoluzione con base a Taranto, che il governo aveva decretato di costituire un'Armata d'operazioni al cui comando era destinato l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano. L’Armata sarebbe stata articolata su tre squadre, ovvero una squadra da battaglia composta da fregate corazzate, al comando di Persano; una squadra sussidiaria composta da fregate e corvette ad elica, e una squadra d’assedio di legni corazzati minori. Il viceammiraglio Giovan Battista Albini e il contrammiraglio Vacca sarebbero stati agli ordini di Persano.
La fregata corazzata Principe di Carignano |
L'8 giugno l'ammiraglio ricevette le prime disposizioni per l’imminente apertura delle ostilità. Esse ordinavano di neutralizzare la flotta austro-veneta, stabilire ad Ancona la base operativa, e non attaccare Trieste e Venezia per non rischiare troppo. Non era chiaro però chi avrebbe dovuto impartire ordini a Persano, se il generale Alfonso La Marmora, capo di stato maggiore generale, ma interessato alle sole operazioni di terra, che gestì malissimo, oppure il ministro della Marina Angioletti.
Wilhelm von Tegetthoff |
Comandava la flotta austro-veneta Wilhelm von Tegetthoff. Costui , ammirato e rispettato dai suoi uomini, aveva guidato le navi nel 1864 contro i danesi rivelando elevata capacità decisionale, ed era, a differenza di Persano, confortato dalla fiducia dei suoi ufficiali e dei suoi marinai con i quali egli parlava in veneto!.
Agostino Depretis |
La flotta sabauda lasciò Taranto nella mattinata del 21 giugno, fu raggiunta da Formidabile e Terribile (che le vennero incontro da Ancona per rafforzare la squadra) nelle acque di Manfredonia e giunse ad Ancona nel pomeriggio del 25 giugno. La navigazione di trasferimento avvenne ad una velocità di soli 5 nodi, per prendere tempo e non sforzare troppo le macchine (ma ciò non eliminò del tutto le avarie).
Dato che il porto di Ancona non era in grado di ricoverare che poche unità, parte della flotta dovette ormeggiarsi a boe nella rada, procedendo poi alle operazioni di rifornimento di carbone che furono ostacolate da incendi causati da disordini sulla Re d’Italia e sulla Re di Portogallo. Venne inoltre stabilito che molte unità minori avrebbero ceduto parte della propria artiglieria alle unità corazzate, in modo da dotare queste ultime del maggior numero possibile di moderni cannoni a canna rigata da 160 mm.
La “sfida di Ancona”:
La Regina Maria Pia fotografata alla boa a Napoli, nel 1864. |
Allontanatasi la squadra austro-veneta , si tenne sulla Principe di Carignano un consiglio al quale parteciparono Persano, d’Amico, Vacca e altri due ufficiali. Si decise che, considerato lo stato dell'equipaggio delle navi, sarebbe stato meglio non inseguire il nemico, rientrare ad Ancona e riprendere il mare una volta che la squadra fosse stata rimessa in efficienza.
Persano istituì allora un capillare servizio di sorveglianza e contemporaneamente proseguì i tentativi di portare l'equipaggio della flotta ad un livello di efficienza appena accettabile. Con questa impostazione concordò il ministro della Marina Depretis che con una lettera del 4 luglio, esortando ad una «vigile difensiva», ribadì il pensiero del presidente del Consiglio Ricasoli di «non impegnare la flotta che colla sicurezza della vittoria»: cosa che sembrava semplice per il numero di navi corazzate ma assai difficile se si confrontava l'ardore dei marinai veneti al servizio del Tegetthoff.
La vittoria prussiana di Sadowa e le sue conseguenze
Vittoria prussiana a Sadowa. |
Napoleone III accettò la richiesta asburgica e il 5 luglio Vittorio Emanuele II ricevette il telegramma dell’Imperatore francese che gli annunciava la cessione del Veneto per mettere fine al conflitto. Il capo di stato maggiore Alfonso La Marmora , recitando un copione penoso, considerò umiliante la proposta di ricevere Venezia come dono dalla Francia e nello stesso tempo prospettò il pericolo per l’Italietta sabauda di essere accusata di tradimento per aver abbandonato la Prussia subendone le conseguenze . Anche il presidente del Consiglio Ricasoli era contrario a riconoscere la cessione dall’Impero d'Austria alla Francia del Veneto, cosa che avrebbe tolto all’esercito sabaudo il gusto di conquistarlo, usurparlo e depredarlo: cosa che comunque farà.
La Prussia, al contrario, pur continuando le operazioni accettò di trattare, anche perché erano in arrivo rinforzi Imperiali dal Veneto : l’Arciduca Alberto, aveva infatti avuto l’ordine di far partire uno dei tre corpi alla volta del fronte prussiano. Spronato da La Marmora con un telegramma del 6 luglio, Cialdini nella notte passò il Po entrando l’11 a Rovigo, accolto in una città deserta e visibilmente ostile, sgombra degli Imperiali rimasti, che ebbero l’ordine di abbandonare il Veneto e attestarsi a nord. Mutata la situazione internazionale con la battaglia di Sadowa e la proposta austro-francese, occorreva ora all’Italia sabauda una vittoria per recuperare velocemente un prestigio che non aveva mai avuto e che vergognosamente perse ulteriormente a Custoza. L’ammiraglio Persano ricevette il 6 luglio un incitamento del ministro Depretis ad agire: «Tenersi più che mai all’idea di combattere e di ricercare la flotta austriaca e di attaccarla». Ma l’incapace ammiraglio Persano tergiversava, in attesa dell’”ariete corazzato” Affondatore in arrivo dai cantieri britannici.
Il 12 luglio il diabolico primo ministro prussiano Bismarck si lamentò della debole condotta bellica dell’esercito sabaudo con i francesi e lo stesso giorno Ricasoli telegrafò al ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta al Savoia e a Cialdini facendo presente che bisognava che l’esercito e la flotta agissero e che occorreva occupare Trento e Trieste. Il 13 si ebbe un intenso colloquio a Polesella fra Ricasoli e Cialdini, al quale fece seguito un consiglio di guerra.
Il consiglio di guerra sabaudo di Ferrara:
Emilio Visconti Venosta |
- Cialdini avrebbe guidato autonomamente un’armata di 14 divisioni con l’incarico di procedere a marce forzate verso l’Isonzo , che era sguarnito da truppe Imperiali, e, nel caso di una schiacciante vittoria prussiana, verso Vienna (folle solo a pensarci);
- La Marmora con 6 divisioni avrebbe mantenuto il blocco delle fortezze del Quadrilatero operando l’assedio di Verona, avrebbe anche inviato una divisione in Valsugana per appoggiare Garibaldi , attaccato anche dai civili, nella conquista e occupazione del Trentino (Tirolo meridionale);
- Garibaldi, conquistato il Trentino, avrebbe dovuto portarsi a Trieste per muovere di là e tentare di sollevare contro il governo Imperiale i comitati rivoluzionari-settari della Croazia e dell’Ungheria;
- Persano sarebbe stato avvisato che se entro 8 giorni non avesse attaccato la flotta austro-veneta , sarebbe stato destituito.
L’avanzata sabauda in Veneto e Trentino sgombre dall'esercito Imperiale
Giacomo Medici |
Raffaele Cadorna |
Furono queste le ultime operazioni belliche della guerra poiché quattro giorni prima la flotta sabauda veniva vergognosamente sconfitta da quella austro-veneta a Lissa e il governo di Firenze accettava la proposta Imperiale di armistizio.
La battaglia navale di Lissa
L'episodio principale della battaglia di Lissa: l'affondamento della Re d'Italia dopo lo speronamento subito dalla Erzherzog Ferdinand Max. |
Nell’elenco delle medaglie d’oro e d’argento troviamo cognomi tipicamente veneti, a partire da Vincenzo Vianello detto Gratton e Tommaso Penzo detto Ociai entrambi medaglie d’oro, per arrivare a Pregnolato, Ghezzo, Dal Pra, Varagnolo, Vidal, Gamba, Scarpa, Busetto, Boscolo, Varisco, Venturini, Donaggio, Nordio, Sfriso, Galimberti e tanti altri.
“….deghe drento, Nino, che la ciapemo” così si rivolse l’ammiraglio Tegetthoff secondo alcuni a Vincenzo Vianello da Pellestrina secondo altri a Tommaso Penzo da Chioggia, e all’annuncio della vittoria gli equipaggi risposero lanciando i berretti in aria e gridando “Viva San Marco!!”
Le sconfitte di Lissa e di Custoza caratterizzarono la terza guerra di espansionismo sabaudo.
La, pirofregata corazzata Erzherzog Ferdinand Max, nave ammiraglia della flotta austro-veneta. |
I sabaudi non potevano certo pensare di trovare sul loro cammino i Veneti, ossatura della marina austriaca. La marina militare austriaca era praticamente nata nel 1797 e già il nome era estremamente significativo: “Oesterreich-Venezianische Marine” (Imperiale e Regia Veneta Marina). Equipaggi ed ufficiali provenivano praticamente tutti dall’area veneta dell’impero (veneti in senso stretto, giuliani, istriani e dalmati popoli fratelli dei quali non possiamo dimenticare l’ attaccamento alla Serenissima) e i pochi “foresti” ne avevano ben recepito le tradizioni nautiche, militari, culturali e storiche. La lingua corrente era il veneto, a tutti i livelli. Nel 1849 dopo la rivoluzione veneta capitanata dal settario Daniele Manin c’era stata, è vero, una certa “austricizzazione” : nella denominazione ufficiale l’espressione “veneta” veniva tolta, c’era stato un notevole ricambio tra gli ufficiali, il tedesco era diventato lingua “primaria”. Ma questo cambiamento non poteva essere assorbito nel giro di qualche mese; e non si può quindi dar certo torto a Guido Piovene, il grande intellettuale veneto del novecento, che considerava Lissa l’ultima grande vittoria della marina veneta-adriatica.
I nuovi marinai infatti continuavano ad essere reclutati nell’area veneta dell’impero asburgico, non certo nelle regioni alpine, e il veneto continuava ad essere la lingua corrente, usata abitualmente anche dall’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff che aveva studiato (come tutti gli altri ufficiali) nel Collegio Marino di Venezia e che era stato “costretto” a parlar veneto fin dall’inizio della sua carriera per farsi capire dai vari equipaggi. La lingua veneta contribuì certamente ad elevare la compattezza e l’omogeneità degli equipaggi; estremamente interessante quanto scrive l’ammiraglio Angelo Iachino (3) : ” … non vi fu mai alcun movimento di irredentismo tra gli equipaggi austriaci durante la guerra, nemmeno quando, nel luglio del 1866, si cominciò a parlare della cessione della Venezia all’Italia.” Né in terra, né in mare i veneti erano così ansiosi di essere “liberati” dagli italiani come certa storiografia pretenderebbe di farci credere. Pensiamo che perfino Garibaldi “s’infuriò perchè i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo!”.
La marina tricolore brillava solamente per la rivalità fra le tre componenti e cioè la marina siciliana ( o garibaldina), la napoletana e la sarda. Inoltre i comandanti delle tre squadre nelle quali l’armata era divisa, l’ammiraglio Persano, il vice ammiraglio Albini ed il contrammiraglio Vacca erano separati da profonda ostilità. E la lettura del quotidiano francese “La Presse” è estremamente interessante: ”Pare che all’amministrazione della Marina italiana stia per aprirsi un baratro di miserie: furti sui contratti e sulle transazioni con i costruttori, bronzo dei cannoni di cattiva qualità, polvere avariata, blindaggi troppo sottili, ecc.Se si vorranno fare delle inchieste serie, si scoprirà ben altro”.(5)
Gli equipaggia della flotta austro-veneta esultano per la vittoria a Lissa. |
Si arrivò così alla mattina del 20 luglio. ”La Marina sabauda aveva, su quella Austriaca, una superiorità numerica di circa il 60 per cento negli equipaggi e di circa il 30 per cento negli ufficiali. Ma il personale proveniva da marine diverse e risentiva del patriottismo vero ancora vivo nella penisola da poco forzatamente unificata .” E così in circa un’ora l’abilità del Tegetthoff ed il valore degli equipaggi consentì alla marina austro-veneta (come la chiamano ancor oggi alcuni storici austriaci) di riportare una meritata vittoria. Le perdite furono complessivamente di 620 morti e 40 feriti, quelle austro-venete di 38 morti e 138 feriti . La corazzata “Re d’Italia”, speronata dall’ammiraglia Ferdinand Max, affondò in pochi minuti con la tragica perdita di oltre 400 uomini, la corvetta corazzata Palestro colpita da un proiettile incendiario esplose trascinando con se oltre 200 vittime. E quando von Tegetthoff annunciò la vittoria, gli equipaggi veneti risposero lanciando i berretti in aria e gridando: “Viva San Marco” . Alla fine, nonostante le sconfitte di Custoza e Lissa, il Veneto passò all’Italia sabauda.
Persano ebbe il coraggio, una volta tornato in porto, di affermare di aver vinto la battaglia contro il Tegetthoff ricevendo festeggiamenti in suo onore. Quando si venne a sapere la verità il Persano fu arrestato e perse praticamente tutto, soprattutto la dignità.
A guerra terminata, il 15 aprile 1867, l’ammiraglio Persano dopo un lungo processo, riuscì a farsi scagionare dalle accuse di alto tradimento e viltà di fronte al nemico, fu ritenuto colpevole dei reati di negligenza, imperizia e disubbidienza, per i quali venne condannato alle dimissioni forzate, alla perdita dei gradi e alle spese di giudizio. Successivamente la corte dei conti lo priverà anche della pensione.
La mediazione francese, la fine della guerra e la pace
Napoleone III. |
Napoleone III, dopo aver esaminato le proposte prussiane formulò una contro-proposta che sottopose alla Prussia e all’Austria: essa corrispondeva approssimativamente alle richieste di Bismarck. In più proponeva la facoltà per gli stati tedeschi a sud del Meno di creare una loro confederazione e l’integrità dell’Impero austriaco, tolto il Veneto. Il piano francese fu accettato da Vienna e da Berlino e il 21 luglio si giunse ad una tregua di 5 giorni a partire dal mezzogiorno del 22 luglio. Visconti Venosta, avvisato dalla Francia della tregua, cercò di guadagnare qualche giorno nella speranza di una improbabile vittoria militare, ma il 22 giunsero le notizie della sconfitta di Lissa rendendo la tregua inevitabile anche per l’Italia sabauda , che vi aderì di corsa il giorno dopo con decorrenza la mattina del 25.
Otto von Bismarck |
L’armistizio di Cormons:
Di questa situazione si giovarono i vincitori del fronte meridionale, gli Imperiali, che posero al governo sabaudo come condizione per la firma dell’armistizio l’evacuazione delle zone del Trentino occupate dalle bande mercenarie e dalle truppe regolari. Per cui, il 6 agosto 1866, Vittorio Emanuele II telegrafò al presidente del Consiglio Ricasoli che, nella impossibilità di riprendere (da soli) la guerra senza rischiare una sonora ed inevitabile sconfitta, bisognava disimpegnarsi dal Tirolo. Ricasoli rispose che ritirarsi avrebbe prodotto un effetto negativo sull’opinione pubblica. Contemporaneamente i rappresentanti sabaudi a Berlino e Parigi cercarono in tutti i modi, ma senza successo, di spingere quei governi a persuadere l’Impero d'Austria ad accettare l’armistizio sulla base dell’uti possidetis, e cioè sulla base di quanto l’esercito sabaudo aveva occupato durante lo sgombero delle truppe Imperiali dal Veneto. Il 9 agosto, constatato l’isolamento in cui l’aveva posto l’iniziativa asburgica , il governo sabaudo disponeva il ritiro delle truppe dal Trentino.
Le legittime province alpine dell'Impero d'Austria ancora sotto il suo legittimo governo dopo la terza guerra di espansionismo sabaudo. |
Fine 2° Parte...
Fonte:
Tra Asburgo e Prussia - La Germania dal 1815 al 1866. Di Heinrich Lutz, il Mulino - Le vie della Civiltà.
Scritto a cura di:
Presidente e fondatore dell'A.L.T.A. Amedeo Bellizzi.