martedì 28 maggio 2013

Quel fatal 1866 (Parte 2°) : la terza guerra di espansionismo sabaudo , ossia la ridicola "guerra satellite" dal principio alla fine.

 
 


Dopo aver narrato le vicende principali che caratterizzarono l'alleanza "italo-prussiana" e l'inizio di "Quel fatal 1866" , è giunto il momento di entrare nel pieno degli eventi che segnarono  le vicende belliche  della terza guerra di espansionismo sabaudo.








L'italietta sabauda dal 1861 alla guerra del 1866:
I progetti d'espansione sabauda tra "Questione romana" e "Questione veneta". 



 Vittorio Emanuele II
Quando il 17 marzo 1861, a seguito dell’invasione banditesca delle orde garibaldine nel Regno delle Due Sicilie , il re di Sardegna Vittorio Emanuele II di Savoia-Carignano si auto proclamò  "re d'Italia" ,  il processo di espansionismo sabaudo non poteva considerarsi , da coloro (nemmeno il 2% della popolazione della penisola) che ne rincorrevano il nefasto ideale,  definitivo. Da un lato, infatti, il Veneto, il Trentino e Trieste erano ancora saggiamente e legittimamente governate da S.M.R.I.A. l'Imperatore d'Austria e dall'altro Roma era saldamente nelle mani di colui che solo deteneva  il diritto legittimo di governare  sulla città eterna,  S.S. Pio IX.
Il diabolico primo ministro Cavour, morì il 6 giugno 1861 e il Re di Sardegna , che ora si faceva chiamare "re d'Italia" , diede l’incarico di formare il nuovo governo a un ambiguo settario tristemente famoso in Toscana,  Bettino Ricasoli. Costui privilegiò la così detta “Questione romana” a quella veneta, poiché riteneva che era dalla capitale pontificia che l'insurrezione partigiana nelle Due Sicilie , che combatteva fieramente contro la nefasta unità d'Italia ,  traeva maggiore forza e alimento.



File:Italie 1861.jpg
L'Italia prima della terza guerra di espansionismo sabaudo : in giallo il sabaudo Regno d'Italia, in verde gli ultimi lembi di territorio indipendenti dello Stato Pontificio, in viola il Veneto asburgico, in blu le regioni passate dal Regno di Sardegna alla  Francia nel 1860.



Rattazzi by Disderi.jpg
Urbano Rattazzi
Conscio che Napoleone III , protettore per convenienza di politica interna dello Stato Pontificio, non avrebbe ceduto sulla “Questione romana”, il rozzo e approfittatore  Vittorio Emanuele II preferì dare la precedenza al "piatto più semplice", cioè Venezia, e riuscì ben presto a sbarazzarsi di Ricasoli, che fu sostituito con un altro settario della medesima scuola,  Urbano Rattazzi , il 3 marzo 1862. Questa circostanza portò il settario e sovversivo  Giuseppe Mazzini e il "compare di merende" Giuseppe Garibaldi a sperare in una imminente azione contro la Cattolica Austria e a raccogliere mercenari alla frontiera del Tirolo. Il governo sabaudo , per mantenere una pallida apparenza di ordine pubblico ed evitare che l'"indomabile" rivoluzionario causasse ripercussioni internazionali, intervenne e fece arrestare i garibaldini.


 
L’attenzione e la famelica ambizione, allora, si concentrò nuovamente su Roma. Nel 1862, infatti, Garibaldi sbarcò in Sicilia e a luglio, arringando la folla a Palermo, la quale ci mancò poco che non lo prendesse a sassate,  attaccò , con parole esaltate per rabbonire le masse, violentemente Napoleone III definendolo «un ladro, un rapace, un usurpatore», per terminare con «Va’ fuori, Napoleone, va’ fuori! Roma è nostra!». Il timoroso governo sabaudo  prese le distanze dalle invettive di Garibaldi e, quando quest’ultimo sbarcò con un disparato contingente in Calabria per risalire, secondo i piani del "criminale dei due mondi",  la penisola fino a Roma, inviò il criminale di guerra generale Enrico Cialdini con l’ordine di catturarlo. Il 29 agosto le truppe garibaldine si scontrarono con le truppe regolari sull’Aspromonte e Garibaldi, facilmente sbaragliato e braccato,  ferito ad una gamba, fu arrestato.
La “Questione romana” fu di nuovo affrontata solo dal 21 giugno 1864, quando Napoleone III, desideroso di elemosinare guadagni durante la crisi tra Prussia e Austria per i ducati danesi, propose lo sgombero delle proprie truppe da Roma. La condizione era che la capitale del Regno fosse spostata da Torino in un’altra città, il tutto regolato in un trattato internazionale affinché il governo sabaudo rinunciasse definitivamente a Roma. Il presidente del Consiglio Marco Minghetti, altro celebre massone, valutando con furbizia positivamente lo sgombero dei francesi, accettò la proposta e riuscì anche a convincere il Savoia.
La cosiddetta convenzione di settembre tra l’Italia sabauda e Francia fu firmata a Parigi il 15 settembre 1864. Con essa Napoleone III , per puro interesse politico, lasciò Roma senza il supporto difensivo delle sue truppe e il governo sabaudo si impegnava a rispettare l’integrità territoriale dello Stato Pontificio. Un articolo stabiliva il trasferimento della capitale del Regno da Torino a città da stabilirsi. Torino insorse e il governo Minghetti cadde, ma, senza la minima considerazione degli eventi,  i patti furono mantenuti, almeno per il momento, e la capitale dell'artificiale Regno  fu trasferita a Firenze.
Ristabilita un apparente fiducia nei rapporti con la Francia, il governo sabaudo poteva ora affrontare e pianificare l'usurpazione  del Veneto.
Con la firma del trattato di alleanza "italo-prussiana" avvenuta Berlino  l’8 aprile 1866 , l'italietta sabauda alleata alla potenza militarista prussiana si preparò all'ennesima guerra di aggressione ed espansione. Subito dopo l'entrata in guerra dell'alleata Prussia il 16 aprile 1866,  l’Italia sabauda dichiarò guerra all’Impero d'Austria il 20 giugno , il 23 sarebbero iniziate le ostilità.





La guerra sul fronte meridionale:
la terza guerra di espansionismo sabaudo, la "guerra satellite".


Il fronte meridionale della guerra austro-prussiana , se dobbiamo valutare gli eventi per quello che realmente furono, prende  il nome di terza guerra di espansionismo sabaudo perché seguì la guerra règia del Regno di Sardegna contro l’Impero d'Austria del 1848-1849 (prima guerra di espansionismo) e il conflitto del Regno di Sardegna e della Francia sempre contro l’Impero d'Austria del 1859 (seconda guerra di espansionismo).

L’esercito sabaudo:


Giuseppe Garibaldi
Con l’usurpazione degli Stati legittimi d'Italia , il successivo ampliamento dei confini del Regno di Sardegna e la proclamazione dell'illegittimo , artificioso e sabaudo  Regno d’Italia le  5 divisioni piemontesi divennero le 20 così dette "italiane", appoggiate da alcune migliaia di mercenari guidati da Giuseppe Garibaldi. Gli squadroni di cavalleria da 36 passarono a 100 e fu tentato, con scarsi risultati,   di sviluppare il Genio e i servizi. Rimasero diverse mancanze del vecchio esercito, fra cui l’artiglieria poco numerosa. Soprattutto una deficienza parve grave: quella dei quadri intermedi. Nelle 3 nuove divisioni lombarde pochissimi ufficiali che avevano servito nell'Imperial-Regio esercito asburgico passarono all’esercito sabaudo , per cui si provvide promovendo sottoufficiali incompetenti o immettendo in esse volontari forzatamente arruolati. Lo stesso si verificava nelle schiere provenienti dalle ormai occupate legazioni pontificie; mentre un altro problema scaturiva dalla totale assenza di desiderio di combattere per un governo illegittimo e dispotico. Quanto alla organizzazione dello stato maggiore, essa era rimasta allo stato embrionale e anche l’addestramento delle truppe risultava estremamente carente.
Le 20 divisioni "italiane" erano riunite in 4 corpi d’armata. 3 corpi di 4 divisioni ciascuno lungo il fiume Mincio e un grosso corpo d’armata di 8 divisioni nelle  Romagne, lungo il tratto finale del fiume Po. Si trattava di una forza che complessivamente oscillava da 190.000 a 200.000 combattenti di fanteria con 10.500 cavalleggeri e 462 cannoni (per il 90% coscritti) ; alla quale bisognava aggiungere 38.000 mercenari garibaldini. Una forza notevole di numero ma di scarsissimo valore combattivo e  in una posizione strategicamente inferiore rispetto a quella degli Imperiali che possedevano le fortezze del Quadrilatero dalla parte del Mincio e una zona protetta dal Po, canali, paludi e dall’Adige dalla parte di Ferrara, senza contare l'appoggio popolare.

L’esercito Imperial-Regio nel Veneto :




Il teatro della terza guerra
di espansionismo sabaudo
Da parte Imperiale si era cercato di sanare le mancanze emerse nella guerra del 1859. L’artiglieria era stata resa più mobile e la cavalleria più preparata al servizio di esplorazione. Grandi cure erano state dedicate ai servizi e l’addestramento della fanteria volontaria .
Dei 10 corpi d’armata dell’Impero , 3 si trovavano sul teatro di guerra meridionale. A queste forze bisognava aggiungere quelle dei presidi delle fortezze del Quadrilatero e le forze della difesa del Tirolo, in gran parte volontarie. Cosicché le forze Imperiali che il fronte meridionale del conflitto vincolava ammontavano a 190.000 uomini, anche se in campo l’Impero d'Austria poneva solo 61.000 combattenti, con 152 cannoni e 3.000 cavalleggeri, a cui si dovevano aggiungere 11.000 uomini della divisione di riserva creata all’ultimo momento attingendo dai volontari arruolatisi nei presidii delle fortezze. Comandante dell’armata in Veneto era l’arciduca Alberto d'Asburgo-Teschen.
Allo scoppio della guerra le fila dei  Reggimenti arruolati nelle province venete si ingrossarono  :

Reggimento n. 13 Wimpfen, con distretto d’arruolamento Padova e Venezia.

 Regg.to n. 16 Conte Zannini, Vicenza e Treviso.   

Regg.to n. 26 Ferdinando d’Este, Udine.
   
Regg.to n. 38 Haugwitz, misto di  mantovani e veronesi.  

Regg.to n. 45 Arciduca Sigismondo, formato da reclute veronesi e rodigine.
 







I piani e la composizione dei corpi d'armata


La Prussia voleva colpire al cuore l’avversario trascurando le operazioni secondarie e puntare da nord sul Danubio e Vienna. Analogamente chiese all’esercito sabaudo di avanzare risolutamente e giungere con il grosso delle forze a Padova. Da qui le divisioni avrebbero proseguito verso l’Isonzo, appoggiate dalla flotta e sostenute sul fianco destro dell’avanzata da una spedizione di Garibaldi in Dalmazia e dall’insurrezione ungherese che sarebbe stato in progetto di provocare grazie ai contatti con le logge ungheresi.
La proposta prussiana si scontrò, oltre che con le carenze della flotta sabauda , soprattutto con la mancanza di unità di comando dell’esercito. Comandante supremo era  Vittorio Emanuele II e suo capo di stato maggiore il criminale Alfonso La Marmora (che aveva lasciato la carica di presidente del Consiglio a Bettino Ricasoli), ma l’esercito era diviso in due masse: per agire dal Mincio e dal basso Po. Fautore dell’azione dal Po era il sanguinario generale Enrico Cialdini, che, gradasso e convinto di aver talento militare,  esigeva la massima autonomia e al quale fu affidata l’impresa di attaccare gli Imperiali da sud con le 8 divisioni presso Ferrara. Mentre La Marmora, sostenitore dell’azione dal Mincio, comandava, di fatto, le altre 12 divisioni.

 
Le unità dell'esercito sabaudo:




Alfonso La Marmora.jpg
Alfonso La Marmora
La composizione delle forze armate sabaude , con la sua schiera di traditori e criminali,  era quindi la seguente. Alfonso La Marmora sul Mincio dirigeva:

Enrico Cialdini
Enrico Cialdini, sul basso Po, comandava invece Il 4° Corpo d’armata, formato dalla 11ª Divisione di Alessandro Avogadro di Casanova, dalla 12ª Divisione di Cesare Francesco Ricotti-Magnani, dalla 13ª Divisione di Luigi Mezzacapo (ex borbonico), dalla 14ª Divisione di Emanuele Chiabrera Castelli, dalla 15ª Divisione di Giacomo Medici (ex garibaldino), dalla 17ª Divisione di Raffaele Cadorna, dalla 18ª Divisione di Della Chiesa, dalla 20ª Divisione di Franzini, dalla Divisione di cavalleria di Maurizio Gerbaix de Sonnaz, da due brigate di cavalleria, da una brigata di artiglieria a cavallo e da altre unità minori.



 
Le unità Imperiali:


l'Arciduca Alberto.

Le unità da campo dell’Arciduca Alberto d'Asburgo-Teschen  erano le seguenti:
5° Corpo d’armata, comandato da Gabriel Joseph Freiherr von Rodich (1812-1890) con 3 brigate;
7° Corpo d’armata, comandato da Joseph Freiherr von Maroičić di Madonna del Monte (1812-1882) con 3 brigate;
9° Corpo d’armata, comandato da Ernst Ritter von Hartung (1808-1879) con 3 brigate;
Divisione di fanteria di riserva, comandata da Rupprecht con 2 brigate;
Riserva di cavalleria con 2 brigate;
Corpo del Tirolo, comandato da Franz Kuhn von Kuhnenfeld.
Volontari Tirolesi.









 

L’incontro tra criminali di guerra a  Bologna : La Marmora e Cialdini.





Alfonso La Marmora (a sinistra)
 ed  Enrico Cialdini (a destra)
Il 16 giugno 1866 la Prussia aprì le ostilità contro la Sassonia, l’Hannover e l’Elettorato d'Assia che si erano schierati con l’Impero d'Austria. L'esercito sabaudo , invece, rimase in attesa fino al 23. Il giorno dopo l’entrata in guerra della Prussia, Alfonso La Marmora lasciò  Firenze per recarsi a Cremona quale capo di stato maggiore, ma si fermò a Bologna per incontrare il compare di stragi civili generale Cialdini. Le conclusioni del colloquio non sono note. Entrambi probabilmente non furono d’accordo su nulla che, data la loro baldanza, imponesse ad uno dei due di emergere inferiormente rispetto all'altro. Di conseguenza, inizio tra le due armate una rivalità che  avrebbe fatto storia nel tracollo militare dell'italieta unita .
I due generali non si chiarirono assolutamente . Cialdini credette accolta la sua proposta di limitare l’azione di La Marmora sul Mincio ad una dimostrazione, per poi attaccare lui risolutamente gli Imperiale. La Marmora, invece , credette convenuto che l’azione sul Mincio avrebbe potuto avere carattere autonomo.
Fatto sta che in una lettera privata del 19 giugno 1866 al ministro della Guerra sabaudo Ignazio Pettinengo, La Marmora scrisse che il «progetto Cialdini» sarebbe riuscito; e che il 21 giugno Cialdini da Bologna telegrafò di aver bisogno per passare il Po di una «seria dimostrazione»; il che vuol dire che riservava a sé l’azione principale. La Marmora rispose che avrebbe agito energicamente per attrarre su di sé il nemico, senza parlare però di “dimostrazione”, e ciò significa che non si voleva adattare a fare la parte secondaria. Cialdini annunciò pure che non avrebbe potuto iniziare il passaggio del Po che nella notte tra il 25 e il 26 giugno, anche perché la reazione popolare in quella zona fu incisiva contro le truppe sabaude,  chiedendo che "la vigorosa azione dimostrativa" avesse luogo il 24. Solo il 23, quindi, l’armata del Mincio di La Marmora poté iniziare a passare il fiume a Valeggio e Goito.
 






Le truppe di La Marmora passano il Mincio




Pianell figura intera.jpg
Giuseppe Salvatore Pianell
L’Arciduca Alberto, pensò che l'esercito sabaudo puntasse al medio corso dell’Adige da ovest, dispose per il giorno 24 giugno 1866 che tutta l’armata si portasse, dall’area della fedelissima Verona e di Peschiera, a ovest e sud per prendere posizione sulla zona collinare morenica che inizia da Sommacampagna per estendersi a occidente verso il Mincio. Da lì l’armata avrebbe dovuto attaccare il nemico sul fianco sinistro.
Da parte sabauda si erano avute notizie di movimenti da Verona, ma esse non erano state trasmesse al comando supremo per merito dell'azione partigiana veronese e per l'incapacità dell'esercito tricolore. Tutti erano persuasi, quindi, che gli Imperiali si tenessero sulla difensiva, dietro l’Adige. Per il 24 giugno La Marmora dispose per il 1° Corpo di Durando che la 2ª Divisione (Pianell) rimanesse dietro il Mincio a sorvegliare Peschiera, e le altre 3 avanzassero oltre il fiume: la 1ª Divisione (Cerale) a circuire Peschiera dalla riva sinistra del Mincio, e le altre due a conquistare la zona collinare obiettivo anche degli Imperiali e avvicinarsi a Verona. Al centro il 3° Corpo di Della Rocca avrebbe occupato sia l’orlo collinare orientale (da Sommacampagna a Custoza), sia la sottostante piana di Villafranca. Infine, all’ala destra dell’armata di La Marmora, il 2° Corpo di Cucchiari, doveva passare il Mincio con 2 divisioni in modo da aggirare Mantova da nord e con altre 2 divisioni dispiegarsi da Curtatone a Borgoforte sul Po, 13 km. a sud di Mantova. Complessivamente lo schieramento sabauda si presentava piuttosto discontinuo, troppo esteso e con scarse riserve: in definitiva folle.
Delle 12 divisioni di La Marmora solo 6 si vennero a trovare di fronte agli Imperiali che, compatti, motivati e meglio diretti, avanzavano verso di loro: 50.000 soldati sabaudi contro 70.000 , per la maggior parte Veneti, dell’Arciduca Alberto.



 


 
La battaglia di Custoza : la vittoria veneta e la sconfitta dell'esercito sabaudo.


L’incontro dei due eserciti (ore 6,00-10,30):


Ulani Imperiali caricano
nella pianura ad est di Custoza.
Il 24 giugno 1866, sotto Peschiera l’avanguardia della 5ª Divisione (Sirtori) del 1° Corpo d’armata incontrò poco dopo i 6 elementi Imperiali e continuò ad avanzare fino a Oliosi (oggi frazione di Castelnuovo del Garda) dove si accese un aspro combattimento. Intervenne la 1ª Divisione (Cerale) che respinse a fatica  l'avanguardia  Imperiale e avanzò oltre Oliosi. Ma gli Imperiali contrattaccarono con forze sempre più numerose. Da parte sabauda morì il generale Onorato Rey di Vallerey, comandante della Brigata “Pisa” della 1ª Divisione, e lo stesso Cerale rimase gravemente ferito. Dopo 4 ore di combattimenti la 1ª Divisione era in rotta, ma il comandante del 1° Corpo, Durando, impiegando le sue riserve fece occupare la sguarnita collina del Monte Vento (una collina a ovest separata dal complesso morenico) bloccando l’avanzata di un debole drappello Imperiale. Alle 6,30 La 5ª Divisione nella sua avanzata verso Santa Lucia del Tione (fra Oliosi a nord e Custoza a sud) trattenne temporaneamente gli Imperiali continuando ad avanzare. Ma anche qui gli Imperiali si fecero sempre più numerosi e si susseguirono attacchi e contrattacchi: le 2 divisioni sabaude , che combattevano separate e disordinate , disponevano complessivamente di 16.000 uomini e 24 cannoni, contro i 32.000 uomini e i 64 pezzi del 5° Corpo e della divisione di riserva Imperiale tra le cui fila si aggiunsero alcuni contadini del luogo.
Artiglieria Imperiale (1866)
Al centro dello schieramento sabaudo, intanto, erano avanzate in pianura, dove la presenza Imperiale era scarsa,  la 7ª Divisione (Bixio) e la 16ª (Umberto di Savoia) del 3° Corpo d’armata. Entrambe fra le 6,30 e le 7 si erano spinte fuori Villafranca dove erano state attaccate da una brigata di cavalleria Imperiale che alle 9,30 veniva faticosamente respinta a costo di gravi perdite. Alla loro sinistra la 3ª Divisione (Brignone) del 1° Corpo veniva deviata da La Marmora e occupava le colline di Monte Torre e Monte Croce (a nord-est di Custoza): verso le 9 subiva un violento attacco del 9° Corpo Imperiale che veniva respinto a costo di gravi perdite. Iniziò allora una serie di attacchi e contrattacchi durante i quali fu ferito all’addome Amedeo di Savoia (terzogenito di Vittorio Emanuele II) comandante della Brigata “Granatieri di Lombardia” della 3ª Divisione. Anche qui, nella parte orientale della zona collinare, le forze Imperiali aumentarono e dopo 2 ore di lotta accanita, la divisione di Brignone, nella quale le defezioni aumentavano vertiginosamente,  venne sopraffatta. Dopo il successo, gli Imperiali però ripiegarono lasciando 2 soli battaglioni a Monte Torre e a Monte Croce; e allora l'8ª Divisione (Cugia), appena sopraggiunti, nonostante la scarsa presenza Imperiale, riconquistò a fatica  verso le 10,30 le due colline. A quest’ora la battaglia ebbe una sosta: a nord (ala sinistra dello schieramento sabaudo a pezzi) gli Imperiali si erano fermati davanti a Monte Vento e al ciglione di Santa Lucia sul Tione, e al centro le posizioni a nord-est di Custoza erano state riconquistate.
 


La lotta per le colline moreniche (ore 11-21,30):




Il 13° Reggimento Ulani carica a Villafranca i bersaglieri
del 3° Corpo sabaudo.
Intorno alle 11, alla sinistra dello schieramento sabaudo , l'ennesimo criminale di guerra  generale Pianell della 2ª Divisione, che aveva avuto l’ordine di rimanere in osservazione di Peschiera, accortosi della situazione critica del resto del 1° Corpo, prese l’iniziativa e con la Brigata “Aosta” attaccò le forze Imperiali che cercavano di aggirare Monte Vento da nord e raggiungere Valeggio per avvolgere l'esercito sabaudo. L’intervento della 2ª Divisione funse da tampone : gli Imperiali si fermarono e ripiegarono strategicamente a nord su Salionze. Intorno a Monzambano, inoltre, reparti della Brigata “Siena” della stessa 2ª Divisione si ringalluzzì intrappolando quasi per caso e  circa 60 soldati Imperiali .
Durando, nel frattempo, era stato ferito ad una mano così da fornirli una scusa per abbandonare il campo  e lasciare a Pianell il comando del 1° Corpo verso le 14. Così a Santa Lucia, la 5ª Divisione (Sirtori)tentava di  contrattaccare e ripassava il Tione, e alle 11,30 le alture di Custoza venivano riprese dalla 9ª Divisione (Govone) del 3° Corpo e dai resti della 3ª Divisione (Brignone). Il generale Govone chiese invano rinforzi al suo comandante Della Rocca che disponeva di 2 divisioni in pianura (7ª e 16ª), ma che aveva anche ricevuto l’ordine di La Marmora di «tener saldamente Villafranca»: si ebbero parecchi disordini tra le fila sabaude. Alle 14,30 la 5ª Divisione veniva di nuovo attaccata da forze soverchianti del 5° Corpo Imperiale composto da veneti che alle 15 conquistarono Santa Lucia e poi Monte Vento. L’Arciduca Alberto, preparò allora l’attacco finale contro Custoza dove a malapena  resisteva la 9ª Divisione di Govone. Costui alle 16 ne avvertì Della Rocca che rispose di volersi mettere in contatto con La Marmora. Alla stessa ora venne sferrato l’attacco risolutivo da parte del 7° Corpo e parte del 9°: 15.000 Imperiali , quasi interamente veneti , avanzarono contro 8 o 9.000 sabaudi, che, non solo  disorganizzati e visibilmente afflitti dal malcontento, erano digiuni dal giorno prima. Cadde dapprima il Monte Croce, quindi il cerchio iniziò a chiudersi su Govone, che dandosela a gambe rimase ferito. Alle 17,00 Custoza era in mano agli Imperiali , ma gli invasori vennero costretti a continuare a combattere fin quasi alle 19,00: inutile dire che le diserzioni non furono una rarità.
La ricostruzione dell'attacco finale Imperiale a Custoza.
Govone riuscì a fuggire e  ritirarsi portando la sua divisione a pezzi a Valeggio, dove giunse a mezzanotte. Le altre 3 divisioni del 3° Corpo sabaudo ripiegarono su Goito coperte  dalla 7ª Divisione (Bixio) che dopo le 18 respinse un piccolo attacco di cavalleria e solo alle 21,30 abbandonò Villafranca. Gli Imperiali , vittoriosi, anche se con gravi perdite, decisero di  non inseguirono il nemico.
Quanto alle perdite, l'esercito sabaudo contò 1.000 morti e 2.576 feriti; gli Imperiali 1.170 morti e 3.984 feriti. Ma i dispersi, disertori  e i prigionieri sabaudi furono 4.101, mentre quelli Imperiali furono 2.802.




 





 
 La ritirata sabauda dietro l'Oglio e il Panaro


Enrico Cialdini
Enrico Cialdini
"il codardo".
La sconfitta di Custoza  fu di per sé già grave, e lo divenne maggiormente per gli avvenimenti successivi. Il capo di stato maggiore, che fuggi come un conigli durante la battaglia, La Marmora, ritenne il 1° Corpo e una parte del 3° non più in grado di ricostituirsi, paventando l’ipotesi di una manovra aggirante degli Imperiali da nord oltre il Mincio. Di conseguenza fece saltare tutti i ponti sul fiume e ordinò per la sua armata un ripiegamento fino al basso Oglio. Vittorio Emanuele II, intanto, nel pomeriggio del 24 giugno, mentre ancora a Custoza si combatteva, e consapevole dell'imminente sconfitta,  aveva telegrafato al comandante delle forze sul Po, Cialdini, di passare immediatamente all’azione avanzando, ma questi , che si voleva tener ben lontano da una zona così "calda", gli rispose che l’avrebbe fatto l’indomani, affermando che si atteneva  ai piani prestabiliti.
Il 25 giugno Cialdini, ancora titubante , ricevette nel pomeriggio il telegramma di La Marmora: «Austriaci gitattisi con tutte le forze contro corpi Durando e La Rocca li hanno rovesciati. Non sembra finora inseguano. Stia quindi all’erta. Stato armata deplorevole, incapace agire per qualche tempo, 5 divisioni essendo disordinate». A questo punto Cialdini, da vero codardo, dimostrò il suo "talento militare"  rinunciò definitivamente a passare il Po, iniziando a sua volta la ritirata della sua armata sulla sponda sinistra del fiume Panaro. Il 26 mattina, La Marmora chiese a Cialdini di non abbandonare le sue posizioni ricevendone un rifiuto. Il capo di stato maggiore diede allora le dimissioni che sia il Savoia che il governo respinsero. Dopo un incontro fra i due generali, avvenuto il 29 giugno, finalmente Cialdini , assicurato di non rischiare troppo , decise essere venuto il momento di passare il Po, non prima, tuttavia, di aver espugnato la testa di ponte Imperiale di Borgoforte (sul fiume, 10 km. a sud di Mantova). Il 5 luglio iniziò l’assedio della fortezza che, contrariamente alle previsioni,  fu un disastro e si protrasse fino al 18 luglio.


 
 
 
Gli equilibri navali




 l'ammiraglio
Carlo Pellion di Persano.
Tra varie difficoltà dovute alla impreparazione delle strutture, alla carenza di equipaggi addestrati e motivati, nonché  di armamenti, aveva avuto luogo anche la mobilitazione della flotta sabauda. Data Nonostante la flotta sabauda era composta dalla requisita e potente flotta delle Due Sicilie , e da altre  navi moderne che erano state ordinate in vari cantieri europei e statunitensi, dimostrò comunque incapacità organizzativa e scarsissima motivazione .
Il 3 maggio 1866 il generale Diego Angioletti, ministro della Marina, aveva comunicato al contrammiraglio Giovanni Vacca, comandante la Squadra d'evoluzione con base a Taranto, che il governo aveva decretato di costituire un'Armata d'operazioni al cui comando era destinato l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano. L’Armata sarebbe stata articolata su tre squadre, ovvero una squadra da battaglia composta da fregate corazzate, al comando di Persano; una squadra sussidiaria composta da fregate e corvette ad elica, e una squadra d’assedio di legni corazzati minori. Il viceammiraglio Giovan Battista Albini e il contrammiraglio Vacca sarebbero stati agli ordini di Persano.
La fregata corazzata Principe di Carignano
Dopo la sua nomina, Persano era giunto ad Ancona il 16 maggio 1866 e si era presto reso conto non solo della sua incapacità di comando ma anche  della situazione di impreparazione organica della flotta stessa : dal 18 al 23 e poi il 30 maggio aveva informato Angioletti dell'impossibilità di approntare la flotta in tempi brevi. Poi, non avendo ottenuto nulla, aveva cercato, dopo aver considerato l’eventualità di dimettersi, di preparare gli equipaggi della  flotta nei limiti del possibile compiendo alcune manovre di squadra.

L'8 giugno l'ammiraglio ricevette le prime disposizioni per l’imminente apertura delle ostilità. Esse ordinavano di neutralizzare la flotta austro-veneta, stabilire ad Ancona la base operativa, e non attaccare Trieste e Venezia per non rischiare troppo. Non era chiaro però chi avrebbe dovuto impartire ordini a Persano, se il generale Alfonso La Marmora, capo di stato maggiore generale, ma interessato alle sole operazioni di terra, che gestì malissimo,  oppure il ministro della Marina Angioletti.
Wilhelm von Tegetthoff
La flotta austro-veneta era per contro più piccola, composta da legni per la maggior parte non corazzati , ma con equipaggi composti da veneti motivati a difendere la loro terra e combattere per l'Imperatore:  una squadra austro-veneta aveva partecipato con onore nel 1864 alla seconda guerra dello Schleswig, nella quale le forze navali della Confederazione austro-tedesca avevano sconfitto le navi danesi impedendo il blocco navale dei porti tedeschi. L'addestramento degli equipaggi era uniforme, assicurato dalla Scuola Navale di Venezia, sulle navi gli ordini venivano impartiti in veneto,  mentre il dipartimento marittimo ed arsenale, a Pola, si appoggiava per l'addestramento alla vicina baia di Lussino, ed i comandanti erano ben amalgamati.
Comandava la flotta austro-veneta Wilhelm von Tegetthoff. Costui , ammirato e rispettato dai suoi uomini, aveva guidato le navi nel 1864 contro i danesi rivelando elevata capacità decisionale, ed era, a differenza di Persano, confortato dalla fiducia dei suoi ufficiali e dei suoi marinai con i quali egli parlava in veneto!.


 





Le prime operazioni navali in Adriatico




Agostino Depretis.jpg
Agostino Depretis
Il 20 giugno 1866, giorno della dichiarazione di guerra all’Impero d'Austria, con l'insediamento del secondo governo Ricasoli, Angioletti fu sostituito nel ruolo di ministro della Marina da Agostino Depretis, uno più incapace dell'altro a gestire tale situazione, che ordinò a Persano di spostarsi con la flotta, concentrata principalmente nel porto di Taranto, ad Ancona. Lo stesso 20 giugno l'incompetente  La Marmora si limitò ad invitare l'ammiraglio ad entrare nell'Adriatico.
La flotta sabauda lasciò Taranto nella mattinata del 21 giugno, fu raggiunta da Formidabile e Terribile (che le vennero incontro da Ancona per rafforzare la squadra) nelle acque di Manfredonia e giunse ad Ancona nel pomeriggio del 25 giugno. La navigazione di trasferimento avvenne ad una velocità di soli 5 nodi, per prendere tempo e non sforzare troppo le macchine (ma ciò non eliminò del tutto le avarie).
Dato che il porto di Ancona non era in grado di ricoverare che poche unità, parte della flotta dovette ormeggiarsi a boe nella rada, procedendo poi alle operazioni di rifornimento di carbone che furono ostacolate da incendi causati da disordini sulla Re d’Italia e sulla Re di Portogallo. Venne inoltre stabilito che molte unità minori avrebbero ceduto parte della propria artiglieria alle unità corazzate, in modo da dotare queste ultime del maggior numero possibile di moderni cannoni a canna rigata da 160 mm.


La “sfida di Ancona”:




La Regina Maria Pia fotografata alla boa a Napoli, nel 1864
La Regina Maria Pia fotografata alla boa a Napoli, nel 1864.
Trasferitasi la flotta sabauda ad Ancona, all’alba del 27 giugno 1866, l’avviso a ruote Esploratore individuò una squadra austro-veneta in avvicinamento. Persano riuscì a racimolare 9 unità corazzate da mandare in avanscoperta, il cui potenziale, per un svariati motivi , era ridotto ad un terzo. Verso le 6,30, il comandante della flotta austro-veneta Tegetthoff si rese conto della presenza di numerose navi nemiche, delle quali conosceva in gran parte l’efficienza. La Kaiserin Elisabeth, in testa alla squadra austro-veneta , si trovò alla portata di tiro della Regina Maria Pia che, per un ritardo di ordine di Persano, non aprì il fuoco.
Allontanatasi la squadra austro-veneta , si tenne sulla Principe di Carignano un consiglio al quale parteciparono Persano, d’Amico, Vacca e altri due ufficiali. Si decise che, considerato lo stato dell'equipaggio delle navi, sarebbe stato meglio non inseguire il nemico, rientrare ad Ancona e riprendere il mare una volta che la squadra fosse stata rimessa in efficienza.
Persano istituì allora un capillare servizio di sorveglianza e contemporaneamente proseguì i tentativi di portare l'equipaggio della  flotta ad un livello di efficienza appena accettabile. Con questa impostazione concordò il ministro della Marina Depretis che con una lettera del 4 luglio, esortando ad una «vigile difensiva», ribadì il pensiero del presidente del Consiglio Ricasoli di «non impegnare la flotta che colla sicurezza della vittoria»: cosa che sembrava semplice per il numero di navi corazzate ma assai difficile se si confrontava l'ardore dei marinai veneti al servizio del Tegetthoff.








La vittoria prussiana di Sadowa e le sue conseguenze





File:1868 Bleibtreu Schlacht bei Koeniggraetz anagoria.JPG
Vittoria prussiana a Sadowa.
Intanto, nel più ampio contesto della guerra austro-prussiana, dopo aver eliminato le forze di molta parte degli Stati minori alleati dell’Impero d'Austria, l’esercito prussiano con 3 armate invadeva la Boemia, ottenendo il 3 luglio 1866 una grossa vittoria nella battaglia di Sadowa. Il giorno dopo l’Impero d'Austria chiese la mediazione da quel doppiogiochista di Napoleone III, che aveva pianificato precedentemente e con l'inganno la cosa,  offrendogli il Veneto, a patto che l’Italia sabauda si ritirasse dalla guerra così da poter concentrare le  truppe Imperiali  in difesa del cuore dell'Impero.
Napoleone III accettò la richiesta asburgica e il 5 luglio Vittorio Emanuele II ricevette il telegramma dell’Imperatore francese che gli annunciava la cessione del Veneto per mettere fine al conflitto. Il capo di stato maggiore Alfonso La Marmora , recitando un copione penoso, considerò umiliante la proposta di ricevere Venezia come dono dalla Francia e nello stesso tempo prospettò il pericolo per l’Italietta sabauda di essere accusata di tradimento per aver abbandonato la Prussia subendone le conseguenze . Anche il presidente del Consiglio Ricasoli era contrario a riconoscere la cessione dall’Impero d'Austria alla Francia del Veneto, cosa che avrebbe tolto all’esercito sabaudo il gusto  di conquistarlo, usurparlo e depredarlo: cosa che comunque farà.
La Prussia, al contrario, pur continuando le operazioni accettò di trattare, anche perché erano in arrivo rinforzi Imperiali dal Veneto : l’Arciduca Alberto, aveva infatti avuto l’ordine di far partire uno dei tre corpi alla volta del fronte prussiano. Spronato da La Marmora con un telegramma del 6 luglio, Cialdini nella notte passò il Po entrando l’11 a Rovigo, accolto in una città deserta e visibilmente ostile, sgombra degli Imperiali rimasti, che ebbero l’ordine di abbandonare il Veneto e attestarsi a nord. Mutata la situazione internazionale con la battaglia di Sadowa e la proposta austro-francese, occorreva ora all’Italia sabauda una vittoria per recuperare velocemente un  prestigio che non aveva mai avuto e che vergognosamente perse ulteriormente a Custoza. L’ammiraglio Persano ricevette il 6 luglio un incitamento del ministro Depretis ad agire: «Tenersi più che mai all’idea di combattere e di ricercare la flotta austriaca e di attaccarla». Ma l’incapace ammiraglio Persano tergiversava, in attesa dell’”ariete corazzato” Affondatore in arrivo dai cantieri britannici.
Il 12 luglio il diabolico primo ministro prussiano Bismarck si lamentò della debole condotta bellica dell’esercito sabaudo  con i francesi e lo stesso giorno Ricasoli telegrafò al ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta al Savoia  e a Cialdini facendo presente che bisognava che l’esercito e la flotta agissero e che occorreva occupare Trento e Trieste. Il 13 si ebbe un intenso  colloquio a Polesella fra Ricasoli e Cialdini, al quale fece seguito un consiglio di guerra.

 


Il consiglio di guerra sabaudo di Ferrara:


Emilio Visconti Venosta
Emilio Visconti Venosta
Il consiglio di guerra si riunì il 14 luglio 1866 a Ferrara. Fu presieduto da Vittorio Emanuele II, presenti il presidente del Consiglio Ricasoli, il ministro degli Esteri Visconti Venosta, il ministro della Guerra Pettinengo, il ministro della Marina Depretis, il capo di stato maggiore La Marmora e il generale Cialdini. Il consiglio ratificò quanto stabilito alla riunione di Polesella:
  • Cialdini avrebbe guidato autonomamente un’armata di 14 divisioni con l’incarico di procedere a marce forzate verso l’Isonzo , che era sguarnito da truppe Imperiali, e, nel caso di una schiacciante vittoria prussiana, verso Vienna (folle solo a pensarci);
  • La Marmora con 6 divisioni avrebbe mantenuto il blocco delle fortezze del Quadrilatero operando l’assedio di Verona, avrebbe anche inviato una divisione in Valsugana per appoggiare Garibaldi , attaccato anche dai civili, nella conquista e occupazione del Trentino (Tirolo meridionale);
  • Garibaldi, conquistato il Trentino, avrebbe dovuto portarsi a Trieste per muovere di là e tentare di sollevare contro il governo Imperiale i comitati rivoluzionari-settari della Croazia e dell’Ungheria;
  • Persano sarebbe stato avvisato che se entro 8 giorni non avesse attaccato la flotta austro-veneta , sarebbe stato destituito.

 


 

L’avanzata sabauda in Veneto e Trentino sgombre dall'esercito Imperiale



Giacomo Medici
Giacomo Medici
In un Veneto sgombro dalle armate Imperiali  Cialdini avanzò rapidamente non trovando più ostacoli davanti a sé. Anche il Garibaldi cominciò ad avanzare lungo l’alta valle del fiume Chiese, verso Lardaro, in Trentino, ricevendo fucilate dai contadini di quelle terre riuscendo a malapena a cavarsela il 14 luglio 1866 contro una controffensiva Imperiale nella battaglia di Condino.  Le vicende garibaldine le tratterò approfonditamente nel prossimo capitolo.
Raffaele Cadorna
Raffaele Cadorna
Due giorni prima, Cialdini, visto l’ostruzionismo di La Marmora a riguardo, aveva inviato da Bassano verso Trento una divisione comandata dall’ex garibaldino Giacomo Medici, nonché 3 divisioni verso Trieste al comando di Raffaele Cadorna. Medici, il 22 luglio occupò combattendo contro i civili  Primolano, il 23 arrivò a Borgo Valsugana e dopo una scaramuccia si spinse il 24 fino a Levico, per giungere poi il 27 presso Civezzano, a ridosso di Trento. Kuhn, appoggiato dalla popolazione, scrisse che  gli era possibile resistere ai due avversari (Garibaldi e Medici) e che intendeva rimanere a difesa del territorio. Garibaldi, dal canto suo, continuava, prendendo strade secondarie tra i boschi , ad avanzare oltre Lardaro e Riva del Garda, mentre Cialdini proseguiva su Treviso e Ponte di Piave preceduto da Cadorna, fino a Palmanova, oltre la quale un'avanguardia sabauda si scontrò con una piccola avanguardia Imperiale  il 24 luglio.
Furono queste le ultime operazioni belliche della guerra poiché quattro giorni prima la flotta sabauda veniva vergognosamente sconfitta da quella austro-veneta a Lissa e il governo di Firenze accettava la proposta Imperiale di armistizio.





La battaglia navale di Lissa





File:Soerensen Seeschlacht bei Lissa 1866 Rammstoss.jpg
L'episodio principale della battaglia di Lissa:
l'affondamento della Re d'Italia
dopo lo speronamento subito  dalla Erzherzog Ferdinand Max.
A Lissa il 20 luglio 1866 gli eredi della Serenissima (veneti, giuliani, istriani e dalmati), ossatura della marina asburgica, sconfissero clamorosamente la marina tricolore (che brillava per la rivalità tra le tre componenti, sarda, siciliana e napoletana) che tanto baldanzosamente aveva affrontato la battaglia, forte della propria superiorità di uomini e di mezzi, e quel “uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro” fotografa mirabilmente lo scontro navale.
Nell’elenco delle medaglie d’oro e d’argento troviamo cognomi tipicamente veneti, a partire da Vincenzo Vianello detto Gratton e Tommaso Penzo detto Ociai entrambi medaglie d’oro, per arrivare a Pregnolato, Ghezzo, Dal Pra, Varagnolo, Vidal, Gamba, Scarpa, Busetto, Boscolo, Varisco, Venturini, Donaggio, Nordio, Sfriso, Galimberti e tanti altri.
“….deghe drento, Nino, che la ciapemo” così si rivolse l’ammiraglio Tegetthoff secondo alcuni a Vincenzo Vianello da Pellestrina secondo altri a Tommaso Penzo da Chioggia, e all’annuncio della vittoria gli equipaggi risposero lanciando i berretti in aria e gridando “Viva San Marco!!”
Le sconfitte di Lissa e di Custoza caratterizzarono la terza  guerra di espansionismo sabaudo.




La, pirofregata corazzata Erzherzog Ferdinand Max, nave ammiraglia della flotta
austro-veneta.
Lissa isola nel mare Adriatico è la più lontana dalla costa dalmata, conosciuta nell’antichità come Issa, più volte citata dai geografi greci. Fu base navale della Repubblica Veneta fino al 1797.
I sabaudi  non potevano certo pensare di trovare sul loro cammino i Veneti, ossatura della marina austriaca. La marina militare austriaca era praticamente nata nel 1797 e già il nome era estremamente significativo: “Oesterreich-Venezianische Marine” (Imperiale e Regia Veneta Marina). Equipaggi ed ufficiali provenivano praticamente tutti dall’area veneta dell’impero (veneti in senso stretto, giuliani, istriani e dalmati popoli fratelli dei quali non possiamo dimenticare l’ attaccamento alla Serenissima) e i pochi “foresti” ne avevano ben recepito le tradizioni nautiche, militari, culturali e storiche. La lingua corrente era il veneto, a tutti i livelli. Nel 1849 dopo la rivoluzione veneta capitanata dal settario Daniele Manin c’era stata, è vero, una certa “austricizzazione” : nella denominazione ufficiale l’espressione “veneta” veniva tolta, c’era stato un notevole ricambio tra gli ufficiali, il tedesco era diventato lingua “primaria”. Ma questo cambiamento non poteva essere assorbito nel giro di qualche mese; e non si può quindi dar certo torto a Guido Piovene, il grande intellettuale veneto del novecento, che considerava Lissa l’ultima grande vittoria della marina veneta-adriatica. 
I nuovi marinai infatti continuavano ad essere reclutati nell’area veneta dell’impero asburgico, non certo nelle regioni alpine, e il veneto continuava ad essere la lingua corrente, usata abitualmente anche dall’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff che aveva studiato (come tutti gli altri ufficiali) nel Collegio Marino di Venezia e che era stato “costretto” a parlar veneto fin dall’inizio della sua carriera per farsi capire dai vari equipaggi. La lingua veneta contribuì certamente ad elevare la compattezza e l’omogeneità degli equipaggi; estremamente interessante quanto scrive l’ammiraglio Angelo Iachino (3) : ” … non vi fu mai alcun movimento di irredentismo tra gli equipaggi austriaci durante la guerra, nemmeno quando, nel luglio del 1866, si cominciò a parlare della cessione della Venezia all’Italia.” Né in terra, né in mare i veneti erano così ansiosi di essere “liberati” dagli italiani come certa storiografia pretenderebbe di farci credere. Pensiamo che perfino Garibaldi “s’infuriò perchè i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo!”.
 
 
 

La marina tricolore brillava solamente per la rivalità fra le tre componenti e cioè la marina siciliana ( o garibaldina), la napoletana e la sarda. Inoltre i comandanti delle tre squadre nelle quali l’armata era divisa, l’ammiraglio Persano, il vice ammiraglio Albini ed il contrammiraglio Vacca erano separati da profonda ostilità. E la lettura del quotidiano francese “La Presse” è estremamente interessante: ”Pare che all’amministrazione della Marina italiana stia per aprirsi un baratro di miserie: furti sui contratti e sulle transazioni con i costruttori, bronzo dei cannoni di cattiva qualità, polvere avariata, blindaggi troppo sottili, ecc.Se si vorranno fare delle inchieste serie, si scoprirà ben altro”.(5)
Gli equipaggia della flotta austro-veneta
esultano per la vittoria a Lissa.
Si arrivò così alla mattina del 20 luglio. ”La Marina sabauda aveva, su quella Austriaca, una superiorità numerica di circa il 60 per cento negli equipaggi e di circa il 30 per cento negli ufficiali. Ma il personale proveniva da marine diverse e risentiva del patriottismo vero ancora vivo nella penisola da poco forzatamente unificata .”  E così in circa un’ora l’abilità del Tegetthoff ed il valore degli equipaggi consentì alla marina austro-veneta (come la chiamano ancor oggi alcuni storici austriaci) di riportare una meritata vittoria. Le perdite furono complessivamente di 620 morti e 40 feriti, quelle austro-venete di 38 morti e 138 feriti . La corazzata “Re d’Italia”, speronata dall’ammiraglia Ferdinand Max, affondò in pochi minuti con la tragica perdita di oltre 400 uomini, la corvetta corazzata Palestro colpita da un proiettile incendiario esplose trascinando con se oltre 200 vittime. E quando von Tegetthoff annunciò la vittoria, gli equipaggi veneti risposero lanciando i berretti in aria e gridando: “Viva San Marco” . Alla fine, nonostante le sconfitte di Custoza e Lissa, il Veneto passò all’Italia sabauda.
Persano ebbe il coraggio, una volta tornato in porto, di affermare di aver vinto la battaglia contro il Tegetthoff ricevendo festeggiamenti in suo onore.
Quando si venne a sapere la verità il Persano fu arrestato e perse praticamente tutto, soprattutto la dignità.




A guerra terminata, il 15 aprile 1867, l’ammiraglio Persano dopo un lungo processo, riuscì a farsi scagionare dalle accuse di alto tradimento e viltà di fronte al nemico, fu ritenuto colpevole dei reati di negligenza, imperizia e disubbidienza, per i quali venne condannato alle dimissioni forzate, alla perdita dei gradi e alle spese di giudizio. Successivamente la corte dei conti lo priverà anche della pensione.











La mediazione francese, la fine della guerra e la pace





Napoleone III.
Nel frattempo, dopo la battaglia di Sadowa, Bismarck aveva acconsentito sia ad una mediazione francese che all’armistizio con l’Austria. Egli pose però alcune condizioni: riforma della Confederazione germanica con l’esclusione dell’Austria dagli affari tedeschi e controllo prussiano dei territori tedeschi a nord del fiume Meno. Da parte sua il governo Ricasoli subordinò la tregua alla consegna della fortezza di Verona a mo’ di pegno, alla cessione del Veneto direttamente dall’Austria (senza il passaggio alla Francia), e al riconoscimento di quella che gli invasati nazionalisti tricoloruti chiamavano  "frontiera naturale" (cioè alla cessione anche di Trento e Bolzano). Bismarck si disse ovviamente  d’accordo.
Napoleone III, dopo aver esaminato le proposte prussiane formulò una contro-proposta che sottopose alla Prussia e all’Austria: essa corrispondeva approssimativamente alle richieste di Bismarck. In più proponeva la facoltà per gli stati tedeschi a sud del Meno di creare una loro confederazione e l’integrità dell’Impero austriaco, tolto il Veneto. Il piano francese fu accettato da Vienna e da Berlino e il 21 luglio si giunse ad una tregua di 5 giorni a partire dal mezzogiorno del 22 luglio. Visconti Venosta, avvisato dalla Francia della tregua, cercò di guadagnare qualche giorno nella speranza di una improbabile vittoria militare, ma il 22 giunsero le notizie della sconfitta di Lissa rendendo la tregua inevitabile anche per l’Italia sabauda , che vi aderì di corsa il giorno dopo con decorrenza la mattina del 25.

File:Otto vBismark.jpg
Otto von Bismarck
Il ministro degli Esteri Visconti Venosta diede tuttavia istruzioni all'ambasciatore a Berlino Giulio De Barral (1815-1880) che, per quanto concerneva l’imminente armistizio, doveva insistere e porre le seguenti condizioni: cessione del Veneto senza alcuna condizione, e frontiera lungo la linea Trento-Bolzano. Sul primo punto Bismarck si dichiarò d’accordo, mentre riguardo al Tirolo, che comprendeva il Trentino, oppose un netto rifiuto. Egli sostenne che aveva accettato il piano di Napoleone III che garantiva l’integrità dell’Impero d'Austria . Oltre la Prussia e la Francia, anche la Gran Bretagna si dimostrò scettica sul diritto accampato dagli arraffoni tricoloruti su quel territorio. Visconti Venosta rinviò allora ogni decisione sull’armistizio, nella speranza che una sempre più improbabile  vittoria militare gli desse maggiore capacità di contrattazione. Tuttavia il tempo era limitato, poiché il 26 luglio Austria e Prussia siglarono l’armistizio ed i preliminari di pace. Il 29, quindi, per non rimanere a combattere da sola , e con il rischio di capitolazione totale,  contro l’Austria, l’Italia sabauda  aderì formalmente all’armistizio, ma , per ogni evenienza, senza firmarlo.




L’armistizio di Cormons:



Di questa situazione si giovarono i vincitori del fronte meridionale, gli Imperiali,  che posero al governo sabaudo  come condizione per la firma dell’armistizio l’evacuazione delle zone del Trentino occupate dalle bande mercenarie e dalle truppe regolari. Per cui, il 6 agosto 1866, Vittorio Emanuele II telegrafò al presidente del Consiglio Ricasoli che, nella impossibilità di riprendere (da soli) la guerra senza rischiare una sonora ed inevitabile sconfitta, bisognava disimpegnarsi dal Tirolo. Ricasoli rispose che ritirarsi avrebbe prodotto un effetto negativo sull’opinione pubblica. Contemporaneamente i rappresentanti sabaudi a Berlino e Parigi cercarono in tutti i modi, ma senza successo, di spingere quei governi a persuadere l’Impero d'Austria ad accettare l’armistizio sulla base dell’uti possidetis, e cioè sulla base di quanto l’esercito sabaudo  aveva occupato durante lo sgombero delle truppe Imperiali dal Veneto. Il 9 agosto, constatato l’isolamento in cui l’aveva posto l’iniziativa asburgica , il governo sabaudo disponeva il ritiro delle truppe dal Trentino.

Le legittime province alpine dell'Impero d'Austria
ancora sotto il suo legittimo governo dopo la terza guerra
di espansionismo sabaudo.
Dopo lo sgombero del Trentino si giunse alle trattative per l’armistizio. Superati alcuni  ultimi capricci tricolore , esso fu stipulato il giorno 11 agosto 1866 e firmato il giorno dopo a Cormons dal generale Petitti per conto del Savoia  e dal generale Karl Möring o Moering (1810-1870) per l’Impero d'Austria. L'armistizio, della durata di 4 settimane, venne accettato da ambo le parti alle seguenti condizioni da trattare in un secondo momento: riunione del Veneto all’Italia sabauda , plebiscito delle popolazioni - che si dimostrerà nuovamente una farsa -  riserva di trattare nei negoziati di pace la questione dei confini.






Fine 2° Parte...



Fonte:

  • Sandro Bortolotti, La guerra del 1866, Milano, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1941. (ISBN non esistente)
  • Luigi Chiala, Ancora un po’ più di luce sugli eventi politici e militari dell’anno 1866, Firenze, Berbera, 1902. (ISBN non esistente)
  • Alfredo Comandini, L’Italia nei cento anni del secolo XIX, Vol. IV (dal 1861 al 1870), 5 voll, Milano, Vallardi, 1929. (ISBN non esistente)
  • Marco Gioannini e Giulio Massobrio, Custoza 1866, Milano, Rizzoli, 2003. ISBN 88-17-99507-X
  • Vittorio Giglio, Il Risorgimento nelle sue fasi di guerra, Vol. II, 2 voll, Milano, Vallardi, 1948. (ISBN non esistente)
  • Giancarlo Giordano, Cilindri e feluche. La politica estera dell’Italia dopo l’Unità, Roma, Aracne, 2008. ISBN 978-88-548-1733-3
  • Piero Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1962. (ISBN non esistente)
  • Marco Scardigli, Le grandi battaglie del Risorgimento, Milano, Rizzoli, 2011. ISBN 978-88-17-04611-4
  • Aldo Antonicelli (aprile 2012). I cannoni di Lissa. Storia Militare (223): pp. 26-36.
  • Jack Greene; Alessandro Massignani, Ironclads at War: The Origin and Development of the Armored Warship, 1854-1891 (in inglese), Da Capo Press, 1998. ISBN 0938289586
  • Ermanno Martino (luglio 2011). Lissa 1866: perché? (1ª parte). Storia Militare (214).
  • Ermanno Martino (agosto 2011). Lissa 1866: perché? (2ª parte). Storia Militare (215).
  • Martino Sacchi, Navi e cannoni: la Marina italiana da Lissa a oggi, Firenze, Giunti, 2000. ISBN 88-09-01576-2
  • Giacomo Scotti, Lissa 1866. La grande battaglia per l'Adriatico, Trieste, LINT Editoriale, 2004. ISBN 88-8190-211-7
  • “LISSA, l’ultima vittoria della Serenissima (20 luglio 1866)”, edito da “Il Cerchio” di Rimini.
    Tra Asburgo e Prussia - La Germania dal 1815 al 1866.  Di Heinrich Lutz, il Mulino - Le vie della Civiltà.
     

    Scritto a cura di:

    Presidente e fondatore dell'A.L.T.A. Amedeo Bellizzi.